A Milano

Ciclisti in corteo e gambaletti. Inediti parallelismi alla Fashion week

Gambe a vista ovunque, culotte a vita alta, giacche lunghe, in un raffinamento dello stile già adottato dalle più giovani ma anche per mostrare al meglio gli elementi delle collezioni. Primo bilancio (Fendi, Cucinelli, Prada, Emporio Armani) in attesa di Gucci

Fabiana Giacomotti

Nella città italiana della moda, i ciclisti hanno sicuramente le loro ragioni per protestare, benché si stenti a capirle quando ti sfrecciano fra le gambe contromano sui marciapiedi lanciando occhiate sprezzanti a te, lento bipede, e naturalmente tutti i morti su due ruote delle ultime settimane sono una disgrazia, sebbene evitare di infrangere costantemente le regole della strada in quanto esseri superiori, investiti della missione divina di contribuire al benessere del pianeta, contribuirebbe a evitarne qualcuna.

Insomma, va bene ciclisti, protestate pure. Il sindaco Beppe Sala avrebbe però potuto aspettare un paio di giorni prima di concedere loro il lusso di bloccare mezza città per un corteo di protesta in una di quelle sere piovose di fine settembre durante le quali qualche migliaio di ospiti internazionali, abbastanza seccati di non trovarsi già a Parigi ma in una delle città più inquinate d’Europa, sfrecciano da una parte all’altra – orrore, in auto - fra sfilate e presentazioni. Non ci sono dubbi che usare tutti la bici sempre sarebbe fantastico, come ovvio più ecologico, e non costringerebbe i brand, Giorgio Armani in testa, a piantare alberi a ogni sfilata per neutralizzare il Co2 prodotto da tutti gli NCC che trasportano stampa e buyer, in una di quelle operazioni che fanno bene al cuore di tutti ma che risolvono ben poco nell’immediato.

Però, se il Comune si inorgoglisce per gli 80 milioni di fatturato indotto portati dalla moda e dal “giro” internazionale che porta, dovrebbe anche non metterla nelle condizioni di lavorare al peggio delle sue possibilità. Dunque, volti rovinati dallo smog, pulirsi la faccia la sera a Milano è diventata un’operazione disgustosa che imbeve i batuffoli di cotone di una spessa patina grigia, e tutti soffrono di una tossetta rauca del genere che fino a qualche anno fa colpiva solo in Cina, mentre vigili ignari a piazza Cordusio espongono cartelli che indicano incidenti inesistenti (“ah, invece c’è un corteo? Noi non sappiamo niente, no, di qui non può passare”) e in via Fiori Chiari si ri-smonta il set approntato negli ultimi due giorni in vista della sfilata più attesa della settimana, Gucci nella nuova direzione creativa di Sabato De Sarno, e vengono diramati velocissimi inviti per le 15 di oggi, all’hub del gruppo in via Mecenate.

Peccato, l’idea del percorso artistico-nostalgico attorno all’Accademia di Brera, la galleria d’arte temporanea aperta per mostrare i primi artisti coinvolti nel nuovo corso interessante anche per i residenti. Le previsioni meteo hanno avuto ragione del progetto, meglio sfilare al chiuso e non rischiare come ha fatto Diesel l’altra sera alla vecchia Dogana, dove la sfilata festosissima per migliaia di persone, con gran colonna sonora techno-rave, è stata funestata dalla pioggia battente e i denim sfilacciati, decomposti, spalmati di Glenn Martens, idolatrati dai giovanissimi, sono andati un po’ persi nella calca degli ombrelli.

A tre giorni dall’inizio dell’unica settimana della moda che contenda davvero lo scettro a Parigi (a prescindere dalle riflessioni del Wall Street Journal sulla futura, inevitabile cessione dei nostri marchi alle multinazionali, i grandi gruppi indipendenti del lusso italiano sono molto numerosi e la filiera solidissima, cosa che non si può dire di quella statunitense, e nulla ci ha inorgoglito più della battuta di Armani sulla smania acquisitiva “ridicola” dei gruppi francesi) si può iniziare a tracciare un primo bilancio, soprattutto in termini di stile. Non credevamo che la festa sgambatissima di Calzedonia di lunedì sera, duemila ragazze di ogni altezza e peso in collant e minigonne o culotte, fosse programmatica di una tendenza, e invece sì. I gambaletti velati portati a vista in passerella da Prada un paio di stagioni fa, sono comparsi nello styling di pressoché tutti i brand del lusso italiano, affiancati a quella che è il vero indumento ubiquo di stagione. Le mutandone, ovvero le culotte a vita alta, minimali o in versione pantaloncino, affiancate alla giacca lunga, dalle spalle ampie ma scese, e immancabilmente strette in vita da una cintura di cuoio. Infinite copiature delle giacche di Daniel Roseberry per Schiaparelli, che in realtà e legittimamente si rifanno a quelle della fondatrice, e insomma siamo sempre lì, fra i primi Anni Quaranta e gli Ottanta rivisitati.

