PRIMAFILA
L'arte è industria. Ma anche libertà e valore comune
Dalla Cappella Sistina al cinema, è nel momento in cui l’arte raggiunge la dimensione dell’industria che tocca i suoi apici. Perché l’industria culturale rappresenta la vera libertà dell’arte, la sua non ricattabilità, la sua diffusione veramente popolare, su scala ampia e democratica
Lille, esterno giorno. Il prefetto di Calais annulla l’appuntamento che avevamo programmato mentre sto attraversando l’Atlantico su un aereo che mi porta da New York - la città dove vivo - a Parigi - lo scalo da cui poi prenderò un treno verso la mia destinazione. È questa la sorpresa che mi aspetta una volta atterrato. Faccio un po’ di chiasso. Ottengo un appuntamento con l’assessore alla cultura che conosce bene il prefetto, dal quale sto cercando di farmi dare i permessi a costruire una grande opera ambientale che possa ricucire il trauma politico attorno a quella che era stata ribattezzata la giungla, un grande campo profughi di ottomila abitanti, autogeneratosi alla periferia di Calais tra il 2015 e il 2016. L’opera era un grande arcobaleno alto venti metri e largo cinquanta, tutto costruito in acciaio e legno. E doveva servire a raccontare, come la storia di quegli uomini, giunti nella città sulla Manica da ogni parte del mondo, fosse semplicemente la storia di persone in cerca di una opportunità, di un lavoro, di una vita migliore, lontana da guerre, dittature, povertà. Era un’opera come ingegneria del linguaggio, come innesto di una narrazione poetica nella cronaca di quei mesi e nel sentimento comune dei francesi, che potesse dar voce ad un popolo troppo eterogeno e troppo culturalmente frammentato per essere leggibile al primo sguardo. L’arcobaleno, simbolo ancestrale di rigenerazione e simbolo biblico della pace doveva essere anche foderato nella parte superiore, da pannelli fotovoltaici, contribuendo a rifornire di energia pulita il campo.
La produzione di questo oggetto dal peso significativo di quasi sessanta tonnellate, era già garantita da un gruppo di industriali napoletani, ben felici di sostenere il progetto a proprie spese. Ma la Francia aveva altri piani. Quel rinvio senza una data era l’ennesimo “domani” che mi veniva opposto dopo quasi un anno di contatti. Avevamo prospettive diverse. Io tentavo di creare un piano del dialogo tra due comunità, costruendo uno spazio del simbolico in cui sciogliere i nodi raccontati, in quegli stessi mesi, da Emmanuel Carrère nel libro “A Calais” (Adelphi, 2016); il governo, invece, aveva già in programma di radere al suolo l’intera giungla, con le sue case, le sue scuole, le sue librerie, i suoi teatri, le sue chiese, disperdendo tutti quanti e abbandonandoli a un destino di miseria, illegalità e vulnerabilità nei confronti delle radicalizzazioni islamiche. Quando mi sedetti al tavolino di un bar con l’assessore per manifestarle le mie rimostranze riguardo un appuntamento evidentemente saltato “ad arte”, usai con lei un’espressione molto precisa: «I’m a business man and I can’t waste my time». Lei inorridì. In oltre vent’anni da che, professionalmente, sono un intellettuale che se ne infischia del politically correct e si esprime con una certa chiarezza, non ho mai visto formarsi sulla faccia di nessuno dei miei interlocutori una espressione che trasmettesse tanto disprezzo come mi stava capitando allora. Il fatto che un artista si definisse un business man, la disgustava. Alle sue orecchie era una bestemmia intollerabile. Il resto della conversazione fu gelido. Finché la sua sagometta non scomparve all’orizzonte, portandosi dietro la sua fetta di responsabilità per una catastrofe sociale la cui soluzione aveva bisogno di uomini e donne che sapessero strappare via l’ipocrisia dalle parole se si voleva trasformare uno spazio dell’esclusione in uno spazio del confronto. Lavoravo a Calais da un anno allora, con l’obiettivo di creare una lingua condivisa, fatta di simboli – l’arcobaleno era uno di questi – che potesse far dialogare due mondi apparentemente separati da ogni possibile muro (anche quello fisico che il governo francese fece veramente costruire su finanziamento di Londra, per chiudere la Jungle come fosse un’altra striscia di Gaza nel freddo nord dell’Europa occidentale. Dettaglio non marginale è che quel muro fu edificato nel punto esatto in cui settant’anni prima Adolf Hitler fece costruire il “muro atlantico”. E questo testimonia la sensibilità storica di quei funzionari e dei loro politici).
