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L'analisi

Sempre più imprese si affidano alla direzione di artisti senza esperienza diretta

Fabiana Giacomotti

Il ritorno dei direttori creativi soppianta il mito del mestiere unico e univoco e l'industria italiana dimostra la sua apertura e creatività

Il modello a cui tutti guardano e che cercano di imitare è ovviamente Pharrell Williams, da meno di un anno alla guida delle collezioni uomo di Vuitton con popolare successo di vendite, pur nell’ambito di un settore lusso che inizia a rallentare la propria corsa. Ma la realtà che vede un numero sempre maggiore di creativi chiamati a dirigere imprese per le quali non hanno esperienza diretta, ha radici molto antiche e motivazioni che sottendono e annunciano la fine di un’era. Al di là della lagna di quelli che "io avevo studiato per fare un'altra cosa", che è più o meno quello che è accaduto a chiunque, molti segnali ci indicano infatti che stia tornando l’era rinascimentale delle competenze diffuse, multiformi, molteplici, diciamo dei Leonardo da Vinci che disegnavano macchine da guerra ma anche scarselle eleganti per le signore, e che questa stia soppiantando il mito del mestiere unico e univoco svolto fino alla dissoluzione delle competenze e dell’entusiasmo, un ordinamento nato nel Medio Evo delle gilde, normato dal capitalismo e celebrato dal culto, molto italiano e oggetto di molte ironie cinematografiche, del posto fisso.

L’ultimo di questi segnali è arrivato poche ore fa. Nelle stesse ore in cui Aeffe comunicava la nomina di Davide Renne a direttore creativo di Moschino, una scelta usuale che premia un ottimo designer della grande scuola Gucci nata vent’anni con Tom Ford, Alessandro Giglio dell’omonimo gruppo di progettazione e gestione di piattaforme di e-commerce (si occupa, fra gli altri, delle attività online di Stefano Ricci e dei fratelli Rossetti), faceva sapere di aver chiesto a Davide Livermore di dirigere l’evoluzione creativa di Nira Rubens, marchio di sneaker dipinte a mano – cuoricini, stelline - piuttosto diffuso fra i cultori del genere, soprattutto all’estero e in particolare in Germania e negli Stati Uniti. Giglio, che fra le molte attività e interessi presiede il Teatro Nazionale di Genova di cui Livermore è direttore artistico, ha acquisito il marchio da pochi giorni, forse per replicare il successo di Golden Goose, del quale ha affiancato l’ascesa negli anni scorsi.

I due, insomma, sono amici e si stimano, ma non è questo il punto. Il primo punto è che dopo Virgil Abloh e dopo Williams, anche un creativo italiano, noto per aver “diretto quattro aperture scaligere” sovrintenderà un brand di scarpe da jogging e passeggio di posizionamento medio-alto, dopo aver guidato i passi di Anna Netrebko, Lady Macbeth, su quel cornicione del palcoscenico del Piermarini da cui tutti temevamo di vederla cadere. Il secondo punto è che, temendo evidentemente parecchio quello che definisce il “settarismo della società italiana”, Livermore, che abbiamo chiamato al telefono per un commento sulla nomina e qualche anticipazione sul suo primo lungometraggio, “The opera”, produzione Rai con Vincent Cassel e Caterina Murino vestita Dolce&Gabbana, si sia lanciato in un’intemerata molto auto-assolutoria e molto superflua sul suo “fare arte da trent’anni”, dimostrando come l’industria italiana che chiama i Williams e i Livermore sia infinitamente più aperta e creativa di quanto credano i creativi stessi.