Intervista al telefono
Il futuro non è dei giovani, ma dei curiosi. A tutto campo con Pier Luigi Pizzi
Regista e scenografo, amico di Marlene Dietrich e di Saint Laurent, ci racconta la moda e il costume, che governa da settant’anni nei suoi spettacoli, e la grande trappola di Internet che “non dà risposte, offre informazioni”. È questo che ha fatto invecchiare le passerelle: “Solo la conoscenza del nuovo non ti fa guardare indietro”
Certe volte, in occasioni del genere Notte degli Oscar o Golden Globe, a lui e ai suoi amici capita di accendere la tivù, un po’ per curiosità, un po’ per divertimento: “Arrivano le celebrity, fanno il défilé sui red carpet ed è come se non avessi visto nessuno. O, al massimo, volti e abiti che dimentico immediatamente. E lei vorrebbe saperne di più da me su moda, tendenze, fascino? Il divismo è morto, e non lo dico con nostalgia: è un dato di fatto. Così come non esiste più la moda, ma solo prodotti di moda”. Pier Luigi Pizzi è uno dei pochissimi intellettuali che, della famosa triade di Alberto Arbasino che suddivideva la carriera di italiani celeberrimi e onorati, è passato direttamente dalla fase di “brillante promessa” a quella di “venerato maestro”, senza mai rischiare di incorrere nel secondo step, quella del “solito stronzo”. Del resto, è stato così amico dell’autore di “Fratelli d'Italia” da consigliargli, di fronte all’ennesimo e non troppo convinto tentativo di suicidio per brucianti coup de foudre, di impiantarsi delle cerniere lampo sulle vene così da por fine alla sua vita praticamente ogni volta che lo desiderasse: lo racconta nella deliziosa autobiografia “Non si può mai stare tranquilli - Incontri di vita e di Teatro”, scritta per Edt insieme con Mattia Palma.
Di poliedrico ingegno, è architetto, regista teatrale, scenografo, costumista, curatore di mostre e di musei, pittore e scrittore. Però possiede pregi imitabili anche da noi comuni mortali. È di rara cortesia anche con uno sconosciuto al telefono, non si automonumentalizza, pur conoscendo bene le sue sesquipedali doti e, soprattutto, ama coltivare l’impazienza, da non confondere con la fretta “che ne è l’opposto. Non vedo l’ora di mettermi al lavoro su un nuovo progetto e una volta iniziato, proseguo con cura e attenzione maniacali, dedicandovi tutto il tempo necessario. Ma il punto è che avverto una necessità fisica di guardare avanti”. E infatti: l’impazienza è stata il tema della lectio magistralis che ha tenuto nel 2008, per la laurea honoris causa in Scienze dello Spettacolo che gli è stata conferita dall’Università di Macerata. Ha ricevuto un’altra laurea ad honorem lo scorso 29 giugno, a Milano, in Storia e Critica dell'arte. Ma no, non stiano qui a elencare tutti i premi, dice lui con malcelata noncuranza, malgrado la Legion d’Onore e il cavalierato di Gran Croce. E allora, svelti, svelti: si chiacchiera via smartphone di domenica sera in un raro momento di libertà ritagliato tra i suoi innumerevoli impegni: è appena tornato da Parma per il Festival Verdi, dove ha curato regia, scene, costumi e video del nuovo allestimento de “I lombardi alla prima Crociata”, nel frattempo va su e giù da Piacenza per le prove di “Fedora” di Umberto Giordano: “Ho avuto una vita così operosa da non riuscire a quantificare tutte le opere che ho messo in scena. Solo alla Scala, ho fatto più di trenta titoli ma a Venezia saranno più di quaranta”. Madamine, il catalogo non è questo.
Il suo non prendersi sul serio sarà il basso continuo della conversazione, come quando racconta con nonchalance assoluta gli incontri con Pablo Picasso, Marlene Dietrich, Joan Crawford, Valentina Cortese, Yves Saint Laurent, Federico Fellini, Franco Zeffirelli, Luchino Visconti, Paola Borboni, Maria Callas e poi Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Montserrat Caballé, Adriana Asti con cui si sente spessissimo, più complice che amica. “Non devo nulla a nessuno. Tutto quello che ho fatto me lo sono guadagnato e ne sono contento. Forse il non essere mai stato assistente, ma di essere passato direttamente al mestiere del teatro, dopo la laurea, ha fatto di me un autodidatta speciale”.
È mitologia in purezza la collaborazione con il Rossini Opera Festival, ma ci piace ricordargli che nel 1967 lui mise in scena uno “scandaloso” Giuseppe Patroni Griffi in “Metti una sera a cena” con scene ispirate ai quadri di Mondrian, recitato dalla leggendaria Compagnia dei Giovani composta da Giorgio De Lullo-Rossella Falk-Annamaria Guarnieri- Romolo Valli. Interpreti eccezionali con cui l’anno prima aveva allestito “Il giuoco delle parti” ispirandosi ai quadri di Casorati. E a rivedere oggi “Come tu mi vuoi”, del 1980, con la regia di Susan Sontag, di cui Pizzi cura costumi e scene, ci sono sul web, immagini di un’Adriana Asti “femme fatale” con capelli impomatati in tuniche luccicanti come pietre preziose: è l’Ignota rivestita di canottiglie rosse od oro, che si potrebbero attribuire a un Gianfranco Ferré di allora. “Per me i costumi di scena sono degli abiti a tutti gli effetti, delle bucce plasmate sul corpo degli interpreti perché diventino personaggi.. Moda e costume sono connessi dal fatto che la prima, nel tempo, si cristallizzerà nel secondo. C’è una grande responsabilità a fare tutto da solo, però è più facile perché le decisioni sono solo mie”.
