Costume contemporaneo
Purché sia di velluto
Donne e uomini non hanno abbandonato affatto questo tessuto prezioso, luminoso e mutevole, indossandolo perfino in climi caldi (vedi i Golden Globes). La mostra dedicata a Moroni alle Gallerie d’Italia
Nel saggio “Parole nel vuoto”, pubblicato nel 1933, l’architetto austriaco Adolf Loos scrive come “la natura nobile che è nella donna la spinge a desiderare una cosa soltanto: affermarsi accanto all’uomo forte e grande. Questo oggi è possibile solo se la donna conquista l'amore dell'uomo. Ma noi andiamo incontro ad un’epoca nuova, migliore. Non sarà più il richiamo alla sensualità, ma l’indipendenza economica della donna che determinerà la parità con l'uomo. Il valore di una donna non dipenderà più dalle trasformazioni della sensualità.
Assisteremo perciò alla definitiva sconfitta dei velluti e delle sete, dei fiori e dei nastri, delle piume e dei colori. Scompariranno”. Se aveva visto lontano identificando gli obiettivi di affermazione femminile, già peraltro ampiamente evidenti in quel fatale decennio, decisamente Loos capiva poco della seduzione immarcescibile di certi materiali, e dei loro risvolti sociali ed economici. Per esempio. Da quando le friulane di velluto colorato hanno conquistato il mondo come le calzature chic che non sono, avendo origine poverissima e una consuetudine con il velluto pari a zero (comunque, gli americani le indossano con i calzini bianchi e non senza calze come a Capalbio e a Milano centro, hanno ragione loro, per verifica cercate i figurini delle spose friulane firmati dall’etnologa-costumista Emma Calderini fra gli anni Quaranta e i Sessanta: erano confezionate con scarti di tessuto, talvolta persino con la juta dei sacchi, e ancora nei Settanta le contadine usavano come suola stracci pressati e cuciti con i vecchi copertoni delle bici), il mondo della moda ha riscoperto il velluto di seta anche nel pret-à-porter.
Anche in queste settimane post-natalizie, il velluto dà vita a tailleur (Emporio Armani ed Ermanno Scervino), abiti (Sportmax), gonne (Chanel), mantelle (Saint Laurent), declinati in colori anche inusuali come il blu turchese o Klein, il verde acido, il giallo. Ci si veste di velluto perfino nei climi caldi. Alla recente serata di assegnazione dei Golden Globes, a Los Angeles dove è difficile che il termometro scenda sotto i quindici gradi, le pieghe morbide di questo tessuto che, se tratto dalla seta, può ancora costare moltissimo, gareggiavano con le paillettes colorate e ubiquitarie: in velluto Dior taglio tardi Anni Venti era vestita Jennifer Lawrence, in velluto Schiaparelli Dua Lipa, in velluto e taffettà di Armani Privé, Amanda Seyfried. Il fatto singolare, osservando le immagini del red carpet e l’abbinamento di tagli e materiali studiato dagli stilisti per ogni attrice, o attore, è quanto poco sia in fondo cambiato il velluto e il suo utilizzo negli ultimi cinquecento anni.
A Zoagli, presso la famiglia Cordani, per lungo tempo è stato attivo quello che è forse l’ultimo telaio per velluto liscio risalente al Rinascimento: ormai sanno armarlo pochissime artigiane, confeziona poche decine di centimetri al giorno di un favoloso velluto fittissimo, circa un anno fa è stato rimontato ad Ala, in Trentino, “città del velluto” come lo sono state molte altre nel corso della ricchissima storia di questo tessuto che filtra e riflette la luce: Genova, Venezia, Milano, Firenze. Il velluto confezionato da questo telaio potrebbe essere diverso da quelli realizzati su macchine elettroniche solo per fittezza della trama (maggiore, ovvio), per morbidezza e dunque per i riflessi. Ma nella sua trasformazione in abito, mantella, giaccone, nella sua decorazione soprattutto, è incredibile constatare come gli abbinamenti previsti per valorizzarlo non siano sostanzialmente mutati in centinaia di anni: nastri di canneté, di raso, bordi di pelliccia, di piume, incrostazioni in filo d’oro, in paillettes (un tempo si chiamavano magete, erano bucate come monete e si realizzavano specialmente a Milano, già all’epoca di Ludovico il Moro città della manifattura di lusso, benché i ricchi amassero cucirsi sugli abiti anche bottoni e monete: il termine inglese “sequin”, ora identificativo delle paillettes, deriva da zecchino, il ducato d’oro di Venezia).
