la pubblicità
La coscia del peccato che irrita i nuovi moralisti
FKA Twigs fotografata da Mert&Marcus per Calvin Klein con una camiciola di jeans scivolata sulle spalle fa scalpore. Ma è la replica di una foto di trent’anni fa, e allora nessuno s’era indignato
Nell’ennesima crociata contro una campagna di moda che tiene banco in questi giorni, la notizia vera è che i moralisti si sono scagliati contro la replica quasi perfetta di una foto pubblicitaria di trent’anni fa della stessa azienda, Calvin Klein. Le immagini originali, scattate da Mario Sorrenti e altri nomi rilevanti dell’epoca, riproducevano una Kate Moss adolescente avvinghiata a Mark Wahlberg, “Marky Mark” come era conosciuto negli anni in cui pubblicizzava qualunque cosa con quei suoi muscoli da primo premio, e Christy Turlington nella sua bellezza assoluta che tutti valutavano per quella che era, bellezza appunto e ben valorizzata. La foto censurata di oggi ha per protagonista la cantante e modella FKA Twigs, fotografata da Mert&Marcus con una camiciola di jeans scivolata sulle spalle che “non si vede abbastanza per essere una foto pubblicitaria” rispetto alla sua coscia sinistra.
Viviamo nell’era in cui, in Francia, un professore non può mostrare la riproduzione di un dipinto mitologico del tardo manierismo senza essere accusato di islamofobia, e la Advertising Standard Authority inglese si muove sulla denuncia di due – ripeto, due – tizi che hanno giudicato quella coscia femminile in piena luce “oggettivante del corpo femminile” e che, in malafede o meno, ignorano il passato dell’iconografia occidentale o forse intendono cancellarlo. Delle ispirazioni e degli ascendenti di quella foto si è accorto nessuno, un po’ perché le immagini pubblicitarie di moda, tranne casi rari e molto celebrati tipo Juergen Teller, sono tutte, sostanzialmente, identiche da mezzo secolo; un po’ perché, fra social e ricerche d’archivio istantanee, abbiamo messo a riposo la memoria a medio e lungo termine, la Gen Z forse non ha nemmeno mai avuto bisogno di esercitarla, e dunque in genere tendiamo a mettere in pratica la vecchia teoria di Vico sui corsi e ricorsi storici: ci azzuffiamo su argomenti superati o forse, appunto, intendiamo azzerarli in caso si ripresentino.
Comunque, l’argomento che merita di essere approfondito è come mai, amnesie a parte, nei Novanta fossimo meno bacchettoni di oggi che veniamo bombardati di immagini pornografiche perfino quando ci avventuriamo nella sezione spam del nostro pc per vedere se non vi sia finito il tracking della spedizione di contenitori di vetro per la cucina che abbiamo comprato su Amazon essendo costrette a letto. Tocca però fare una premessa. Una trentina d’anni fa, nel 1995, Claudia Schiffer comparve in un annuncio pubblicitario scattato da Richard Avedon per la linea casa di Versace: nuda quel tanto che bastava a parere vestita, considerando il piattino di porcellana con la testa della Medusa che le copriva il pube e i capelli in extension che ne occultavano il seno, teneva in mano una mela morsicata come la Eva di Lucas Cranach sulla quale era modellata, a significare che il danno era fatto e che era lecito peccare con la (o forse sulla, per i temerari) porcellana griffata. Il suo partner, Adamo, era Sylvester Stallone con i connotati naturali di allora e quello sguardo un po’ vacuo che pare fosse parte integrante del suo sex appeal: i muscoli a vista oliati, mostrava anche lui il suo bel piattino lì, sostenuto non si sa come, però quadrato e con i bordi rialzati, genere svuota tasche. Non fosse stato per la fama planetaria del fotografo e per la rilassatezza di quegli anni in cui non solo modelli e attori, ma anche industriali e futuri ministri si facevano fotografare più che volentieri nudi sulla copertina dei newsmagazine negli scatti di Oliviero Toscani ed Helmut Newton (sì, all’epoca la stampa vendeva ed era ricca, no, quei tempi non torneranno più), la campagna di Versace sarebbe finita nel secchio del grottesco indifferenziato. Invece è entrata nell’olimpo del camp, citata sui libri di storia della pubblicità e del camp stesso, al punto che due anni fa, su invito di Donatella Versace, le sorelle Gigi e Bella Hadid l’hanno replicata, con lo stesso sfondo, extension e mela comprese, per la campagna primavera estate 2022 del marchio, immortalate da Mert Alas e Marcus Piggott. Al posto dei piattini, tenevano con le mani due borsette da giorno, scelta metonimica involontaria che per i vecchi milanesi è stata fonte di irresistibili lazzi, essendo in dialetto la “borsetta” proprio quella cosa lì.
