Miranda Kerr durante il Victoria's Secret fashion show a New York nel 2009 (Dimitrios Kambouris/WireImage) 

Ritorno al sexy. La svolta “diversity and inclusion” di Victoria's Secret è fallita

Fabiana Giacomotti

L’ipocrisia delle mutandone e il problema fondamentale: la qualità

Tre minuti dopo aver letto sulle testate americane la notizia della decisione dei vertici di Victoria’s Secret di rivedere la fallimentare strategia “woke” per riabbracciare la “sexiness” vecchia maniera, si spera non le modelle con le ali da angelo ma potremmo andarci vicino, sono scesa dal treno alla Stazione Termini e ho buttato l’occhio sulle vetrine dello spazio commerciale del marchio all’ingresso. Da un paio di stagioni, vi fanno imponente mostra di sé manichini taglia 46 o forse anche 48, succintamente abbigliati ma con gran brutte cose addosso, cioè con lo stesso genere di mutandone e reggisenoni beige atti a contenere carni abbondanti che un tempo le mercerie tenevano nei retrobottega e che le signore costrette a servirsene chiedevano alle commesse, oggi sales executive, con quel misto di protervia e di mestizia che, senza alcun dubbio, si potrebbe ritrovare all’origine del grande boicottaggio della moda “non inclusiva” degli ultimi anni, la grande rivoluzione nella quale le tante che non vogliono fare sport e nemmeno privarsi del doppio piatto di pasta quotidiano per uniformarsi a un ideale estetico prevalentemente maschile hanno tentato di imporre una variazione dei codici estetici mondiali. 

  

Da un paio di stagioni, nelle vetrine fanno mostra di sé manichini taglia 46- 48, succintamente abbigliati ma con gran brutte cose addosso

  
Ricordate la vecchia battuta di Queen Latifah su come sarebbe il mondo senza uomini? “Un bel gruppo di donne grasse e zero crimine”. Ecco, non sta andando così. Il crimine è in ascesa, in particolare a Milano dove le denunce sono aumentate del venti per cento nel giro di pochi mesi e si ha paura a scendere dal treno alla Stazione Centrale dopo le ventidue. Sulla rappresentatività delle donne sovrappeso, le “non conformi”, locuzione ipocrita e comunque assolutista sulla quale tornerò a breve (non conformi a che cosa?), è evidente che non abbia ottenuto un grande successo, visto che nell’ultimo anno le passerelle sono tornate a popolarsi di bellissime e altissime, o anche di eccentricissime e curiosissime ma comunque alte e magre ad eccezione di un’unica ragazza fuori taglia mandata sotto i riflettori per prevenire, troncare e sopire eventuali accuse allo stilista. La modella in “quota diversity”, come viene definita dai direttori casting, non manca mai, ma in genere è sola, occultata in un esercito di ragazze favolose, per lo più caucasiche. Il caso di Victoria’s Secret è però particolare e merita una digressione, per cui l’altro giorno ho estratto il cellulare dalla borsa, ho scattato una foto per poter rivedere la vetrina con calma a casa e, nel momento in cui la esaminavo davanti a una tisana – il treno era come al solito in ritardo, non c’erano taxi ma folle armate di trolley e gelatini al cono, insomma si erano verificati i soliti, quotidiani accidenti di un paese troppo “aperto alla meraviglia”, dovevo riprendermi – mi è balenato il sospetto che se la campagna woke di Victoria’s Secret si è rivelata fallimentare e le proiezioni di vendita per l’anno in corso sono pari a 6,2 miliardi di dollari, in calo perfino rispetto all’anno del Covid, questo accada semplicemente perché la marea di coppe D e E e F in vendita sono semplicemente brutte, e la qualità complessiva dei manufatti molto scarsa. Si può scrivere, che la lingerie in vendita da Victoria’s Secret è poco attraente, nel magico mondo in cui tutti sono bravi e i critici hanno smesso di fare il loro mestiere, almeno ufficialmente perché nei backstage delle sfilate o fra le poltrone dei teatri d’opera si ascoltano prese di posizione opposte a quelle che poi si trovano stampate il giorno dopo? 


