il foglio della moda
La moda americana, in solido. Intervista a Todd Snyder
Laureato in finanza, sarto e designer, rappresenta l’anello di congiunzione fra l’avanguardia che molti uomini temono di scegliere e il basico made in Usa. Produce in Italia, è arrivato a Firenze per farsi festeggiare, venera (ancora qualcuno lo fa) lo stile di Cary Grant
C’è un modo americano di intendere la moda che noi europei, un po’ ”decadenti” come dicono Oltreoceano accorpando nell’aggettivo una semantica valoriale, ma soprattutto dis-valoriale, che va dalla sontuosità senza scopo all’intellettualismo esangue, non capiremo mai e che pure ci attrae molto. La moda americana affascina quel lato della nostra personalità che a un certo punto ritiene di possedere un numero sufficiente di abiti di taglio sciancrato e giacche con le piume, di lurex e paillettes o, all’opposto, di volumi che ben figurerebbero in un trattato di architettura e che non a caso spesso vi hanno originato, prefigurando nuove “etiche” e “politiche” del vestire rimaste sempre su carta o quasi (think Costruttivismo russo).
Quando un europeo pensa alla moda made in Usa, non visualizza mai le collezioni The Row delle gemelle Olsen, molto eleganti e del tutto fuori prezzo, e nemmeno gli sbuffi di Rodarte; in genere si è già dimenticato di Alexander Wang, di Narciso Rodriguez e di tutta la lunga serie di stilisti che per un decennio sono stati strenuamente sostenuti dal sistema locale e dal suo vate mediatico, “Vogue America”, e sono finiti nel nulla. La moda americana “at its best”, al suo meglio, per gli italiani e gli europei in generale equivale a Ralph Lauren o a Brooks Brothers, per lungo tempo il brand a cui i laureati si rivolgevano per acquistare la prima “business suit”, tuttora marchio di riferimento per le camicie button down. Moda americana è Calvin Klein, J. Crew, insomma capi efficaci e di lunga durata, anche belli per carità, ma comunque non eccessivamente stravaganti nemmeno quando ci provano, come ben dimostra Thom Browne, che vende migliaia di quelle sue giacche rigorose profilate in canneté e – tiro a indovinare ma credo di non sbagliarmi – zero delle gonnelline a pieghe da uomo che manda in passerella.
La moda si nutre anche di stereotipi, quella americana figurarsi, per cui, oltre i cowboy boots e le camicie a quadri, le tute e le sneaker, l’universo di riferimento del “made in Usa” possiede sempre qualcosa di duraturo, di “classico” nel senso migliore del termine. Righe, quadri e flanelle. Per questo, quando sul mio pc è atterrato il moodboard della collezione che Todd Snyder che avrebbe presentato alla Stazione Leopolda durante l’edizione 105 di Pitti Uomo, a Firenze, dietro i riferimenti labilmente “modernisti” che davano il titolo alla collezione, ho riconosciuto i codici di quello che gli americani identificano appunto come elegante, senza tempo, e noi pure: un paio di loafers in suede blu (don’t you /step on my blue suede shoes), la Egg chair di Arne Jacobsen, un cappotto con l’allacciatura di lato che, il Signore mi perdoni, ricorda molto da vicino quelli che Giorgio Armani realizzava da par suo nei primi Anni Ottanta e che guardavano, nel taglio se non nelle proporzioni, ai cappotti dell’armata russa, e un modello di quella giacca con le spalle scese, lontana parente dello stile ”American gothic” di Grant Wood, che rappresenta un po’ la Numero Uno di Todd Snyder, e che lui stesso si confezionò “in un lino che certo non era un’eccezione” dopo gli studi e un lungo apprendistato nelle vendite.
