IL foglio della moda
Sostenere l'economia della bellezza
Moda, cosmetica, ma anche agroalimentare e turismo, producono valore per 500 miliardi di euro, prima voce nell’aumento del pil nazionale. Lo certifica la nuova edizione della ricerca annuale di Banca Ifis. La strategia dei protagonisti del Made in Italy e difesa dalle mire delle multinazionali più di quanto si creda
Oltre la lagna pubblica sui “gioielli della moda italiana che se ne vanno”, il decreto sul Made in Italy che dovrebbe istituire un fondo sovrano in difesa di questi gioielli ma per il quale disgraziatamente mancano le coperture e le amiche che osservano sconsolate come “ormai non ci sia rimasto più niente perché è tutto dei francesi” e non è vero, ci sono molte osservazioni interessanti da fare sulla cosiddetta “economia della bellezza” di cui l’Italia è massimo sistema e che, secondo l’annuale ricerca di Banca Ifis, per l’edizione 2023 focalizzata sul settore dei mestieri di altissimo artigianato della moda e del design, genera un contributo del 26,1 per cento sul pil. Dunque, al di là dell’evidenza che sono “nostri”, e che talvolta possiedono marchi francesi e tedeschi, i gruppi Giorgio Armani, Prada, Tod’s, Ferragamo, Cucinelli, Dolce&Gabbana, OtB, Moncler, Aeffe, Zegna, aggiungiamoci Calzedonia che adesso controlla Antonio Marras, e che tutti insieme superano abbondantemente il fatturato di Kering e che si avvicinano a quello del comparto moda di Lvmh, e della certezza che, al netto della natura individualista nazionale, se invece della Mediobanca di Enrico Cuccia e del sodale Cesare Romiti col figlio Maurizio al seguito avessimo avuto la Banque Lazard di Antoine Bernheim e un Gian Marco Rivetti in buona salute non sarebbe andata a finire così, non ci sono dubbi che il sistema della bellezza nazionale sia un generatore di potenza economica poderoso.
La ricerca, diretta da Carmelo Carbotti e presentata con la curatela del “Foglio della Moda” a fine settembre al Museo Fortuny di Venezia, scelto proprio perché centro di quel saper fare artistico e di quell’imprenditoria eclettica, dal tessuto alla pittura all’innovazione teatrale, di cui Mariano Fortuny y Madrazo fu interprete geniale, ha dimostrato che, lo scorso anno, il valore dell'economia italiana della bellezza ha sfiorato i 500 miliardi di euro, in crescita del sedici per cento rispetto al 2021 e dell'otto per cento rispetto al 2019. L'economia della bellezza ha contribuito in modo importante alla ripresa dell'economia italiana dopo il biennio pandemico: nel 2022, ha rappresentato il 56 per cento dell'aumento del pil nazionale rispetto all'anno precedente e addirittura il 33 per cento dell'aumento rispetto al 2019, ultimo anno pre-Covid. Di fatto, si tratta di una crescita più che doppia rispetto al resto del sistema produttivo italiano. Poi, non ci sono dubbi che questo sistema così produttivo si basi sulla buona volontà e soprattutto sui finanziamenti dei singoli imprenditori, in particolare nell’ambito del delicatissimo tema del trasferimento delle competenze artigianali, come s’è visto qualche settimana fa al ministero delle imprese e del made in Italy di via Veneto, offerto come location per la presentazione del progetto di valorizzazione degli artigiani fornitori del gruppo di Renzo Rosso, quando il ministro Adolfo Urso ha dovuto ammettere che, mancando le coperture, il progetto di sostegno economico ai pensionati che volessero affiancare le nuove generazioni di artigiani al momento è sospeso (le imprese più grandi riescono a sopperire iniziando i processi di affiancamento professionale già negli ultimi anni di attività dell’artigiano prossimo alla pensione, le piccole realtà non possono permetterselo). Quindi, e benché una quota non irrilevante di realtà manifatturiere sia diventato l’oggetto del desiderio acquisitivo delle multinazionali del lusso, desiderose di dar vita alla stessa filiera che costituisce la spina dorsale del sistema della bellezza italiana (i marchi interessano ormai meno dei maglifici), questo stesso sistema regge, anzi cresce, nonostante l’evidente incapacità pubblica di rafforzarlo affiancandolo con misure specifiche e qualche iniziativa più concreta dell’istituzione della “giornata del Made in Italy”. Sono otto i sistemi che hanno maggiormente contribuito alla crescita del pil della bellezza rispetto al 2019: l’agroalimentare per 13 miliardi di euro, il turismo per 11 miliardi guidano la classifica per percentuale di aumento, ma bene hanno fatto anche la tecnologia, la cosmetica, il sistema casa, l’ambiente, l’orologeria, la gioielleria e l’automotive. Poi, come ogni espressione della natura e dell’opera umana, anche la bellezza risponde a canoni che mutano nel tempo e nel luogo. La sua percezione e la sua stessa essenza variano con l’evoluzione delle sensibilità singole e collettive, sospinte dalle trasformazioni della società, talvolta brusche o violente ma, se si dovesse definire o circoscrivere il concetto oggi, nella realtà imprenditoriale italiana e internazionale, questa bellezza non potrebbe che rispondere alle “contraddizioni creative” sulle quali Giulio Cappellini, designer-imprenditore simbolo dell’affermazione italiana nel mondo, ha costruito la propria fortuna: “Dall’Italia il mondo si aspetta bellezza”, dice, “e questo fa parte della nostra storia; noi, però, sappiamo infondere bellezza anche nella tecnologia, e questo è irripetibile. Dunque, lo dobbiamo difendere”.
