IL FOGLIO DELLA MODA
L'enigma TikTok. Parla la responsabile della divisione luxury
Chiacchierata con Laura Milani, head of luxury di Tiktok Italia
Cresce a ritmi vertiginosi, i brand non riescono a farne a meno anche volendo. Capire se e quanto funzioni come strumento di promozione è difficile, ma dopotutto non era quanto diceva un secolo e mezzo fa Wanamaker della pubblicità sulla stampa?
Oltre la cronaca spiccia, e i “numeri” (ah, il puntello dei numeri), ognuno ha i propri motivi e i propri tempi per approcciare un argomento. Attorno al tema-TikTok, per esempio, noi community del “Foglio della moda”, abbiamo girato per parecchio tempo, monitorandone i tassi di crescita vertiginosi con un misto di entusiasmo e di apprensione e leggendo perfino qualcuno dei manuali di marketing pubblicati qualche anno dopo il debutto di questa piattaforma che mescola abilmente i codici della vecchia tv generalista con il protagonismo modello one men show spinto da trent’anni di talk show e favorito dall’egotismo peculiare di Instagram. Al momento, gli utenti attivi sono 1,2 miliardi (ma in alcune classifiche variano per toccare il miliardo e mezzo), di cui un quarto è di età compresa fra i diciannove e i venticinque anni. Certamente parecchi di loro, insieme con moltissimi altri già entrati nella vecchiaia e di grande successo, seguono e producono contenuti di moda. Il più famoso di loro è l’ex artigiano tedesco Alojz Abram, ora una star con #bygramps, i video girati da un nipote che si è inventato un business e un suo merchandising. A dati ufficiali, l’hashtag #TikTokFashion totalizza 71,3 miliardi di visualizzazioni, in crescita del 300 per cento nel 2023 come peraltro #beautytok, ma sono i riferimenti quelli derivati e apparentemente secondari a rendere evidente come, superata con la pandemia la fase dei balletti, questa piattaforma mediatica che sarebbe sbagliato chiamare “social” stia assumendo caratteri interessanti anche per l’informazione vecchio stile, oltre alle possibili manipolazioni (comuni comunque a tutti i media da tempi immemorabili, andate a rileggervi “Le illusioni perdute” di Balzac per rendervene conto), e il lato un po’ grottesco, leggermente “weird” come direbbero gli utenti di TikTok, di vedere degli ottantenni che spacchettano i regali di Dior e Supreme mentre decine di ragazzini che potrebbero essere i loro pronipoti commentano, con una grossolanità di cui nemmeno si rendono conto essendo generalmente privi di educazione formale e sentimentale, quanto questi “nonni siano freschi e cool”. In onore all’argomento “memoria storica” che fino a ieri non mi sembrava una prerogativa dei social, ma sul quale io per prima sono stata smentita quando ho visto l’uso geniale che è stato fatto da mezzo miliardo di persone di un vecchio video della mia tarda adolescenza, “Running up that hill (deal with God)” di Kate Bush, colonna sonora del serial “Stranger things”, vale la pena di ricordare che il debutto di TikTok, avvenuto nel 2017 nel mondo e nel 2019 in Europa, è stato subito circondato da mille sospetti per via della matrice cinese (ah, il controllo dei dati). A questi si era aggiunto un iniziale spregio per via della superficialità dei contenuti promossi dall’azienda creatrice, ByteDance, mi riferisco ovviamente ai balletti in famiglia che a molti osservatori apparivano in realtà come un cuneo, una leva perché una qualche potenza accumulasse dati sensibili sugli utenti, in realtà non diversamente da ogni altro social a partire da X e da Facebook, ma questo sembrava particolarmente pericoloso proprio per il contrasto con l’apparente vacuità e per l’evidente presa della piattaforma sugli adolescenti.