I due fotografi – e qui arriviamo al punto e al motivo per cui bisogna riflettere sul giro di vite puritano che va cogliendo l’occidente proprio mentre i social danno prova di una violenza inimmaginabile e bisogna difendersi dalla pornografia che ti viene riversata addosso appena accendi il pc – negli anni si sono fatti un nome prendendo ispirazione, per non dire riproducendo tout court, modalità, stili e inquadrature storiche per una buona parte della loro produzione. E’ una tecnica come un’altra per diventare memorabili: guardi le immagini di Mert&Marcus e automaticamente il cervello si mette in moto per rintracciarne il modello originario, depositato in qualche cellula cerebrale da decenni. Talvolta l’omaggio dei due è dichiarato, più spesso no ma, come nel caso di Versace, capita che un’azienda di moda cerchi di ripetere gli antichi fasti autocitandosi e li chiami per riviverli con un minimo di contemporaneità. Per dirla chiara, quel che vediamo prodotto da loro, di solito l’abbiamo già visto decenni fa, senza grandi conseguenze. Ma i tempi, appunto, cambiano.
Ai primi di gennaio, Mert&Marcus, in coppia e singolarmente, hanno firmato la nuova campagna per l’intimo di Calvin Klein, uomo e donna, destinata a Stati Uniti e Gran Bretagna. Intimo, si badi bene, cioè mutande, camiciole, reggiseni, no abiti da sera e no cappotti. L’impresa era relativamente facile, considerando che la storia del brand americano è costellata non solo di quel genere di immagini che i modaioli definiscono “iconiche”, ma anche di una narrativa sulfurea che le ha sempre portato gran successo di vendite fin dal 1980 quando una Brooke Schields adolescente, jeans e pancia nuda, dichiarava sei metri per nove che “fra lei e i suoi Calvins c’era nulla” e che insomma, almeno per quella volta, non stava promuovendo mutande. Nei decenni sono seguite infinite altre pubblicità dello stesso tenore, tutte sostenute da un minimo di utilissima polemica: nel 2015, per esempio, si disse che la dotazione naturale di Justin Bieber, testimonial di un modello di slip a vita alta, fosse stata photoshoppata a fini magnificanti mentre, nel 2016, le femministe insorsero contro chi aveva attaccato l’immagine di una modella che teneva in mano un frutto vagamente evocativo di una vagina affermando che fosse “glorioso” celebrare un organo che tutte le donne possiedono, un’affermazione che oggi, per restare in tema censure&moralismo, non potrebbero più permettersi di fare senza incorrere nel reato di transfobia e stavolta la memoria corre al celebre siparietto “call me Loretta” dei Monty Python in “Brian di Nazareth”, un altro di quei film e di quelle immagini che, oggi, scatenerebbero i vigilantes della correttezza socio-morale.