Nella solidità della sua visione - no frills, no fuss - Todd Snyder sa tagliare e cucire. Non è da tutti nemmeno in Italia: “Mia nonna un giorno mi disse che in olandese snyder significa tagliatore di indumenti esterni, insomma di capispalla. Mi parve di buon auspicio”. Come nella migliore narrativa, quella di Snyder non doveva essere legata alla moda. Nativo dell’Iowa, per la precisione di Ames, sede dell’università dello stato, promessa del football al liceo e come la sua struttura fisica testimonia anche adesso che ha raggiunto un’età non dichiarata ma più vicina ai cinquanta che ai quaranta, Todd era stato avviato agli studi di finanza dal padre, ingegnere civile “che indossava giacca e cravatta tutti i giorni”, e che pensava di trasferirgli la gestione dello studio, a tempo debito. Come per le abilità nel taglio e nel cucito, uno stilista in grado di leggere un bilancio non è fatto scontato: della finanza dice che gli piace, obvious, la solidità, aggiungendo come, in fondo, avesse sempre sognato di lanciare la propria impresa. Quando il fortunato evento avvenne, correva il 2011 e Todd Snyder aveva accumulato molta esperienza teorica nel design e nel merchandising, avvicinandosi quindi alla pratica come assistente sarto da Badowers, a Des Moines, una di quelle boutique che tramandano senza se e senza ma il mito di Cary Grant, a tutt’oggi il maschio ideale anche nell’olimpo dello stilista e in particolare lo stile che gli impresse il costumista Harry Kress in “Intrigo internazionale” di Alfred Hitchcock. Verso la fine degli Anni Novanta, il primo passo importante: l’ufficio stile di Ralph Lauren per l’outerwear, vedi la nonna come aveva visto lungo, e da lì la direzione della linea maschile di Gap, la gestione della linea uomo da J Crew, dove sviluppa collaborazioni con Timex, Champion, New Balance, Moscot, Alden, produttori con cui collabora tuttora. Quattro anni dopo il lancio della linea eponima, American Eagle ne rilevava le quote per undici milioni di dollari.
Che sia stato un gruppo dell’abbigliamento di massa ad acquisire il brand Todd Snyder e il suo derivato diretto, Tailgate, linea di college sportswear di gusto vintage, e non un gruppo della moda, rientra perfettamente nel motto del fondatore: “Rendere più facile per gli uomini vestirsi meglio”. Per noi europei decadenti eccetera, che esecriamo la vista delle flotte di americani in pantaloncini e t shirt slabbrata fra i nostri monumenti, in pratica una missione, purtroppo lungi dall’essere compiuta nonostante i quattordici negozi sparsi negli Stati Uniti, la linea di abbigliamento-merchandising ispirata alle grandi opere conservate al Met, e la recente nomina a direttore creativo della nuova linea Woolrich Black Label by Todd Snyder collection, che debutterà con la stagione autunno inverno 2024. Quando approcciamo l’argomento eleganza, diventa quasi automatico chiedergli che cosa pensi di quella che è una dicotomia ancora piuttosto evidente nell’abbigliamento maschile, e cioè la differenza fra la moda che sfila e che, in genere, si prefigge di influenzare, quando non di anticipare, i mutamenti della società, selezionata da un ristretto gruppo di persone, per lo più afferenti all’universo della moda stessa, e l’abbigliamento classicamente elegante, di evoluzione relativamente lenta, che incarna e rappresenta lo stile adottato dalla stragrande maggioranza degli uomini, anche non occidentali. Osserva come le “nuove generazioni non sentano più questa differenza” e che, al contrario, cerchino solo i capi più “adatti ad esprimere la loro personalità”, oltre le categorie e le differenze. Ci sarebbero centinaia di espositori iper-classici di Pitti a smentirlo, con le loro cravatte e le loro camicie e le loro giacche di gusto napoletano, ma bisogna riconoscere che la sua moda riesce ad infondere ai codici classici un non so che di divertito, un accento allegro (i modaioli direbbero un “twist”) che a molti degli espositori del Padiglione Centrale, in effetti, manca. “L’ispirazione, ormai, viene da centinaia di fonti, chiunque è modello per un altro”, osserva, accennando all’esperienza di Pharrell Williams da Vuitton come a un esempio eccellente dell’evoluzione della figura del designer e del ruolo stesso della moda. Essere a Firenze è per lui un “sogno divenuto realtà”; potrebbe sembrare una frase di circostanza. Non lo è: da molti anni Todd Snyder, che produce la propria collezione in Italia ed è convinto che nella sua filiera “non vi sia proprio nulla da migliorare, è perfetta così”, è visitatore di Pitti Uomo. Prima di invitarlo nel format “designer showcase”, i vertici di Pitti Immagine si sono presi un po’ di tempo. Poi, come ha detto il ceo Raffaello Napoleone, l’accordo è avvenuto nel corso di un incontro a New York, ed è mirato anche a riconoscere la sua “lunga e brillante carriera, caratterizzata dalla capacità di rinnovarsi costantemente in sintonia con lo spirito del tempo, restando fedele a un’idea di eleganza moderna, saldata ai valori della sostenibilità”. I piani di Woolrich e di American Eagle parlano di un’espansione globale del brand. Nella presenza fiorentina, conta anche questo, certamente.
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