Il sondaggio
Questa generazione fa anche cose buone: si dismettono i tacchi, addio
Diffidare da chi vede il progresso dietro la scomparsa dei décolleté. Oltre ai tacchi, capaci di rendere chiunque quello che non era, è morto un certo modo di vestire
Questa generazione sta facendo anche cose buone. Si dismettono i tacchi, addio. Metà delle francesi, in un sondaggio riportato dall’Economist, dice che non è cosa, non ci sanno camminare, non li vogliono più vedere. Proprio loro, sempre secche eleganti e antisciatteria. Sì, la Francia. Ma anche altrove. A parte i tappeti rossi e le occasioni in cui non si può andare rasoterra, le scarpe alte non usano più da nessuna parte. Perdono il primato proprio loro, i tacchi, che hanno sempre fatto curriculum. A venti e trent’anni, fine secolo scorso e inizio duemila, comprare scarpe basse era perché dovevi, si spendeva di malavoglia come si spende in farmacia. Scarpe comode voleva dire investire in abiti da lavoro, la tua divisa triste. I mocassini, tranne le ricchissime da generazioni, erano una scelta obbligata e parecchio depressa. Perfino le scarpe da tutti-i-giorni che quasi nessuna ha saputo evitare, le Hogan, le pigliavamo coi tacchi. Ce lo avevano dentro, nascosto nelle tenebre della suola interna.
Quanto a me, gli errori li ho fatti tutti. Vent’anni di scemità. Decine di scarpe coi tacchi, alte, moderatamente alte e altissime. Chiaro, si faceva per un motivo. Si trattava di una ragazza di un metro e sessantasette (io) che diventava un altro tipo di persona. Coi tacchi entravo nella categoria degli esseri viventi capaci di suscitare il massimo dell’invidia e del risentimento: gli alti. Perché intendiamoci, absit iniuria e shaming-di-qualcosa, possiamo raccontarcela finché ci pare, noialtre verticalmente deficitarie, ma è troppo ipocrita parlare di moda dicendo che tutto può star bene a tutte. I vestiti alle alte stanno meglio. La body positivity si scontra con la vita, con la realtà, con le ovvie riflessioni sul fatto che l’altezza, da sempre, è mezza bellezza anzi pure tre quarti. Restiamo umani e se ci riesce pure oggettivi. Per questo avevo mensole di scarpe coi tacchi. Risparmiavo a vent’anni per comprare scarpe coi tacchi. Tutte, ce le ho. A punta appuntita, a punta tonda, a punta tagliata che si chiamava peep toe, a tacco sottile, meno sottile, a tacco grosso che ti vendevano per comodo e invece ti spaccava la schiena ancora di più. Anche con l’orrido plateau, le ho volute. Il motivo direbbe Freud è stato patriarcale: ben figurare negli abiti e stare un minimo allineata al maschio che mi piaceva.
Le forche caudine erano altre. Quando incrociavo gli occhi di mia madre davanti alla scatola nuova – lei già sapeva – e mi guardava con riprovazione. Centinaia di migliaia di lire per fare che? Mettersele tre volte? Guarda sono bellissime, eleganti, color nude e di vernice! Lei sorrideva e non parlava, mi osservava in un silenzio espugnabile, sarcastico. Aveva solo quello sguardo che diceva: ma dove ci devi andare. Te lo dico io, dove ci devo andare, cara mamma. A ballare, a incontrare persone il sabato sera, a vivere! Era prima delle chat, prima delle foto, prima che conoscersi prevedesse il preliminare di scriversi. Così, per andare incontro all’ignoto e alla serendipità, luogo che si trovava a Montesarchio (Bn) nel locale detto Piper, insieme alle mie amiche, mi vestivo con una gonna nera stretta pencil, una maglia carina, e ai piedi tacchi di 10 centimetri nude, di vernice, secondo me fighissime elegantissime irresistibilissime. Essere meglio di come ero si poteva fare. Era un miracolo alla mia portata: regala dieci centimetri in altezza a una che nella vita non arriva al metro e settanta, e quella solleverà il mondo. E sissignore, davvero cambiava qualcosa: raccoglievo sguardi c.d. tossici, moderato cat calling, e tutte quelle attenzioni moleste (ma al tempo tollerate) (anzi inseguite) erano assicurate perché loro, i tacchi, ti rendevano quello che non eri: parzialmente vistosa.
Poi certo, ti pigliavi pure la nemesi. Dovevi camminarci, in quella vernice stretta. Ballare, spostarti, parlare, partecipare. Interessare il Nino Sarratore. Dopo un paio d’ore i nervi cominciavano a cedere. Faceva male tutto. Là si capì che non esisteva nessuna Carrie Bradshaw di “Sex and the city” in grado di fare venti chilometri caracollando a piedi per tutta Manhattan. Siccome ci sono passata, e siccome ho le foto – io coi tacchi a spillo, la gonna elegante e la messa in piega a Montesarchio (Bn), il sabato sera – non penso che il progresso, i.e. l’abbandono dei tacchi, segni il raggiungimento delle varie parità, compresa la parità nell'armadio. È una spiegazione troppo ottimista, si deve diffidare. Anche perché oltre ai tacchi è morto un certo modo di vestire. “La scomparsa dei tacchi alti in Francia è spiegabile in parte come effetto della pandemia e dei cambiamenti nel modo di lavorare, lo smart working si fa vestite casual. Potrebbe anche essere una forma di ribellione post MeToo. Una generazione si sta ribellando ai tacchi a spillo e al loro potere deformante, a cui si fa cenno nel film ‘Barbie’, i cui piedi della star non tornano più normali, piatti, quando vengono sfilati dai tacchi”, si dice all’Economist.
C’è ancora un’altra possibilità. Il sottogenere creato dai nuovi tempi riguarda lo stile. Quiet Luxury. La novità ultima da indagare e imitare sarebbe: i milionari abbigliati comodi e superlusso, il tipo di lusso disegnato per far passare inosservati, ma attirarsi attenzioni. Una rara armonia nel vestire e nel comportarsi. Old money. Vogliamo essere come loro. La superborghesia che ostenta favolosi cashmere d’inverno e lini d’estate, che detesta i marchi, le sigle, i loghi e l’eccentrico in ogni declinazione che non sia Prada. Che scansa il troppo colorato, il trasparente, il leopardo o l’aderente. E soprattutto, i tacchi alti. Massima espressione del non saper vivere. Ora vanno solo avvertite le nuove generazioni (pure le vecchie) su quanto poco si possa contare sull’imitazione del ricco per produrre effetti uniformanti.
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