Il foglio moda
Alla fine della bellezza quello che conta è la lealtà. Intervista a Drusilla Foer
Conversazione sul teatro, la principessa di Eboli, le “veneri nemiche” di cui ci si trova disseminata la strada, il cromatismo giusto che ti fa svoltare una serata, il dramma dei piedi grandi
L’ultima volta che ho incontrato Drusilla Foer erano le undici di sera, eravamo sedute una di fronte all’altra e ci avevano appena servito un piatto di gnocchetti di acqua, farina e broccoli – prima di una cena di gala non chiedete mai a un’accolita di modaioli se soffrano di qualche intolleranza perché rischiate di non venirne fuori; servite loro d’imperio un risotto allo zafferano e andrà tutto bene - mentre la voce di Maria Callas risuonava sotto una volta di tutù improvvisata da Etienne Russo nel cortile di Palazzo Marino. Si festeggiavano i Sustainable Fashion Award presentati dalla Camera della Moda al Teatro alla Scala e si rischiava seriamente di morire di fame. Alle mie spalle, il direttore comunicazione del gruppo Max Mara, Giorgio Guidotti, aveva intavolato una conversazione surreale attorno al “Casta Diva” con una modella americana efebica, una di quelle che vedete nelle campagne di tutti e che vi pare tanto spirituale, cercando di spiegarle con una forza di volontà degna di miglior causa perché il filo sonoro di quella serata unisse America e Europa come poche altre, e ricevendone in cambio un commento racchiuso nell’unico aggettivo che gli americani di ultima generazione sembrino conoscere e che usano per qualunque manifestazione sensibile, dalla voce della divina Maria alle decorazioni floreali nelle toilette: “Amazing”.
Ero così affascinata dalla perfetta ignoranza di questa tizia che dovrebbe rendere interessante il vostro prossimo cappotto da non accorgermi del trambusto attorno ai gnocchetti. Quando mi sono voltata, Drusilla e la sua ospite, Chiara Boni, si erano dileguate. Due mesi dopo, siamo al telefono. Mi racconta di essere fuggita con le scarpe in mano, diventate impossibili da rinfilare dopo tre ore di spettacolo e quella pantomima di cena: “I piedi sono il mio punto debole”. Nel corso della conversazione, ne elencherà molti altri, quasi sempre miracolosamente azzerati, nascosti, sublimati da un bel tessuto, un taglio adatto, un bel colore: parla con autorevolezza di “giallo Napoli”, un’indicazione che trovate forse ancora sui giornali del primo Novecento, di verde celadon, che ormai sa maneggiare quasi esclusivamente Giorgio Armani, di diaspro e di turchese. Drusilla Foer possiede insomma quella cultura cromatica che un tempo era patrimonio borghese e aristocratico e che oggi solo questa nostra massificazione generale poteva attribuire alla vanità della segretaria del Pd Elly Schlein. All’altro capo del telefono mi pare di sentirla sorridere. “Mi piace che nel corpo siano segnati certi punti”, osserva, parlando di proporzioni che è un altro argomento andato perduto nello stile all’ammasso in uso fra le ragazzine delle ultime generazioni, quest’inverno calze velate, minigonna e stivali al ginocchio per tutte, a prescindere dalla piacevolezza dell’insieme.
Le piacciono anche la “naturalezza”, che è parente stretta dell’eleganza, e la “ragionevolezza”, ovviamente non solo in campo estetico e che sarà il filo conduttore della chiacchierata su quelli che ritiene i valori di oggi, epoca di “paura del rifiuto” (quando ci parliamo, il corpo di Giulia Cecchettin non è ancora stato trovato, ma quanto afferma risuona come una lettura in controluce del dramma che ha scosso l’Italia), di cattiva gestione delle proprie emozioni, di informazioni solo in apparenza facili e accessibili, in realtà di difficile decifrazione e decodifica. “I valori di oggi sono, o dovrebbero essere, la ragionevolezza, l’autenticità, la lealtà: dovremmo tornare a parlare a noi stessi, e agli altri, di rispetto”. Dialogare con Drusilla è un’esperienza meravigliosa di neutralità grammaticale applicata, particolarmente ardua nell’italiano che a un certo punto della propria evoluzione verso il volgare non ha saputo trattenere gli utilissimi insegnamenti del latino e del neutro. Sarà pur vero, come osserva molto giustamente Aldo Cazzullo, che l’Impero romano non è mai caduto, però qualche pezzo di quella civiltà tanto contemporanea ce lo siamo comunque perso insieme con molte pietre dell’anfiteatro Flavio che i conterranei della modella ospite di Guidotti si ostinano a chiedere perché non ricostruiamo bello nuovo, forse non abbiamo soldi? Il neutro latino non ha nulla di quell’umiliante cretinata della schwa – i diritti si allargano, non si elidono e non si cancellano, soprattutto quando questo avviene a detrimento delle donne cis e fiere di combattere ogni giorno per tutti – e in questo caso è particolarmente funambolico in quanto riguarda una persona, nel senso originario di maschera, che è al tempo stesso reale e fittizia.