Novecentesco per l'anagrafe – nasce a Milano nel 1930, dove si laurea in architettura – il maestro colloca le sue radici culturali in un tempo che interpreta perfettamente lo zeitgeist, condito però da epifanie di futuro, anche quando si tratta di dirigere e allestire opere storiche dove “non sono mai venuto meno al mio stile, che non ha a che fare né con la moda in senso stretto né con la storia del costume, anche quando devo ricreare mondi e atmosfere lontani dal nostro tempo: tendo alla semplificazione, all’essenzialità, a una semplicità che evoca consonanze mentali ed emotive senza ricerche superflue o compiacimenti narcisistici. È questa l'armonia che cerco di contaminare con l’immaginario estetico di oggi”. E l’ha ritrovata? “Faccio fatica. Oggi c’è tutto un mercato che spinge i consumatori a seguire una tendenza invece di un’altra, tutto prevedibile per chi conosce i meccanismi dell’industria. La moda è per sua natura effimera, dura l’espace d’un jour, ed è giusto così: quello che oggi è di moda, domani è già démodé. E quindi facilmente diventa storicizzabile, e i trasforma in un elemento del passato. Ecco perché cerco di evitare che i miei vestiti non siano solo creazioni d’epoca, ma abbiano sempre degli agganci con l’attualità, anche se la trama si svolge in un tempo distante da quello odierno. Questo è il modo in cui faccio funzionare moda e costume: cerco di aggiornare il mio lessico attraverso due linguaggi, quello del colore e quello dei materiali”.
Pizzi sottolinea una riflessione importante, e cioè la doppia velocità della moda: da un lato procede per mutazioni di dettagli, seguite poi da enormi cambiamenti: il tailleur, la minigonna, il nude look e così via. Piccoli passi a cui succedono baratri temporali da colmare. C’è un periodo storico a cui è particolarmente affezionato, che è il Seicento, momento di cui colleziona opere d’arte e dell’ingegno con cui arreda le sue case, soprattutto quella di Venezia. Instancabile lavoratore, raffinato esteta e uomo sempre elegantissimo (con gli immancabili calzini rossi, scaramantici prima del debutto di uno spettacolo), da anni si dedica anche all’allestimento di mostre e alla consulenza per la decorazione filologica di interni storici: gli arredi e le stoffe del Teatro La Fenice di Venezia, dopo l’incendio; il Museo del Teatro alla Scala e, più recentemente, la ristrutturazione dei Palazzi Mocenigo e Fortuny. Tra le mostre, non si può non ricordare il bellissimo omaggio a Giuseppe Verdi, a Palazzo Reale di Milano nel 2001, e la più recente mostra sulla morte di Luigi XIV, nella Reggia di Versailles. “Non sono nato collezionista. Lo sono diventato mentre preparavo una mostra sulla pittura italiana del Seicento, al Grand Palais, per il Louvre. Fu allora che un amico gallerista mi fece comprare un dipinto barocco, il primo pezzo della mia collezione”. Ma per un amante dell’essenzialità efferata - che oggi chiameremmo minimalismo – non è un po’ controsenso essere innamorato di un’epoca carica, gonfia, enfatica? “È un giudizio riduttivo. C’è in questo stile immaginazione, libertà, rigore. Anche il supremamente inutile può sedurre. Del resto, nella moda non è lo stesso?”. Faccia un esempio.
“Proprio nel Seicento, la rhingrave era un capo tipico dell’abbigliamento maschile: braghe così larghe da sembrare una gonna, decorate da una quantità di nastri che non servivano assolutamente a nulla. Ecco, se devo rappresentare il secolo di Molière, le uso per puntualizzarne l’essenza. Se gli chiedessero di ambientare un’opera contemporanea, avrebbe molti dubbi sui capi da usare per restituirne il senso e l’estetica? “Mi colpisce la grande confusione, la monotonia, la volgarità del momento. Se mi guardo attorno, vedo cose spesso imbarazzanti per mancanza di qualità. Un tempo, ai defilé parigini mi invitava il mio amico Yves, e devo risalire alle sfilate di Roberto Capucci, di Giorgio Armani e di Gianni Versace, di cui sono stato molto amico, per poter parlare di cosa sia stata la loro filosofia dell’eleganza. Adesso non ci vado più”. Che cos’è che abbiamo perso, secondo lei? “Il senso delle proporzioni, dell’armonia, della cultura del colore. Vedo un impressionante dilagare di sciatteria. Per esempio, ammiro moltissimo il nudo quando è raffigurato in un'opera, ma se è esibito per far sensazione, per scioccare, è improduttivo”. Rimpiange i bei tempi andati? “Sta scherzando? Preferisco di gran lunga vedere quello che mi aspetta domani, invece di rimpiangere quel che mi è successo ieri. La nostalgia non mi appartiene. Mi interessa il futuro, che non appartiene, paradossalmente, ai giovani. E sa perché? Perché c’è sempre meno curiosità , a causa dei social e dell’informazione digitale: uno pensa di aver esaurito tutto il suo desiderio di sapere dentro il perimetro del rettangolo nero grazie a cui ci stiamo parlando. Mentre invece la cultura si nutre di ricerca, vuole nuove risposte alle nostre domande: Internet non dà risposte, magari offre informazioni. Bisogna saper interrogare. È solo la conoscenza del nuovo che non ti fa guardare indietro”.
Alla Scala