Nella scelta degli imprenditori e dei creativi da coinvolgere nel progetto “Economia della bellezza 2023” (in ordine alfabetico: Giovanni Bonotto, Cappellini, Brunello Cucinelli, Antonio De Matteis, Barnaba Fornasetti, Alessandro Iliprandi, Gian Luca Gessi, Silvia Grassi Damiani e Alberto Masotti, ai quali si sono affiancati il presidente della Fondazione Venezia Michele Bugliesi e gli artisti François Berthoud e Gian Maria Tosatti, che ha fatto della riflessione sul valore e il ruolo dell’industria per l’Italia il fulcro dello straordinario Padiglione Italia della Biennale Arte 2022, in cui ha esplorato il difficile equilibrio fra uomo e natura, i sogni disperati e i trionfi del passato di un Paese pagati a prezzo dell’innocenza e della sua visione estetica) si è deciso di lavorare sulla visione. Un sostantivo tanto abusato quanto perfetto per includere molte personalità dotate di quella particolare capacità di vedere che - l’etimologia è una chiave interpretativa potentissima – nella costruzione originaria latina di videre contiene la radice id che si ritrova anche nel verbo greco Οἶδα e che indica il sapere. La “visione” come capacità di conoscere superando il mero senso della vista. Gli imprenditori che hanno accettato di offrire la loro storia e testimonianza sul tema della bellezza sono, tutti, creatori di progetti innovativi, rivoluzionari e a lungo termine a cui hanno dedicato ogni momento della loro vita o, in alcuni casi, della loro seconda esistenza professionale, votata alla formazione delle nuove generazioni e alla preservazione del bello, dopo decenni consacrati al benessere delle loro aziende.
Questa molteplicità di vedute ha permesso di dar vita a un quadro fatto di ampie campiture luminose, cioè di indicazioni strategiche, e di dettagli tattici, fra i quali è evidente che la coesione, la collaborazione fra settori diversi e l’apertura al nuovo e alla diversità siano determinanti. “Negli ultimi anni i confini fra arte e design, fra uso e decorazione si sono fatti sempre meno definiti”, osserva Grassi Damiani, che nell’acquisizione di Venini e nello studio della sua ricchissima storia ha trovato infiniti punti di contatto (sia l’oro sia il vetro nascono dall’abilità manuale dell’uomo e dal fuoco) con la storia dell’azienda di famiglia, che nel 2024 festeggerà il centenario. “Sapevamo che acquisire Damiani significava raccogliere un’importante eredità ma soprattutto impegnarsi in una promessa, mantenendo fede al testamento creativo e visionario del fondatore Paolo Venini e al suo orgoglio artistico, proseguendo nel cammino tracciato. E adesso sono orgogliosa che si stia valutando l’apertura e l’accensione di nuovi forni, e che molti giovani stiano tornando a questo antico e meraviglioso mestiere, spesso accanto ai padri”. Nell’imprenditoria nazionale, e anche questa è una grande differenza con altri Paesi, il campo semantico “economia della bellezza” include tanto la precisione e la raffinatezza della manifattura quanto la dimensione sociale da cui questa bellezza origina, in particolare al centro e al sud. Qualunque sia il grande sarto o l’industriale con cui ci si intrattiene sull’argomento, prima ancora di menzionare il tessuto d’eccezione di cui riveste e serve i suoi clienti, parla del tessuto sociale di cui spera di aver intessuto più fittamente la trama. La dignità del lavoro, il salario adeguato alle mansioni, il supporto garantito ai dipendenti perché nell’acquisto della casa o nei loro investimenti ottengano le stesse condizioni bancarie riservate ai vertici, la formazione offerta ai giovani: questi sono gli argomenti primari per esempio per Antonio De Matteis detto Totò, presidente e amministratore delegato di Kiton, da meno di un anno presidente di Pitti Immagine, e per Cucinelli, che osserva come il “capitalismo umanistico” su cui ha basato la crescita sempre sostenutissima della sua azienda (“are you wearing a Brunello?” ti dicono ormai le persone per strada negli Stati Uniti, così come citano affettuosamente, con l’elisione, “Dolce”) sia “un po’ un’intelligenza etica, l’intenzione primaria e regola di ogni aspetto del nostro lavoro; una visione che si trasmette con parole ma ancora più con i fatti, lasciando che si faccia strada”. Appartiene per esempio al capitalismo umanistico che ormai sta contagiando molti imprenditori italiani l’idea “cucinelliana” che ai “concetti di consumo e di scarto subentrino quello dell’utilizzo e del recupero delle cose fisiche”, compreso l’uso migliore delle risorse intellettuali e del tempo dei collaboratori. Come dice Gessi, “delle persone dobbiamo valorizzare l’intelletto, non la fatica fisica”. L’economia della bellezza è anche questo. “Bisogna opporsi”, osserva Cappellini, “a tutto ciò che è superfluo”, al bling bling di questi tempi di accesso superficiale al consumo, e al tempo stesso all’immoralità che si spacci alla massa “qualunque cosa, nella convinzione che tutto le piaccia”. Le sfilate per la prossima primavera-estate, appena presentate a Milano e a Parigi e di cui Gucci con il nuovo corso è stato il simbolo, sono andate esattamente in questo senso. I mercati finanziari non le hanno ancora sapute premiare. Si conta capiscano.
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