Molto bianco gesso, molto verde nelle tonalità dal salvia al menta ma leggero, arioso, pastello. Molta organza spalmata effetto argento, iridescente, molte paillettes ampie, parecchie frange anche lunghissime. Chilometri di organze leggere, tacchi bassi, scarpe dalla linea affusolata, una generale sensazione di pulizia e linearità. Apre le presentazioni Brunello Cucinelli e con le sue giacche di lino e le sue culotte lavorate in rafia e doppiate in organza è già una summa di tutto: rispetto a un tempo, quando seguiva linee proprie, spesso discoste dal mood del momento, la creatività della maison ha saputo porsi nella testa di serie, e diventare oggetto di emulazioni diffuse. In generale, si ha l’impressione che anche chi fa moda portabilissima e molto intuitiva, come Max Mara, abbia voluto insistere sull’accessibilità e la durata dei capi: una sorta di sottotesto che invita a comprare anche un solo pezzo, anche giusto una giacca o un abito impalpabile del genere che fa Alessandro Dell’Acqua con la sua N21, perché si potranno indossare a lungo.

Anni di comunicazione contro lo spreco di moda usa-e-getta e le tendenze fin troppo temporanee hanno sortito il bell’effetto di produrre capi che in effetti, potrebbero restare nell’armadio a lungo, di qualità evidente. E non a caso, sfilano in genere scomposti: appunto giacche rese importantissime dall’abbinamento con le culotte minimali, gonne accompagnate da top invisibili. Scrive Miuccia Prada, che dopo il Covid è riuscita finalmente a evitare anche le conferenze stampa – come Giorgia Meloni non è una fan degli incontri con i giornalisti, ma a differenza sua può permettersi di inviare giusto dei virgolettati un minuto prima dell’inizio della sfilata – di aver cercato “un ritorno al concreto, alla fisicità e al reale” e di aver cercato di fare del suo meglio “per realizzare cose belle per la realtà di oggi” e non ci sono dubbi che sia quanto è stato fatto: per la prima volte, le note di sfilata non raccontano sensazioni ma sono la pura e semplice descrizione degli abiti, com’era un tempo.

La differenza rispetto a un tempo è lo “spostamento di idee, tecniche e materiali consueti” in forme ed effetti inconsueti, come aggiunge Raf Simons, partner creativo di Miuccia Prada: ed ecco che all’uscita numero 5, “Completo a pantaloncini in lana con cintura”, viene aggiunta l’indicazione del “frammento di abiti in georgette” che indicano un top inconsueto, leggerissimo, che sventola in passerella come una bandiera al cambiamento. “Anche se di solito non lo facciamo, per questa stagione abbiamo voluto parlare dell’artigianalità, della complessità del lavoro che ruota attorno a questi abiti”, dice ancora Raf Simons. “Tutti i ricami sono fatti a mano e la collezione racchiude in sé idee e tecniche studiate e sviluppate a lungo. Questo lavoro è sempre parte di ciò che facciamo e che abbiamo sempre fatto. Volevamo solo renderlo riconoscibile”. La decisione ha un senso, come ovvio non solo per Prada: nell’affastellarsi di molte idee e infinite proposte, talvolta davvero inutili e molto viste, creare capi di grande qualità e molto riconoscibili permette di staccarsi dal coro e di diventare memorabili, che è poi la ricetta seguita, pur nelle infinite variazioni, da Armani con Emporio – vedi uscire uno dei suoi pantaloncini e sai immediatamente non solo che sono “suoi”, ma anche che non dovresti averli già nell’armadio, così come i top di cannette e cristalli dei completi da sera, sempre inarrivabili – e finalmente anche da Kim Jones per Fendi. Gli sono servite molte stagioni per capire lo stile e la storia della maison di cui era diventato direttore creativo, ma adesso il suo messaggio è diventato chiarissimo, le linee degli abiti hanno un senso e per i corpi che rivestono e per la storia che raccontano e i colori, anche quando dichiaratamente ispirati alla palette del 1999 di Karl Lagerfeld, come questa volta, trasferiscono un’idea di contemporaneità e di sofisticatezza che, peraltro, si vede anche nella massiccia adozione dell’abbigliamento del marchio da parte delle ragazze di mezzi e di gusto. Fino a poco tempo fa, delle collezioni di Fendi nelle strade si vedevano quasi esclusivamente le borse ideate da Silvia Venturini Fendi, talvolta le calzature. Adesso sono comparsi anche abiti e gonne. Si tratta di un segnale importante.

 

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