Oltre all’evidente e ovvio cambiamento nello stile degli abiti, basta osservare uno dei quadri esposti nella mostra dedicata a Giovan Battista Moroni alle Gallerie d’Italia di Milano (“Moroni. Il ritratto del suo tempo” a cura di Arturo Galansino e Simone Facchinetti, fino al 1 aprile) per rendersi conto della similitudine nel trattamento di questo tessuto, in particolare analizzando l’abito del ritratto giovanile di Isotta Brembati Grumelli, nobildonna colta e salottiera, madre prolifica ma anche poetessa famosa abbastanza da essere tradotta all’estero. Come scrive la storica Roberta Orsi Landini nel bel catalogo che accompagna la mostra, “fino agli anni Sessanta del Cinquecento l’ornamento preferito sia per l’abbigliamento maschile sia per quello femminile era costituito da bande applicate di tessuto differente da quello unito dell’abito, che potevano essere di colore contrastante ma anche giocare sul tono su tono, spesso arricchite da ricami e rifiniture in oro”.
Quello di Isotta è particolarmente interessante perché profilato da filetti di pelliccia tinta per accordarsi perfettamente al colore dell’abito: non è possibile stabilire, osserva la studiosa, che negli anni si è occupata anche del restauro e degli studi attorno agli abiti di Eleonora da Toledo e in particolare dei frammenti del capo identificato nella sua tomba, se la scelta fosse frutto del gusto dell’acquirente-committente dell’abito o del suo sarto. Certo è che simili accorgimenti sono tuttora in uso, in particolare nella lavorazione di accessori, così come si realizza ancora, benché con minore ricchezza, il celebre velluto soprarizzo, a effetto magnificante, che compare in forma trompe l’oeil (una lavorazione flock effetto velluto liscio) anche nel nuovo libro-immagine di Stefano Chiassai e Corinna Chiassai, “Velvet mi amor” (Dario Cimorelli Editore), volenteroso tentativo di dar vita a una “collezione ideale” usando i tessuti di oltre trenta manifatture italiane e di valorizzare il progetto creativo-archivistico The Cube dell’autore. Il volume, che persegue scopi celebrativi o per meglio dire espositivi per le imprese che vi compaiono, senza soffermarsi sullo sviluppo del comparto, sulla sua storia o sulle sue connessioni artistiche o economico-politiche, ha però il merito di risvegliare l’attenzione e di concentrare l’interesse dell’eventuale sfogliante sulla diffusione di questo mestiere e di questa abilità artigianale, tuttora, in Italia. E anche in questo caso, le sovrapposizioni con i centri manifatturieri rinascimentali sono evidenti. Analizzando lo scenario economico e politico del secolo in cui visse Moroni, Orsi Landini si domanda ancora da dove provenissero i drappi neri con cui si abbigliavano i personaggi da lui ritratti.
“Certamente da Venezia, il cui dominio comprendeva Bergamo e Brescia, rappresentando il centro naturale per l’acquisto di tessuti pregiati; ma, proprio nel periodo in cui il pittore fissava sulla tela l’immagine dei personaggi notabili di queste città, la produzione di velluti neri a Venezia entrava in crisi e si incrementava invece a Verona, Vicenza, Brescia e Bergamo, facendo di conseguenza diminuire i prezzi non solo dei velluti neri, ma anche di altri tessuti di seta tinti in nero, come damaschi, rasi, ormesini. I diversi tessuti neri, lane e sete che vestono i personaggi ritratti da Moroni, possono dunque essere drappi lavorati in terraferma, senza escludere però neppure una provenienza da altri più prestigiosi centri forestieri, Genova soprattutto per i velluti e Firenze per i rasi e le lane finissime”, sebbene la loro importazione fosse illegale. “Naturalmente”, aggiunge, ”sulla piazza di tutte le città era possibile acquistare quelle tipologie di tessuti altrimenti non reperibili se non in altri stati, come le tele fini delle Fiandre e della Francia, indispensabili per confezionare le camicie più belle”. C’è un che di confortevole, nel sapere che, al di là delle innovazioni tecniche, o forse proprio grazie a queste, un mestiere così antico continui a svilupparsi, negli stessi centri.
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