Di inni, seti e rivoluzioni
Carrellata di inciampi antichi e nervosismi recenti alle prime della Scala
Mameli risuonato alla "primina" per i giovani lascia intendere che si replicherà stasera per il debutto di don Carlo, anche in assenza del presidente Sergio Mattarella. Ma pensare all’opera come espressione d’arte a-politica è pura follia
Se la “Primina” under Trenta è diventata la prova generale di quello che accadrà nella Prima Rappresentazione scaligera del 7, è certo che stasera l’inno nazionale verrà eseguito, nonostante la mancata presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che quest’anno, dopo un quinquennio di affacci festeggiatissimi dal Palco d’Onore, ha scelto di onorare il sovrintendente della Fenice, Fortunato Ortombina, e i “Contes d’Hoffman” deliziosi e molto queer - ma in realtà perfettamente sovrapponibili all’ immaginario sontuoso dello stesso Jacques Offenbach - immaginati da Damiano Michieletto. Non sempre alla “Prima” è risuonato l’inno - si ricordano anni sdegnosi e sguardi di noia rivolti al cielo quando l’orchestra attaccava, stai a vedere che mi tocca pure alzarmi – mentre si ricordano numerose deroghe a favore dell’esecuzione anche in assenza del Capo dello Stato. Accadde per esempio nel 2012, durante il premierato di Mario Monti che peraltro ha sempre frequentato la Scala da quell’appassionato melomane che è: disgraziatamente, Daniel Baremboim si dimenticò di eseguire “Il Mameli” in apertura e dovette recuperare in corner, cioè quando Elsa (l’Elsa del Lohengrin che inaugurava, non la moglie di Monti) aveva perduto il suo amore per eccesso di curiosità, nie sollst du mich befragen: portò in scena tutto il coro, chiunque pensò a un coup de theatre. Nel 2015, anno dell’Expo, arrivò Matteo Renzi con moglie Agnese in pizzi Ermanno Scervino, mentre nel 2016 si dovette contare sulla sola presenza del presidente della Regione Lombardia, il compianto Roberto Maroni, a causa del forfait di tutti gli altri ministri per crisi di governo. Lo stesso accadde l’anno successivo: nel palco centrale sedette il ministro della cultura Dario Franceschini. Quest’anno, però, il sindaco sta valutando quale sia la soluzione migliore per non esporsi troppo con il governo senza offendere nessuno.
Queste scaramucce appaiono comunque secondarie rispetto alla vera domanda che uno dovrebbe porsi, ed è perché, da qualche anno ed esclusa la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen che ha sempre dato mostra di apprezzare il Piermarini - il 7 dicembre non si assista più alla sfilata di politici di caratura internazionale che una volta rendevano la “Prima” scaligera un affidabile termometro dell’interesse e del rispetto di cui il governo in carica godeva presso le istituzioni mondiali. Pare fantascienza quel 7 dicembre del 2007 in cui Letizia Moratti accoglieva il presidente della Repubblica tedesca Horst Koehler e l’omologo austriaco Heinz Fischer, ma anche la prima carica dello stato greco Karolos Papoulias e l’emiro del Qatar Hamad Bin Khalifa al-Thani con la bellissima moglie, la sceicca Mozah bint Nasser al-Missned a cui cinque anni dopo avrebbe fatto sostanzialmente dono della Valentino spa, mentre in foyer si incontrava tutto il potere finanziario europeo. Forse oggi non vengono invitati nei tempi corretti? O forse nemmeno li si invita perché il cicaleccio sui treni fermati in sprezzo all’etica e al decoro appare più interessante e gli scivoloni di gusto del nuovo potere – tutti con le scarpe allacciate sotto lo smoking e le gonne vaporose – un intermezzo favolosamente divertente per la Milano old money? Non si può nemmeno dire che la Scala non goda di rilevanza mondiale, visto che una settimana fa, al concerto organizzato alla Dubai Opera House in occasione del Cop 28, l’orchestra del Piermarini si è vista tributare una standing ovation. Nel momento della sua messa in scena più importante, la Scala – secondo marchio italiano nel mondo dopo Ferrari - dovrebbe potersi concedere un gran parterre, un dispiegamento di forza, potere ed eleganze. E invece deve fare i conti con il sottobosco istituzionale che da mesi preme per un “invito per due” e un abituzzo in prestito.