La verità incontrovertibile, che nessuno osa dire perché il gruppo L Brand che governa Victoria’s Secret ha ancora un suo potenziale pubblicitario importante, mentre la carta stampata soffre come mai prima d’ora e gli influencer lavorano in cambio merce, è che se la strategia della “diversity and inclusion” ha fallito, è innanzitutto perché troppo tardiva e ipocrita, e in seconda battuta perché i capi sono semplicemente lontani, lo scrivo da boomer europea, al gusto del mondo che si sviluppa a est dell’Atlantico e alla qualità anche media a cui è abituato. Qui non indossiamo biancheria in poliestere viola, o argento, o in tulle sintetico a pois o giallo evidenziatore, e se compriamo seta non lo facciamo da Victoria’s Secret dove costa quasi come quella di Eres che però ha tutt’altri tagli e garbo, mentre le coppe preformate dei reggiseni in vendita tre per due, rigide come tazze per i corn flakes, non solo ci appaiono, ma ci rendono grottesche. Si può scrivere tutto questo, e cioè che la merce di Victoria’s Secret non ha un minimo di rapporto qualità-prezzo, oltre a perderci nelle disquisizioni sul woke? 

 

Poi l’inversione di rotta poco credibile non solo nei contenuti, ma anche nelle condizioni di partenza, e cioè che Victoria’s Secret lusso non è

  
Ci sono stati anni, diciamo i primi Novanta in cui il fondatore Roy Raymond furoreggiava, in cui Victoria’s Secret produceva collezioni discrete e aveva un design sofisticato. Entrare in quei negozi dai colori caramellosi per comprare sottovesti e mutandine dichiaratamente “divertenti”, cioè sexy e pure un po’ sporcaccione, era una piccola avventura entusiasmante. Quegli anni si sono esauriti ben prima che l’ondata dei pasionari dell’estetica libera – basta diktat sul peso, sull’altezza, sul genere – travolgesse le sfilate degli “angeli”, le modelle favolose che rispondevano ai nomi di Bella e Gigi Hadid, Isabeli Fontana e Adriana Lima, con le loro forme-molto conformi e la loro evidente e spesso innaturale, cioè chirurgica, adesione a quelli che oggi vengono considerati i canoni sessisti ante-#metoo. Correva il 2018, e i vertici della multinazionale del gruppo, già lambiti dallo scandalo di Jeffrey Epstein, decisero di sospendere quelle manifestazioni di bellezza femminile irraggiungibile per i nove-virgola-nove decimi del mondo, nonostante venissero diffuse in quasi cento paesi, per lanciare il progetto “VS Collective”, una sorta di collettivo estetico para-femminista accompagnato dalla dichiarazione di intenti: “To advocate for women”. Comprare reggiseni era diventato, insomma, un atto politico, un po’ come bruciarlo (simbolicamente, i roghi sono una leggenda) per le mamme o per le nonne settant’anni fa. L’impegno pro “body positivity” di Victoria’s Secret includeva non solo le “plus size”, ma anche i transgender e le disabili, mentre le sfilate si trasformavano, negli obiettivi si “evolvevano”, in tour video di “motivazione e ispirazione”, dove donne come Naomi Campbell (che, bisogna dirlo, è infinitamente più potente adesso di quanto fosse vent’anni fa), leggevano poesie, e le brand ambassador, le ambasciatrici del marchio, diventavano la star del calcio femminile Megan Rapinoe o la modella Paloma Elsesser, che dichiarava come fosse “assurdo escludere una parte così importante di clienti potenziali dalla moda”. Victoria’s Secret faceva insomma ammenda per i propri peccati di mancata inclusione e provvedeva con scelte politicamente correttissime ad adeguarsi agli stessi standard adottati dai marchi del lusso, imprimendo un’inversione di rotta poco credibile non solo nei contenuti, ma anche nelle condizioni di partenza, e cioè che Victoria’s Secret lusso non è. 