Dunque. Ai primi di gennaio 2024, proprio a ridosso dei Golden Globes dove la serie “The bear” avrebbe vinto tutti i premi più importanti, nel grande spazio pubblicitario di Houston Street, a SoHo, che Calvin Klein occupa da decenni, è comparsa la fotografia del suo protagonista, Jeremy Allen White, nudo e muscoloso in mutande e sneaker, e i social hanno perso la testa: in due giorni, lo slippone ben riempito dell’attore ha generato 12,7 milioni di dollari in valore di impatto sui media a dati Launchmetrics, circa sei volte tanto la campagna pre-spring di Bottega Veneta con gli scatti paparazzati di Kendall Jenner e A$AP Rocky. Sui social rimbalza tuttora il video della campagna, dove il corpo sodo di White viene glorificato da un volo di colombe bianche, in un trionfo camp che neanche Liberace nei Settanta e con un ovvio sottinteso erotico sul quale però nessuno ha mosso il benché minimo appunto, perché al momento l’uomo sessualizzato gode di ampio consenso sociale, mentre il corpo femminile esposto è diventato argomento tabù, a prescindere da cosa ne pensi l’interessata. Sulla propria immagine condannata e ritirata, infatti, FKA Twigs ha avuto parecchio da dire. L’ha fatto su Instagram, usando gli argomenti del momento, e cioè razzismo, inclusione, disparità di genere, ma ribadendo in fondo quello che le femministe gridavano nelle piazze già alla fine dei Sessanta, e cioè che ognuna è libera di fare del proprio corpo quello che vuole. “Non vedo lo stereotipo dell’oggetto sessuale con cui mi hanno etichettato”, ha scritto la cantante in un post dove, orgogliosamente, riproponeva l’immagine censurata: “Vedo una donna nera, bella e forte, il cui corpo incredibile ha superato più dolori di quanto ne possiate immaginare. Quindi, per essere chiari. Sono orgogliosa della mia fisicità e ritengo che l’arte che creo sia all’altezza di donne come Josephine Baker, Eartha Kitt e Grace Jones che hanno abbattuto le barriere di ciò che sembra essere l’emancipazione e l’imbrigliamento di una sensualità unica”.
I due che hanno denunciato la sua immagine al Giurì inglese sono rimasti, naturalmente e purtroppo, anonimi: sarebbe interessante capire quale sia la loro educazione all’immagine della cultura europea degli ultimi due millenni e la loro valutazione dell’autodeterminazione femminile e maschile. Quello che FKA Twigs ha sottolineato è, non a caso, il doppio standard morale grazie al quale White può permettersi di sculettare con la braghetta a vista nel tripudio collettivo e a lei tocchi apparire coperta fino alle ginocchia per non incorrere nella riprovazione dell’inquisitore collettivo e redivivo.
Non si tratta, comunque, solo di differenti sensibilità e di quel giro di vite moralizzante che il difficile processo di inclusione di culture e sensibilità diverse comporta. Lo stesso pensiero occidentale ha sempre avuto difficoltà nel concettualizzare il corpo, per ragioni diverse e speculari rispetto a quelle della morale, percependolo non di rado come qualcosa di estraneo, basti vedere il ruolo stesso della moda e dell’abbigliamento in alcuni momenti particolarmente ostili alla valorizzazione del corpo, come il primo Seicento, in cui la fisicità viene racchiusa in corsetti e, nel caso delle donne, sottante rigidissime, e la testa visivamente staccata dal resto del corpo con le gorgiere. Questa problematica, non sentita in culture diverse come, per esempio, quella africana, trova riscontro nell’impossibilità che, in genere, l’uomo occidentale ha nell’afferrare la propria immagine corporea. Questa percezione è sempre mediata dall’immagine riflessa dallo sguardo degli altri, dunque non è un caso che queste polemiche nascano attorno a campagne pubblicitarie, massima espressione del riflesso dell’immagine corporea, e raramente, se non mai, per quelle espressioni “di sottobosco” come appunto la pornografia. E’ sempre lo sguardo terzo che dà forma alla nostra immagine corporea, che si costruisce e si decostruisce nel continuo rapporto che abbiamo con il mondo esterno e che dunque risente dell’evoluzione della società. E quindi, in fondo, non è solo per amnesia o ignoranza che ci siamo dimenticati, molti di noi perlomeno, di Kate Moss e di Christy Turlington. Il mondo che ne valorizzava l’immagine era molto diverso da quello di oggi. Di sicuro, comunque, aveva meno pregiudizi e ristrettezza di vedute.
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