IL FOGLIO DELLA MODA
Viva le "sciure" milanesi. Parla l'ex direttore creativo di Aspesi
Appena concluso il lungo sodalizio con l'azienda di moda, Lawrence Steele ripercorre il suo lungo rapporto con l’Italia, dagli anni di Moschino e Prada in cui era “una fragrante novità” alla scoperta delle radici del razzismo con le prime migrazioni
Non deve esser stato un congedo sereno, ma ora che può rendere ufficiale la conclusione del suo contratto di direttore creativo di Aspesi, Lawrence Steele non perde né la calma né la diplomazia. Perlomeno, così si evince dalla sua voce al telefono. Del resto, Aspesi ha rappresentato un allez-retour importante per la sua carriera: nel 2004, il designer aveva accettato l’offerta del fondatore del brand Alberto Aspesi di lavorare in esclusiva come art director dopo essere stato consulente per l’azienda dal 1997. E dopo molti anni, nel 2020, con il cambio di proprietà - il fondo di private equity Armònia Italy Fund -, è stato chiamato a ricoprire il ruolo di direttore creativo e a occuparsi di ogni aspetto dell’immagine, dal design delle collezioni uomo e donna, alla comunicazione, “perché essere stilista non basta più, occorre conoscere ogni aspetto del mercato”. Nel frattempo, la sua strada aveva già conosciuto strade gloriose e talvolta accidentate: come il lancio della linea eponima nel 1994 – che poi preferì chiudere - e anni di collaborazioni da mettere in curriculum, da Moschino a Prada fino a Marni, di cui è stato associate creative director accanto al suo (ex?!) grande amore Francesco Risso, ora rimasto al comando in solitaria.
Parliamo con un oceano di mezzo: Steele è a Chicago, dov’è nato e dove vivono i suoi genitori, cui è venuto a tenere compagnia e forse a cercare un po’ di tranquillità. Ascendenze caucasiche, ebree e native americane, Lawrence è stato uno dei primi nordamericani black a far parte del ristretto circolo della moda meneghina. Un padre militare sassofonista jazz nell’Air Force, sempre presente nei cori della Chiesa Battista, mai più di due anni nello stesso posto. “Così ho sempre vissuto svincolato da tutto, ma ho imparato a ricominciare ogni volta. Quando, nel 1986, sono venuto a Milano, ero sconvolto dal suo calore umano. Arrivavo dal Giappone, dove avevo fatto uno stage in un’azienda locale: approdavo da studi artistici all’Art Institute di Chicago, che aveva un programma speciale per soli venticinque studenti cui veniva data la possibilità di tagliare, cucire, fare i cartamodelli. Non avevo una grande pratica. Tutti mi cercavano, mi volevano, mi apprezzavano e non solo nella moda, ma addirittura per strada, al mercato, nei mezzi pubblici: avvertivo la piacevolezza narcisistica dell’essere una fragrante novità. In Italia erano molto incuriositi da uno dei primi ragazzi afroamericani che lavoravano come designer in aziende del lusso. Anche se può sembrare retorico, in ogni “sciura” che incontravo, io avvertivo il calore di una potenziale madre”.
Forse non è stato solo questo dato antropologico-genetico, che generosamente il designer attribuisce a tutte le italiane, ad aver convinto Miuccia Prada a offrirgli lavoro dopo che aveva fatto parte del team di Franco Moschino. L’arrivo di Lawrence Steele è stato quello del nuovo ospite che, come dire, fa la sua figura: ci conosciamo da allora e siamo qui a testimoniare che all’entusiasmo italico faceva pendant la sua figura alta e snella come una statua di Giacometti in abiti esclusivamente Hermès, indossati con snobismo assai ironico. “I vestiti sono un modo semplice per presentarti al mondo e quel linguaggio per me è sempre stato ciò di cui mi sono occupato: il potere dell'identità, i vestiti come estensione di una migliore versione di sé”. Tutte cose comunque secondarie rispetto al talento, ma si sa: nel mondo della moda il giudizio estetico è potente come quello professionale e lui – absit iniuria verbis -, è sempre stato considerato bravissimo ma anche l’esemplare di bellezza maschile più internazionale del quadrilatero della moda.
Ci conosciamo da molto tempo, siamo cresciuti: parliamo del tempo che passa, dei danni e dei pregi della globalizzazione, dell’elefantiaco ingresso della finanza della moda. “Ho lavorato in un tempo dove si era tutti molto liberi; c’erano giovani designer che facevano cose straordinarie; poi, l’intero mondo della moda si è evoluto in una macchina molto grande”. Troppo grande? “Non alludo solo all’Italia, ma al mondo intero… Da quando vivo a Milano, non si è perduta ma si è resa meno fondamentale la qualità intrinseca del prodotto perché il mercato è diventato gigantesco, si disegnano fino a otto collezioni all’anno per marchio, l’e-commerce è sempre più capillare, si ha sempre continuamente bisogno di sfornare novità”. Eppure, dice, “non ci sono colpe da assegnare a qualcuno di specifico o a qualche luogo preciso: è andata così. Probabilmente è mutata la cultura della moda. Quando ho cominciato, ci si rivolgeva a un target più piccolo e anche obiettivi alti di fatturato non erano una necessità urgente come ora. Paradossalmente, gli abiti erano più abbordabili, sebbene fossero prodotti in quantità minore. La mia linea era nata in un momento d’oro, gli anni Novanta dell’indipendenza; poi, l’industria è passata dall’intimità dello stilista-proprietario a gruppi organizzati in strutture verticali per massimizzare le economie di scala. Ho scelto l’autonomia del mio nome. Non ho venduto, ma ho chiuso”.