Ancora non riesco a dimenticare il volto di quella donna e la sua smorfia, ogni volta che ci penso. La smorfia di una piccola burocrate della cultura francese che non esitò ad esprimere nel modo più evidente, pre-linguistico quindi radicale, la sua riprovazione nei confronti di questo giovane artista italiano che, in base a come si poneva, doveva sembrarle un vero e proprio impostore. Gli artisti, per lei, erano, ovviamente, dei tormentati e tenebrosi giovani Werther, ritagliati dalla più trita versione da romanzetto rosa del Romanticismo, al massimo drogati, certamente, dei semi-deficienti, abitualmente in preda ad estri messianici, come nei film di Paolo Sorrentino.
Nessuno di loro avrebbe mai osato definirsi un business man. Eppure, da romano, ogni volta che passo davanti ai pilastri che, nella storia della mia città, ha realizzato Michelangelo Buonarroti, vedo accanto a lui gli oltre trecento operai, tecnici, collaboratori, che facevano parte della sua bottega. E lo stesso per Gian Lorenzo Bernini o altri grandi. Le loro iniziative erano ben oltre il titanismo della volontà. Erano grandi operazioni produttive, nei cui perimetri stavano a pari dignità il dare una forma iconica al Giudizio Universale nella Cappella Sistina, fare i calcoli giusti perché una cupola iperbolica si tenesse in piedi, e mantenere economicamente centinaia di uomini e le loro famiglie da cui dipendeva il buon esito di quelle pagine di storia. Questi artisti, non erano svaniti pensatori, erano grandi capitani d’industria, quando l’industria culturale italiana era la più importante del mondo.
Da questo esempio, varrà la pena riflettere sul fatto che è nel momento in cui l’arte raggiunge la dimensione dell’industria che tocca i suoi apici. Vale in diverse fasi della storia delle arti, l’ultima è stata forse quella in cui il cinema italiano, tra gli anni Quaranta e Settanta del secolo scorso, ha camminato sulla cima del mondo. Poi anche quell’industria si è fatta ditta a conduzione familiare, con un po’ di nepotismo e una buona fetta di assistenzialismo politico. Addio splendore. Perché l’industria culturale rappresenta la vera libertà dell’arte, la sua non ricattabilità, la sua diffusione veramente popolare, su scala ampia e democratica. Quando l’arte è industria, quando in sala o in galleria non ci entrano solo gli addetti ai lavori, ma gli impiegati, gli operai, i ferrovieri, come per i film di Vittorio De Sica, o anche per certi capolavori di Totò, i numeri e gli obiettivi rendono marginali la benevolenza del politico, il clientelismo del mecenate, il pietismo del mediocre. L’industria, ogni tipo di industria, ha bisogno di talento vero, per far ardere i suoi forni. È questa la più crudele e realista assicurazione sulla vita dell’arte. Guardo sempre con un po’ di sospetto tutti gli strumenti di sostegno pubblico, pur essendo, in questa fase della mia vita, un uomo delle istituzioni che cerca di attivarne il più possibile, per dare ossigeno al sistema. E mentre lo faccio, non smetto di pensare che, forse, più che proteggere i miei colleghi, dovrei sforzarmi di costruire un piano teorico e un programma di applicazioni su come liberarsi da una condizione di crisi cronica, tornando ad essere, per davvero, energia produttiva, ad essere, in una parola, industria.
Gian Maria Tosatti, artista, presidente della Quadriennale di Roma, curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2022.
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