“Tais-toi, prêtre!”, taci, prete, intima Filippo II al Grande Inquisitore nel quarto atto del “Don Carlos”. Quando scriveva per l’Opéra di Parigi, Verdi aveva la specialità di scegliere soggetti urticanti. Nel 1855, aveva messo in scena “Les Vêpres siciliennes”, dove sia i francesi che gli italiani fanno una pessima figura (e salvo scoprire, anni dopo, che Eugène Scribe gli aveva rifilato lo stesso libretto dell’incompiuto “Duc d’Albe” di Gaetano Donizetti). Quell’11 marzo 1867 la frase tranchant del Re sulla scena fa arrabbiare l’Imperatrice nel suo palco. Eugenia, moglie di Napoleone III e capa del partito devoto alle Tuileries, lascia platealmente trasparire la sua irritazione. Nella versione approntata da Verdi per la Scala nel 1884, il “Don Carlo” in italiano senza la “esse”, senza il primo atto e senza il balletto, la battuta diventa “Non più, frate!”, che suona senz’altro più debole. Invece la conclusione del duetto, con la resa del Re davanti al monaco, è forse più efficace in italiano: “Dunque il trono piegar / dovrà sempre all’altare!” pare più icastico di “L’orgueil du Roi fléchit / devant l’orgueil du prêtre”. Il rapporto di Verdi con la religione resta tuttora misterioso. Certo, scrisse la “Messa da Requiem”, costruì una cappella a Sant’Agata e si fece seppellire con un funerale religioso. Ma, come temeva la sciura Giuseppina, che come molte donne con un passato invecchiando era diventata pia, si trattava probabilmente di manifestazioni esteriori, obblighi sociali, ritualità, così fan tutti. Di certo, come ogni uomo del Risorgimento, Verdi era anticlericale, e vedeva giustamente nel potere temporale la ragione per cui l’Unità non si era mai fatta e il principale ostacolo al suo compimento. Fu sepolto con “due preti, due candele e una croce” come aveva ordinato, ma in realtà il funerale religioso non gli sarebbe nemmeno spettato. A suo tempo, Pio IX aveva fulminato la scomunica contro chiunque avesse empiamente contribuito a togliergli Roma: e Verdi sedeva alla Camera dei deputati che, nella prima legislatura del Regno d’Italia, proclamò la città capitale della Nazione (a posteriori, una pessima decisione, come tutte quelle dettate dalla retorica). Non divaghiamo. Scegliere il “Don Carlo” di Schiller come soggetto per l’ufficialissima Opéra equivaleva, in quel momento, a mettere un dito nell’occhio a buona parte dell’opinione pubblica francese. Roma era ancora nelle mani del Papa perché ce l’aveva rimessa, nel 1849, un corpo di spedizione francese inviato dall’allora Prince-Président e solo grazie alle baionette francesi, anzi ai nuovi fucili Chassepots, nelle sue mani restava. Come si vide pochi mesi dopo la première del “Don Carlos”, per la precisione il 3 novembre ’67, a Mentana. Don Carlo(s) è, fra le altre cose (molte, è forse il Verdi più complesso e più esaltante) anche un trattato sui rapporti fra Stato e Chiesa.
