Digital Fashion week 202, settimana della moda in streaming su schermi davanti al Duomo di Milano (LaPresse) 

il foglio della moda

Lo stilismo itinerante (e in fondo poco produttivo) sotto il Duomo

Claudia Vanti

La stampa internazionale però spesso ha faticato a riconoscere a Milano l’immagine internazionale e cosmopolita che viene attribuita per statuto a Parigi, Londra e New York

Chi frequenta i social network si è imbattuto almeno una volta in una fotografia del 1985 dei dodici più importanti stilisti italiani di quegli anni. Nell’ordine: Laura Biagiotti, Mario Valentino, Gianni Versace, Krizia, Paola Fendi, Valentino Garavani, Gianfranco Ferrè, Mila Shon, Giorgio Armani, Ottavio Missoni, Franco Moschino e Luciano Soprani. Guardarla mette sempre un po’ di nostalgia, soprattutto quando si pensa quale sia stata l’evoluzione di tutte quelle grandi promesse e la realtà attuale che vede solo Armani, in fondo, libero alla guida del suo impero. Sullo sfondo dell’immagine, compare il Duomo di Milano, a sancire un dato di fatto: la moda italiana del boom anni Ottanta era un prodotto tutto locale, dalla creazione alla produzione. Poco importa che ci fossero designer come Keith Varty e Alan Cleaver di Byblos o consulenti come Jean Paul Gaultier e Claude Montana dietro le quinte di Gibo’ e Complice, che Karl Lagerfeld disegnasse Fendi e che Krizia si sarebbe avvalsa dei migliori talenti internazionali per tutta la sua lunghissima carriera. La sensazione diffusa era che Milano, fra le capitali della moda, fosse la più impermeabile alle suggestioni esterofile, in un Made in Italy che comprendeva tutta la filiera.

  

   

Fare un paragone con la realtà attuale sarebbe impossibile: i creativi si formano dentro e fuori le accademie di tutto il mondo, e i direttori artistici hanno origini diverse e curricula itineranti. La moda è un sistema globale nel quale la proprietà finanziaria ed eterogenea di molti brand ha ulteriormente mescolato le professionalità e le provenienze. La stampa internazionale però spesso ha faticato a riconoscere a Milano l’immagine internazionale e cosmopolita che viene attribuita per statuto a Parigi e Londra, per non parlare di New York, a prescindere dalla rilevanza dei marchi che vi sfilano.

 

La stessa settimana della moda, per anni è stata un palcoscenico aperto quasi in esclusiva ai marchi italiani; solo da pochi anni, dopo aver corso il rischio di diventare un appuntamento ridotto a un week end di soli grandi nomi, si è aperta a brand internazionali, giovani nella maggior parte dei casi.  Alcuni sono ex-studenti di istituti prestigiosi oppure concorrenti o vincitori di concorsi internazionali (per esempio Satoshi Kuwata di Setchu, prima di vincere il prestigioso LVMH Prize aveva conquistato la giuria di Who is on Next? nel 2022) e tutti trovano a Milano una vetrina e un luogo di lavoro che, grazie alla filiera, offre supporto produttivo e know how manifatturiero, dalla plissettatura artigianale al rendering digitale dei piazzamenti dei ricami.

E’ il percorso seguito per esempio da Arthur Arbesser, vincitore di Who is on Next? Nel 2013, e da allora stabilmente a Milano con il suo marchio.

Molto diversa è la situazione dei luxury brand: turn over frequenti e terremoti nelle direzioni artistiche rendono aleatoria la connessione dei designer con le maison alle quali devono dare un’identità e passeggera la presenza in città: sono terminati gli anni della presenza fissa dei Lawrence Steele e di Neil Barrett, solo mega-star come Rick Owens possono permettersi di vivere quasi stabilmente a Venezia, addirittura al Lido come un personaggio viscontiano, ma pendolari di lusso.

E con i chief designer si muovono interi staff che, inevitabilmente, non hanno una grande conoscenza dei distretti e di quanto possano offrire in termini di realizzazione. In sintesi: a volte sembra più semplice ordinare una spilla o un bottone a un fornitore di Tokyo di cui si possiede il contatto che sfruttare appieno le potenzialità dell’indotto locale. In più, se il direttore artistico si ferma in città pochi giorni alla settimana, o al mese, può essere difficile coordinare le collezioni, figurarsi le licenze, in un’immagine unitaria e coesa. In genere, le bio ufficiali recitano che il tal direttore creativo “vive tra Milano e … (inserire nome a caso tra Londra, Anversa, Parigi o altra località amena), il che significa che è residente altrove e trascorre qualche giorno a Milano chiuso tra ufficio stile, albergo e ristorante. Uno sfondo che potrebbe essere ovunque, un non-luogo identico a decine di altri. Niente di nuovo, in realtà: Tom Ford e soprattutto Lagerfeld hanno dimostrato che ci si può spostare tra brand diversi e consulenze e rimanere perfettamente focalizzati, con il massimo beneficio per i fatturati delle collezioni. Dirigere uno staff con poche essenziali indicazioni e raccoglierne i risultati in una visione coerente però non è da tutti: è una capacità professionale che deriva da idee molto chiare, dalla visualizzazione concettuale di un progetto e capacità di comunicarlo a chi deve portarlo avanti nelle varie fasi di lavoro. Matthieu Blazy di Bottega Veneta sembra in grado di farlo bene, Kim Jones o Ibrahim Kamara, succeduto a Virgil Abloh a capo di Off White, un po’ meno, parrebbe, tanto che soprattutto nel caso di Jones non si esauriscono le voci che lo vorrebbero in prossima sostituzione da Fendi (i rumor, già segnalati dal “Foglio” mesi fa, parlano di lunghissime trattative fra la maison romana e Alessandro Michele, rallentati dalla richiesta del creativo di un contratto di consulenza privo di vincoli al quale il ceo Serge Brunschwig, attraverso Bernard Arnault, avrebbe opposto resistenza, ndr). Volendo rispettare le attuali regole di ingaggio nei gruppi del lusso, questa tendenza non si invertirà a breve: lo stilista itinerante continuerà a non conoscere a fondo il contesto del proprio brand, e la cultura nella quale si è sviluppato. I nomi delle maison assumeranno un valore provvisorio e intercambiabile, ma per un risultato in attivo poco importa se i fattori cambiano o si invertono: basterà solo smettere di usare la parola heritage come un mantra salvifico. Almeno questo. E Milano, e il suo territorio di oltre dodicimila imprese di settore (che si può estendere a gran parte dell’Italia) che valore aggiunto può portare alla definizione della moda nel futuro prossimo se non lontano? E’ un hub produttivo e distributivo unico, valorizzabile al meglio dai “giovani” (con una certa elasticità  anagrafica), quelli che presentano le collezioni in apertura e chiusura della fashion week, che arrivano dall’Italia, certo, ma anche da Giappone, Cina, Corea… un po’ snobbati, ma che spesso investono sullo sviluppo di un proprio marchio legandosi al territorio.

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