Per tornare al punto iniziale, e cioè il valore di TikTok oltre i numeri, durante la pandemia qualcuno fra chi collabora a queste pagine ordinò su Amazon uno dei testi migliori usciti fino a quel momento: “TikTok marketing. Video virali e hashtag marketing challenge: come fare business con la Generazione Z”, scritto per Hoepli da Ilaria Barbotti. Il titolo era già esplicativo – il punto non era l’etica dei contenuti e forse nemmeno i contenuti stessi, ma come farli fruttare a prescindere dalla qualità – e confliggeva un po’ con la sbandieratissima “autenticità”, che sarebbe il punto di forza del mezzo, così come lo era di Instagram prima che l’Authority dovesse intervenire imponendo l’uso dell’autocertificazione dei contenuti sponsorizzati e come lo era sulla televisione prima che scoprissimo che il “Grande Fratello” si avvale di fior di sceneggiatori e che vince chi sa interpretare meglio la propria parte, alla faccia del “reality”. Partendo dal dato di fatto incontrovertibile che la realtà pura e semplice non esiste su alcun media, come peraltro postula la sua etimologia anche senza doversi andare a rileggere Roland Barthes e Gilles Deleuze, e che la stessa realtà è frutto della nostra percezione (per rifletterci a ragion veduta andarsi a rivedere i film di Kurosawa), restava, e resta, da capire perché un numero impressionante di persone ritenesse, e tuttora ritenga, l’informazione presuntamente “autentica” e “non mediata” più affidabile di quella professionale, cioè di quella pagata in maniera non occulta per esserlo, e soprattutto perché vi trascorra ore e ore davanti al giorno. L’unica risposta possibile è il divertimento, l’entertainment apparentemente gratuito. I media tradizionali forse non ti profilano ma costano, impegnano nella lettura, richiedono concentrazione (non sarà un caso se sempre più riviste aggiungono il “tempo di lettura” in calce o in apertura dell’articolo); a dirla tutta, non erano letti granché nemmeno nella cosiddetta età dell’oro, quando si citava ancora il vecchio adagio sulla metà della pubblicità che non si capisce a che cosa serva. La massa, soprattutto in Italia, non ha mai letto niente: negli anni Novanta, la vendita media dei quotidiani era di cinque milioni di copie, meno di un decimo della popolazione. La maggioranza si affidava alla tv, qui come altrove. Ora, quella maggioranza si è spostata, insieme con i commenti “da bar” che stigmatizzava Umberto Eco ma non necessariamente visto che vi scrivono fior di analisti in cerca di un nuovo pubblico, sul mezzo che più assomiglia al vecchio, caro piccolo schermo. TikTok. Vi cerca informazioni (ormai, dicono i ricercatori perfino in quel mondo ingessato delle università, la piattaforma sta soppiantando i vecchi motori di ricerca e il cambio dovrebbe avvenire in un arco di tempo breve, cinque anni), ma anche intrattenimento e “retroscena”: li vuole completi, attraenti, in pochi secondi.
Nel solo campo semantico della moda, l’hashtag #dietrolequinte totalizza al momento 4,2 miliardi, così come #GetReadyWithMe, vestitevi con me, il vecchio styling rivisitato che, sebbene un po’ in calo, resiste con 23,6 miliardi di view e #fitcheck. Il motivo per il quale, però, ho chiesto di fare una chiacchierata con Laura Milani, head of luxury- made in Italy hub di TikTok, che negli ultimi vent’anni ha guidato il marketing e la comunicazione digitale di aziende come Yahoo!, MySpace e Facebook (Meta), è perché una collega, Letizia Schatzinger, sta scalando le classifiche della piattaforma offrendo i contenuti moda di chi conosce davvero la materia. Che il popolo di TikTok iniziasse a capire che esiste una differenza fra chi discetta con competenza delle influenze artistiche degli Anni Settanta sullo stile di Miuccia Prada e chi non è in grado di risalire alle reciproche influenze fra Oriente e occidente dei tabi e dei kimono perché non saprebbe nemmeno collocare Kyoto sulla cartina geografica a dispetto dei milioni di visualizzazioni, era comunque una buona notizia, insieme con la crescita dell’hashtag #edutok (17,2 miliardi di visualizzazioni) e #booktok (188,1 miliardi di visualizzazioni). Insomma, sebbene sia evidente che la buona moneta non sia ancora riuscita a scalzare