Ma in generale tutto il teatro di Verdi è politico, anzi è politico tutto il teatro, perché la politica, intesa come dibattito, discussione, confronto di idee, è nelle sue origini e nella sua natura. Alla Scala se ne sa qualcosa. Poiché la Scala, come tutti i teatri d’opera italiani, è sempre stata molto di più di un palcoscenico, bensì il centro del centro cittadino, di politica se n’è fatta anche lì. Per dire: quanto ad anticlericalismo, niente supera lo scandaloso “Ballo del papa” del 25 febbraio 1797, con i francesi ancora giacobini che occupano la città. Un mimo, il cittadino Domenico Le Fevre, impersona Pio VI che balla giulivo dopo essersi convertito alla Rivoluzione e sostituisce la tiara con il berretto frigio, mentre sua nipote, la principessa Braschi, amoreggia con il generale Michele Colli, comandante dell’esercito pontificio dopo aver dato pessime prove, appena l’anno prima, alla testa di quello sabaudo. Poi torna Astrea, per dirla con Vincenzo Monti, e nei palchi si inizia a pensare di mandarla via: quando il 21 gennaio 1824 gli austriaci spediscono il conte Federico Confalonieri a raggiungere allo Spielberg i suoi amici Silvio Pellico e Piero Maroncelli, per tre giorni i palchi più radical chic restano deserti in segno di lutto. Il Risorgimento si è fatto anche lì, fra acuti e velluti. Nel febbraio 1848, la ballerina austrica Fanny Elssler pretende che le ragazze del corpo di ballo tolgano i medaglioni con l’effigie di Pio IX (ancora neoguelfo e liberale), e il loggione risponde, testuale, “con espressioni in cui la galanteria lasciava molto a desiderare”. Durante le Cinque giornate, l’attrezzeria della Scala viene usata per costruire una barricata nell’attuale via Verdi, e Francesco Maria Piave lì viene ferito. Il 29 gennaio 1859, dopo il grido di dolore levatosi a Torino, mentre i giovin signori milanesi passano il Ticino per arruolarsi nell’armata sarda, alla Scala si dà Norma. Al coro “Guerra! Guerra!”, tutto il pubblico scatta in piedi sventolando i fazzoletti e gridando: guerra!, mentre il coro vien bissato all’infinito. Gli ufficiali austriaci rispondono battendo le sciabole sul pavimento in segno di sfida: insomma, la prima scena di Senso (ma senza Alida Valli, temo).
La politica con il teatro non solo c’entra, ma ci entra, e di regola come l’elefante nel negozio di cristallerie. E così la stagione 1897-98 della Scala salta, per la prima e ultima volta dal 1778, perché la giunta municipale socialista, con il solito populismo prêt-à-penser della sinistra, abolisce la “dote” comunale per il teatro per assegnarla alla refezione scolastica. Il 26 dicembre 1897, giorno di inaugurazione della stagione (il 7 è un falso storico, una tradizione inventata) una mano anonima ma santa affigge sul portone del Piermarini questo cartello: “Chiuso per la morte del sentimento dell’arte, del decoro cittadino, del buon senso”. Il 3 novembre 1918 in cartellone c’è “La nave” di Italo Montemezzi, tratta da D’Annunzio. Tullio Serafin è sul podio ma non dà l’attacco. Il perché lo si capisce quando dal sipario sbuca Tito Ricordi con un foglietto in mano: “Le nostre truppe vittoriose sono entrate in Trieste”, apoteosi. Quanto alla prima di “Turandot”, il 26 aprile 1926, sembrava strano che Benito Mussolini, capo del governo, non lo rappresentasse al debutto dell’opera postuma di Giacomo Puccini. Oltretutto il Puccio era pure iscritto al partito: nel ’23, dopo un’udienza con il duce, la sezione di Viareggio del Pnf gli aveva recapitato a casa la tessera, d’ufficio, diciamo così. Ma Arturo Toscanini fu irremovibile: la presenza di Mussolini avrebbe comportato l’esecuzione di “Giovinezza”, e pur di non dirigere Giovinezza lui non avrebbe diretto nemmeno Turandot. Di fronte alla prospettiva di uno scandalo mondiale, Mussolini abbozzò con molta abilità, facendo scrivere al Corriere che non voleva che la sua presenza in teatro distogliesse il pubblico dall’omaggio “al Grande Scomparso”. Si limitò a mandare un gran fascio di garofani rossi (scelta strana, con il senno di poi: vero è che aveva debuttato come socialista). E le uova di Capanna? Altro Sant’Ambroeus, questa volta del 1968, in cartellone guarda caso ancora Don Carlo, il primo di Abbado, quello con la regia di Ponnelle. Sui cartelli in piazza c’è scritto “Ricchi godete, questa sarà l’ultima volta”, mentre dagli eskimo partono uova, cachi e vernice e il coro di “Borghesi, ancora pochi mesi”. Poveri illusi Ma le uova, me lo confermò poi Mario Capanna, non erano affatto marce coma da mitologia: trovarle davvero fetide, pare, è difficilissimo. Con il riflusso, alla Scala tornano lo sfarzo e i politici. Ultimo episodio da segnalare, tre prime fa, il Macbeth del ’21 con Mattarella lunghissimamente ovazionato, cinque, sei, sette minuti di applausi, le fonti divergono ma in ogni caso un’eternità. E, soprattutto, con urla di “bis!” dal loggione. Il 28 gennaio seguente, Sergio Mattarella veniva rieletto Presidente della Repubblica. La Scala non solo fa politica: dà anche la linea.