Non ha mai, ma proprio mai, pensato di essere stato discriminato? “No. Si stava trasformando il mondo. Il razzismo, quello sì, l’ho conosciuto più tardi, dalla metà degli anni Novanta in poi, con l’arrivo della prima ondata migratoria dai paesi africani. Ho sentito diffondersi come un senso di inquietudine, di paura, perfino tra i miei amici. Lì ho capito come e da dove nasce l’intolleranza: dal timore più o meno infondato della crisi, della povertà: un sentimento che si diffonde come un contagio e quindi esige che si trovi un capro espiatorio. Ma questo non ha nulla a che fare con la mia professione. Non riuscirà a farmi dire che il sistema della moda – italiana o internazionale – è responsabile della cessazione del mio marchio: è stata una mia decisione finirla così perché non volevo trovare un partner che magari mi avrebbe scippato il nome, com’è successo a Romeo Gigli o ad Alessandro Dell’Acqua. La verità è che la moda va avanti e tu ti muovi con lei o ti estingui: sono andato avanti. Fino alla collaborazione con Aspesi, non sapevo neanche cosa volesse dire avere invenduti, contare su un deposito, avere la responsabilità di ottanta famiglie. Infatti, mi interessava realizzare qualcosa che, pur non essendo più sotto i riflettori, mi facesse pensare più in termini di qualità che di quantità. Oggi, sono più attratto dalla dimensione dell’abito come oggetto di design che come emblema di un periodo storico. E con un marchio industriale e piccolo, puoi raggiungere milioni di nicchie contemporaneamente. Lavorare dietro le quinte ma fare le cose bene e raggiungere gli angoli più remoti della terra è una prospettiva elettrizzante”.
Uno dei grandi meriti che Steele riconosce al nostro Paese è di averlo reso visibile nel suo paese d’origine: tra le sue clienti figuravano Oprah Winfrey, Lauryn Hill, Meg Ryan, Julia Roberts e Jennifer Aniston, per cui realizzò uno spettacolare abito da sposa da cinquantamila dollari con ventotto metri di strascico tutto tempestato di perle. E ancora: l’intervista di dieci pagine al “New Yorker”, Manolo Blahnik che solo per lui realizzò le Lawrencia, un modello speciale di décolleté, le frequenti visite reciproche a casa di Anna Wintour che in tempi distanti dall’esaltazione della diversity, gli dedicava infervorati editoriali perché nessuno, negli States, avrebbe mai detto che un giorno uno stilista nero, gay e sottile come una gazzella sarebbe venuto in Italia a insegnare agli europei come vestirsi con classe. Avere un grande avvenire dietro alle spalle non è una cosa che oggi può creare un certo disappunto? Possibile che non l’ha abbia mai fatta arrabbiare? “Non si è mai trattato di quanto io potessi diventare celebre o ricco, ma di quanto mi venisse permesso di rimanere fedele a me stesso. Non ce l’avrei mai fatta a disegnare o anche solo a pensare qualcosa che non appartenesse a un mio personalissimo alfabeto estetico. Non m’interessava diventare una superstar”.
C’è anche da dire che un suo pezzo, anche trent’anni dopo, tra le signore raffinate, è oggetto di una sorta di culto della conservazione: “Non sono un nostalgico. Forse avere più tempo, godersi la vita, viaggiare per le ispirazioni è una delle poche cose che rimpiango dei miei inizi qui; però resto ossessionato dall’idea di un abbigliamento senza tempo, del capo perfetto che rimane a lungo nel guardaroba ma allo stesso tempo può essere reinterpretato. Vado spesso all’archivio Mazzini, a Ravenna, un posto pazzesco: c’è tipo un chilometro di abiti da uomo Armani degli anni Settanta e Ottanta, e li indosso. Sono così belli, così connessi al presente, da essere modernissimi soltanto con piccole modifiche”. Quando domandiamo quale sia non il suo couturier, ma il suo libro preferito, risponde subito che è “L’accademia dei sogni”, di William Gibson, romanzo distopico del 2003: la protagonista è una giovane donna, Cayce Pollard, affetta da una patologica idiosincrasia per i marchi. “A sei anni la semplice vista dell’omino Michelin bastava a farla vomitare”, scrive l’autore. Da adulta si scopre a tal punto logofobica da limare i bottoni dei jeans pur di ricondurli all’anonimato.
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