Alla fine della conversazione, mi renderò conto di aver declinato pronomi solo quando necessarissimo, e in maniera, incredibilmente, facile: al maschile nei rari casi in cui Drusilla accenna, con l’ affetto sbrigativo che si riserva ai maschi di famiglia un po’ noiosi o, del suo demiurgo Gianluca Gori, il “presuntuoso” che le ha dato vita, al femminile quando parla di sé e dello spettacolo musicale al Blue Note per il quale questa sera non sarà alla Scala: “Dru”, produzione artistica ed esecutiva di Franco Gori, dodici canzoni inedite firmate da autori come Mogol, Fabio Ilacqua, Giovanni Caccamo e Ditonellapiaga, cioè Margherita Carducci, ragazza della Roma bene che si presenta al pubblico come grande ribelle. Dunque, niente Drusilla alla “Prima”; peccato, sarebbe stato interessante vederla svettare sulle sciure milanesi vestita da Pierpaolo Piccioli di Valentino, che ottiene il meglio dai suoi tagli e dai suoi volumi rigorosi proprio avvolgendo le “proporzioni sgangherate” che Drusilla si fa vezzo puntiglioso di denunciare, oppure con gli abiti di Rina Milano, atelier sul Lungarno Amerigo Vespucci, sarta ignota ai più di quello stile discreto che si è andato perdendo e che le piace invece evocare: nella narrativa di “madame Foer”, come viene definita sui social, Rina Milano è complemento perfetto del piccolo mondo eccentricamente rétro di cui fanno parte la domestica Ornella, una epigone della signora Danvers, il giardiniere Graziano, giovane e sexy, l’amica svampita Dianora e tutta la coterie che per mesi, durante il confinamento del Covid, ci ha tenuto compagnia quasi quotidiana, portando un soffio di leggerezza in un cielo plumbeo. “che Prima sarà? Oggi mi pare si stia riscoprendo la sobrietà, il valore della qualità, quasi fosse un abbraccio rassicurante”.
Lo sconfinamento spazio-temporale di Drusilla e le sue scalate semantiche sono entrate a tal punto a far parte della sua persona e della sua professione che nel suo ultimo spettacolo, “Venere nemica”, si è concessa il lusso di giocare con la fonetica del nome di quella ragazzina che si crede una dea in Terra, Psiche, “che impegna il palato in modo disgustoso”, pura cacofonia, quando invece “Venere” esce invece di bocca leggero come la spuma del mare da cui è nata, “quasi neanche devi muovere le labbra”. La dea dell’amore di Drusilla è una donna sfiorita, insoddisfatta, il collo adorno di perle per nascondere le rughe, che dopo essere entrata in conflitto con quella specie di nuora ingrata (ogni volta, a Drusilla tocca raccontare al pubblico di Apuleio e delle “Metamorfosi”; meglio così, dopotutto), si è ritirata a vivere a Parigi, da dove osserva, al tempo stesso perfida e benevola, le piccole e grandi vanità umane, dalle quali lei stessa non è esente: il valore della bellezza, il conflitto fra uomini e dei, la vendetta, la possessività materna che in lei si è espressa con Amore, figlio ingrato e disobbediente a cui deve le prime incrinature nella sua bellezza perfetta, ma anche la bellezza di questo mondo terreno confusionario, sporco e imperfetto, popolato di esseri terrorizzati dalla propria caducità, dalla finitudine della loro esistenza, e proprio per questo creativi, attaccati alla vita e a ognuna delle piccole soddisfazioni che riserva. “Immaginate la mia gioia! Una dea, condannata a vivere nell’eterna umidità del mare, scoprire l’esistenza della messimpiega”.
Non è l’unica scoperta, anche per chi l’osserva, questa Venere di Drusilla. Le sue fissazioni, il suo totale egocentrismo (“io sono sempre stata la mia sola priorità”) ricordano fin troppo da vicino i drammi quotidiani delle influencer che si sentono passare di moda, le smanie del post quotidiano, il “moralismo sciocco” che avviluppa il desiderio di espressione, nonostante e a dispetto dell’apparente indipendenza dei social. Le costrizioni del corpo, le costrizioni dell’abito, le costrizioni della società. Quando approcciamo il “don Carlo” (“l’opera più riuscita di Giuseppe Verdi, non a caso si concesse un tempo lungo per comporla e rivederla”), è inevitabile fare un parallelo fra Venere, l’uso spregiudicato della bellezza e il personaggio storico della principessa di Eboli, Ana de Mendoza, che i ritratti dell’epoca ci restituiscono con un occhio coperto da una benda. La menomazione era dovuta a un duello giovanile con un paggio (poi dice che le donne di un tempo erano miti e rassegnate); talvolta le mezzosoprano che la interpretano accettano la benda, talvolta (come sarà stasera), gli stessi costumisti la rifiutano; è capitato che qualche interprete si infliggesse una scarificazione in scena, insomma si tratta di una figura che lascia, letteralmente, il segno. Le cronache e il dramma di Schiller da cui è tratta l’opera ce la restituiscono come un’intrigante che, a dispetto della propria pretesa abilità, finisce vittima dei suoi stessi intrighi e soprattutto della propria bellezza (“ti maledico, o mia beltà”): “È una gran pasticciona, il simbolo della vanità disconnessa dalla ragione, dell’inadeguatezza morale che porta a infliggere a sé stessi il male che si vorrebbe fare agli altri”, osserva Drusilla, che riconosce in Eboli il personaggio più attuale dell’opera, e anche quello che offre l’insegnamento più diretto: “La slealtà spande attorno a sé effetti negativi che è difficile recuperare, e attorno ai quali è difficile chiedere o ottenere giustizia”.
Alla Scala