quella cattiva, e che la “moderazione autonoma degli utenti” sottolineata da Milani non sia efficace come quella operata per esempio dagli accademici e dagli esperti su Wikipedia, esiste insomma uno spostamento dell’asse semantico e degli interessi della piattaforma abbastanza significativo perché sia interessante capire che cosa stia succedendo nel rapporto fra TikTok e la moda. E quello che sta succedendo è che, oltre ai brand in grado di guidare questo processo con canali dedicati, trasformandosi in una serie limitata ma ben definita di case history (chiunque interpelliate cita immancabilmente la “bucket challenge” di Prada, risalente al 2021, o la collaborazione di Valentino con Rossy de Palma, coeva), esiste una quantità di contenuto moda spontaneo che forse dovrebbe essere incanalato e gestito. Sempre che, in fondo, debba essere gestito. “TikTok è apparsa nel momento in cui gli utenti mondiali iniziavano a perdere interesse nei riguardi della perfezione costruita e promossa da alcuni social” dice Milani, riferendosi ovviamente a Instagram. Per tutta la durata della nostra conversazione, che toccherà anche i temi dell’etica pur senza riuscire mai ad approfondirli, perché nelle ore in cui ci parliamo la vecchia cronaca dei quotidiani riporta la notizia di un tardo-adolescente emiliano che si è appena buttato dalla finestra dopo una campagna di inaudita violenza montata contro di lui da alcuni competitor nel mondo altamente aggressivo dei videogiochi ed è ovvio che preferisca rimanere nel proprio campo di specializzazione, la manager evocherà la “gioia” che è, o dovrebbe essere, alla base dei contenuti generati per TikTok, e il valore della sua “estetica più sporca”, cioè e ancora più spontanea rispetto ai social. “Non esiste una formula precisa, pre-definita, che rende un contenuto certamente virale”, spiega. Funziona, cioè paga, “l’approccio simpatico, sorridente, l’offerta dell’opportunità di scoprire un mondo diverso, di immedesimarsi”. Non a caso, anche nella gestione professionale dei canali, i contenuti vengono calibrati da content creator di fama, ma ripresi in atteggiamenti studiatamente spontanei. Sebbene una ragazzina svedese denunciasse su “Kamratposten”, testata per bambini ripresa poche settimane fa da quella meraviglia che è “Internazionale kids”, come “prima di capire i miei gusti l’app mi consigliasse di tutto, tanti video schifosi e raccapriccianti, soprattutto di adolescenti nudi”, la profilazione avviene in realtà piuttosto velocemente, e video pessimi non mi sono mai stati proposti. In compenso, come osservano molti analisti, si tende davvero a essere risucchiati dai video, un po’ per pigrizia, un po’ per curiosità. “L’audience è ghiottissima di contenuti legati alla moda, sia per quanto riguarda l’abbigliamento, sia per la sua storia”, osserva ancora Milani, enfatizzando come, ultimamente, i “dietro le quinte” ma anche l’informazione, l’edutainment goda di ottimi riscontri, “purché venga proposto con un tono divertente e divertito, non cattedratico, informato ma spontaneo: su TikTok, anche i creatori trovano innumerevoli stimoli”.
Il travaso, lo spostamento fra contenuti autonomi e “autentici” e quelli palesemente sponsorizzati avviene insomma quasi spontaneamente. Milani cita come esempio preclaro e vincente le puntate della serie sviluppata da Valentino in occasione della sfilata couture del luglio 2021 con Rossy de Palma (“non chiediamo mai ai creator che sono già ambasciatori di un marchio di snaturarsi, ma in quel momento era di grande tendenza l’approccio stand up comedian, e questa modalità era naturale anche per un’attrice come lei. Poi, studiando il pubblico e le reazioni, hanno potuto e saputo ampliare la narrazione, fino a poter toccare oggi nel loro canale argomenti controversi”) e l’ultima serie video di Bulgari per la collezione “Mediterranea”, in cui si assiste al processo artigianale di creazione dei gioielli. Il filmato, per niente spontaneo ma anzi accuratissimo, perfetto per una riproposizione cinematografica, non verrebbe però e magari visto al cinema. E rappresenta comunque uno sguardo sulla realtà della manifattura che milioni di persone non intercetterebbero mai altrimenti.
Alla Scala