Marchi come Valentino o Gucci, in particolare negli anni passati, hanno impresso un’evoluzione importante alla percezione della bellezza o della “conformità”, allargandone i confini ma calibrando con attenzione il messaggio, rivolgendolo cioè attraverso iniziative mirate a un pubblico attento e già disposto a mettere in discussione le proprie convinzioni, quindi un pubblico generalmente occidentale e mediamente colto, interessato magari e perfino a servizi di moda “indie” interpretati dalla comunità dei transgender brasiliani. Ma una cosa è poter declinare il messaggio nel mondo sofisticato – fino all’era pre-Meloni si sarebbe definito “radical chic” – che si fa un punto d’onore di comprendere, capire, tollerare; un altro dover comunicare con un solo linguaggio alla massa indistinta che in Italia spintona per strada le turiste americane sibilando “spostati, culona” e che in Asia fa ancora di peggio. Tendiamo a dimenticarcene, concentrati come siamo nella nostra autoreferenzialità e nel nostro sentimento di colpa universale, ma in paesi come la Corea e il Giappone, la non conformità a uno standard di bellezza giovane, etereo, sottile, candido, è considerato alla stregua di un delitto e, progredendo con l’età, a un mancato rispetto della sacralità del corpo che ci viene consegnato intatto e perfetto e di cui noi spirito che lo abitiamo dovremmo avere cura, eccezion fatta per i lottatori di sumo, suppongo, e che comunque rispondono anche loro a regole e obiettivi etici precisi. Per vedere quanto questo modello sia radicato e pervicace, basta osservare le ultime campagne pubblicitarie di Prada che, pur molto elastiche sull’armonia dei volti, dimostrano un’adesione puntigliosa ai canoni della bellezza europea e asiatica, area di mercato fondamentale per il brand, che vengono rappresentati da un numero significativo di bellezze sottili e slanciate come le geishe di una xilografia di Utagawa Kunisada. 


Insomma, come dice quel nuovo-vecchio adagio del marketing, “go woke, go broke”, soprattutto per i prodotti più popolari. Pochi mesi fa, la birra Budweiser era crollata in Borsa dopo aver scelto l’attivista trans Dylan Mulvaney come testimonial. Adesso, Victoria’s Secret ha dovuto riconoscere che il grande successo mediatico del cambio di rotta “non si è mai tradotto in un aumento delle vendite”, smentendo dunque platealmente la giovane Paloma: quando Victoria’s Secret ha smesso di “escludere” le plus size e le obese, quelle stesse donne, ed evidentemente anche molte altre, hanno smesso di entrare nei suoi negozi. Bisogna capire perché, e le ragioni possibili sono due. La prima è plasticamente rappresentata da quei tristi reggisenoni beige visti l’altro giorno a Termini: per quanto voglia affermare i propri come canoni estetici imprescindibili, è evidente che nessuna donna di quella taglia voglia che le vengano attribuiti quegli stessi canoni. Vuole sentirsi dire che è bella, non vedersi grassa. Vuole poter entrare nel negozio che ufficialmente veste solo Gisele Bundchen o la rediviva Daria Werbowy e, toh, trovarci qualcosa di identico che fa al caso suo. 

  

Gli Stati Uniti non sono riusciti a fronteggiare in questi ultimi anni gli effetti estetici e psicologici del loro stesso sistema alimentare

  
La seconda ragione, un errore molto serio, è ritenere che le fughe in avanti rispetto a un sentire comune di stampo occidentale-asiatico basato su un’estetica sedimentata dai tempi di Prassitele e dei primi illustratori della dinastia Han si possano attuare in cinque anni con qualche campagna di moda (e no, non venite a tirar fuori la storia delle donne rubensiane o delle cosce di Silvana Pampanini: si trattò di momenti ben precisi e limitati della storia, che facevano seguito ad anni di guerre e di carestie). Quando, alla Festa del Cinema di Roma, Giovanna Mezzogiorno ha raccontato di essere stata discriminata e umiliata per anni dal sistema cinematografico a causa dei venti chili di troppo che aveva preso dopo la nascita dei suoi gemelli e che per dieci anni, per “pigrizia”, non è riuscita a eliminare, ha detto quello che tutti sanno, e cioè che il sovrappeso importante è ancora stigmatizzato come una mancanza di carattere e non come la spia di altri malesseri. Nel caso di Victoria’s Secret, la verità ultima è comunque e ancora un’altra, ed è che gli Stati Uniti non sono riusciti a fronteggiare in questi ultimi anni gli effetti estetici e psicologici del sistema alimentare che loro stessi hanno creato e diffuso nel mondo nell’ultimo mezzo secolo, e cioè quel misto di junk food e di ingurgito continuo che in Italia va trasformandosi in una teoria di pizzerie e gelaterie senza soluzione di continuità, aperte a tutte le ore grazie a una scellerata deregulation, che ha prodotto un aumento vertiginoso dei disturbi ponderali: quasi un italiano su due è sovrappeso, il dieci per cento è obeso, nessuno di questi vuole sentirselo dire, e in fondo nemmeno vederlo rappresentare.

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