Il Foglio della moda
Automatismi pericolosi: la politica e la moda nell'era della seduzione digitale
Nella democrazia dei like, marchi o partiti sono ormai la stessa cosa: ci si comporta nella cabina elettorale come nel camerino di una boutique. Scegliendo secondo l’estro del momento
C’è stato un periodo in cui la politica era di moda: rivediamo al cinema la versione restaurata di “The Dreamers” di Bernardo Bertolucci (2003) e non fatichiamo a credere che, nel 1968, la protagonista Isabelle scegliesse di scendere in piazza a lottare nel maggio francese, molto più appassionante della relazione statica con l'introverso Matthew. Il problema della politica sta nella sua natura di compromesso che la moda asseconda: vestirsi per agire è, in un certo senso, non agire, "è ostentare l'essere del fare senza assumerne la realtà", si può azzardare scomodando un Roland Barthes più credibile oggi che la mutevolezza ideologica subisce accelerazioni, spostamenti, deviazioni perché, come tutti dicono, soltanto gli stupidi non cambiano idea, mentre gli algoritmi ci mettono del loro per confonderci. Da marxista a buddhista il passo è breve, come dallo statalismo al liberismo, dall'autarchia all'esaltazione della più sfrenata economia di mercato, dal gilet giallo dell'oppositore al doppiopetto gessato del rappresentante speciale per la regione del Golfo. L'instabilità riguarda le persone comuni esattamente come i politici, bruschi cambiamenti di posizione che mostrano come la mutevolezza delle coscienze non sia caratteristica del nostro tempo, ma peculiare è il modo in cui si palesa: se si crede ancora in qualche causa lo si esterna comodamente, senza muoversi da casa, con un post, un tweet, un thread.
Qualunque cosa è rettificabile, sostituibile e l'essere fraintesi è la regola. Come nella moda: il tradimento vince sulla fedeltà, nell'euforia dell'usa e getta o del suo esorcismo, il second hand, nuova mania del lusso che permette di acquistare abiti indossati solo una o due volte o anche mai. Sovraeccitato, l'algoritmo di TikTok ripropone i video "Taxé les riches" di @RetraiteClimat, alternati alle immagini del negozio "Svergognata" di Napoli che promette: "Riceverai un saluto di Rita de Crescenzo se acquisti per più di cinquanta euro". L'ultima ibrida forma di sacralizzazione della moda portata avanti dai coraggiosi social media manager dei marchi nobili svanisce di fronte al primato dell'ultima degli influencer partenopei: la forma moda trivializzata così come appare sui social si impone anche sulla politica poiché perfino Giorgia Meloni deve adattarsi ai trend di TikTok (io sono Giorgia) e se non lo fa lei ci pensa Dj Pletto che la remixa come se fosse La Ragazza Truzza o le fa cantare "Grande amore" del Volo. Quando il potere si conquista con un voto democratico ecco che sopravvengono quelli che Gilles Lipovetsky chiama "gli effetti di linguaggio": i politici, tra promesse destinate ad affascinare gli elettori con slogan brevi, soluzioni pronte, demagogia spicciola e la smania social di esibirsi, imparano a prendersi cura del proprio aspetto, si fanno ritoccare dal chirurgo estetico, si riprendono in famiglia e in vacanza. Ma non è detto che funzioni. La moda non può fare molto: certe prese di posizione di designer woke, la provocazione di Volodymyr Zelensky di farsi fotografare da “Vogue”, strizzare l'occhio ai militanti LGBTQ+ e ai movimentisti Friday for Future, la buona volontà degli stilisti giapponesi di fare alta moda con fibre riciclate, le trovate di distruggere un paio di sneakers costosissime o di far diventare una borsa una busta di patatine, o quella di simulare una tempesta di neve durante una sfilata per protestare contro l'attacco russo all'Ucraina, non avvicinano le fashion victim alla politica: suscitano piuttosto uno sguardo perplesso in quelli che, al contrario, proverebbero attrazione, contribuendo a fare della politica attuale il regno della seduzione infelice, un mondo de-ritualizzato, de-simbolizzato, alla fine banalizzato.
È finita l'era dell'elettore-consumatore, che Berlusconi seppe rivestire di una patina di modernità. Il marketing politico nato negli Stati Uniti oltre cinquant'anni fa, con i primi pubblicitari e gli esperti di pubbliche relazioni ingaggiati per curare l'immagine del candidato ("I like Ike" fu uno dei primi slogan lanciati a sostegno di "Ike" Eisenhower) lascia il posto ora alla fluida propaganda della cosiddetta democrazia dei like, che la distopica campagna del 1953 per il presidente degli Stati Uniti aveva prefigurato: oggi è tutto un cuoricino, su Giorgia, su Matteo, su Carlo, su Giuseppe. E si fa una grande confusione tra il vendere qualcosa di cui un cittadino ha bisogno, con un programma politico che non dovrebbe invece vendere niente, ma veicolare piuttosto valori e senso di comunità. La moda dal canto suo, tra Demna, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, Maria Grazia Chiuri e Alessandro Michele partecipa della stessa euforia: l'importanza mediatica dei designer oscura quella dei brand, diventa un effetto della sfera social e, come in politica, decreta la fine della fedeltà partigiana. Siamo tutti traditori, con la politica e con i marchi. Ci vestiamo, acquistiamo abiti e accessori in funzione di ciò che ci piace. Lo spirito social che pervade ormai l'elettore vorrebbe spingerlo a comportarsi in cabina elettorale come nel camerino di un negozio. La cultura della seduzione digitale contamina la politica, che diventa essa stessa oggetto di predilezione acritica. Si sceglie un partito come si sceglie un abito: con la stessa frivola avventatezza. La democrazia fittizia dei social ha spinto i politici ad abbandonare i segni della grandezza simbolica. Ora ogni politico è, per definizione, "vicino" a noi elettori: lo stile egualitario di Instagram, Facebook, TikTok è stato integrato nella sfera della comunicazione istituzionale, squalificando le ultime manifestazioni di aura sacrale del potere. Un'operazione di disintermediazione che ha coinvolto anche la moda, nel processo di giubilazione narcisistica il sogno di essere visti è diventato l'aspirazione di un numero crescente di persone: quando scompaiono le grandi ambizioni di cambiare il mondo o di migliorarlo indossando un abito elegante, resta la magia della celebrità social, per provare il godimento narcisistico della divinizzazione di sé stessi.
Paolo Landi è comunicatore, autore di bestseller sul rapporto fra media e valore dell’informazione. Il suo nuovo saggio è "La dittatura degli algoritmi. Dalla lotta di classe alla class action" (Krill books).
Alla Scala