Il foglio della moda
Personalità indomite: Anna Fendi, 90 Anni di eleganza, creatività e potere
A tutto campo con la stilista che continua ad avere molte attività nell’accoglienza di lusso e zero contiguità con il potere politico: "Mai nessuna istituzione ha dato una mano ai marchi dell'alta moda"
A poco più di un mese dal suo novantunesimo compleanno, che cadrà il 23 marzo, Anna Fendi si definisce “una giovane donna di novanta anni con tre figlie, dodici nipoti - sei maschi e sei femmine, perché siamo matriarcali, ma teniamo in considerazione anche gli uomini - e perfino cinque bisnipoti”. Al telefono è un po’ agitata, sbrigativa, pur mantenendo una gentilezza di tono e di modi. Risponde da Villa Laetitia, affascinante dimora storica familiare (ma c’è anche la succursale a Ponza), ideata da Armando Brasini nel 1911 sulla Rive Droite del Tevere, che lei ha trasformato in residenza di charme, dotandola di ristorante stellato: “È venuto due-tre volte anche Wes Anderson”. L’avremo disturbata? “Ma no, mamma è fatta così, sempre piena di impegni, ha più energia di noi tre figlie messe insieme: sta organizzando una festa di carnevale a Ronciglione, nella casa di campagna di mio padre, dove c’è un’altra nostra residenza, la Canonica dei Fiori, riadattata a guest house, dove trovi anche i vini Anna Fendi», mi dirà in seguito Ilaria Venturini Fendi, secondogenita appassionata di fiori, piante e ambiente ma fornita dell’imprenditorialità materna tanto da dedicarsi allo stile sostenibile e all’azienda agricola biologica I Casali del Pino, 174 ettari di campagna a Roma nord, località La Storta.
Per la cronaca: i carri del carnevale storico di Ronciglione, cittadina a pochi chilometri da Roma, nel viterbese, sfilano proprio sotto la tenuta di Anna, ma lei non li segue: la prima domenica di Carnevale alle dodici va regolarmente a messa nella sua cappella privata e poi presiede il pranzo a buffet con amici e parenti. “Abbiamo sempre cercato di ricordarci la regola dei nostri genitori. Siete le cinque dita di una mano: ognuna è diversa dall’altra, ma funzionano solo tutte insieme. Non potete litigare”.
C’è una fotografia che scattò loro, negli anni Ottanta, il mitico Karl Lagerfeld, stilista-demiurgo che le cinque sorelle arruolarono nel 1965 come direttore creativo della maison, per cui disegnò anche il logo a doppia effe. Le aveva fatte vestire con drappi e pepli candidi e porpora. In quell’immagine le Fendi sono la rappresentazione plastica delle Imperatrici dell’Urbe, vere papesse pagane di una città brulicante d’idee più dell’asettica Milano, in qualche modo: a loro, infatti, piace il rischio pur se calcolato e ponderato. Preferiscono la stravaganza all’esibizionismo da generone, categoria sociale piuttosto invisa in famiglia, orgogliosa di un cognome “unico in Italia: mio padre era il solo maschio ed ebbe cinque figlie femmine. Adesso però anche i nostri nipoti si chiamano Fendi, perché abbiamo voluto che lo aggiungessero. Noi eravamo cinque ragazze un po’ incoscienti che, con l’aiuto dei nostri genitori, volevano cambiare la maniera in cui si portavano le pellicce, fino ad allora status symbol pesanti, borghesi”. Cinque sorelle - Paola, Anna, Alda, più Carla e Franca, purtroppo le ultime due non ci sono più - che si erano suddivise compiti, missioni e doveri in maniera poco romana e molto teutonica. Un mix tra Sorrentino e Fritz Lang, insomma: “La grande Bellezza” meets “Metropolis” ma anche “La dolce vita”, visto che Fellini andava a trovarle in atelier chiamandole “le Fendine”.
Anna ha un aspetto invidiabile, svolge molte attività ed è attenta alla creatività e alla produttività anche economica oggi come cinquant’anni fa quando, a New York, incontrò Andy Warhol che le chiese una pelliccia e lei, pronta, si disse disponibile a un baratto con un quadro. L’affare purtroppo non andò a buon fine a causa della morte prematura dell’artista.
A lei era andata la responsabilità dell’ufficio stile. “La prima piccola boutique era in via Borgognona, più elegante e discreta di via Condotti. Dalle vetrine vedevo passeggiare divi e regine, come Federica di Grecia, che andava farsi fare i capelli da Giorgio, all’epoca il parrucchiere più celebre della città. Se lei mi chiede quali e quanti rapporti abbiamo avuto con la politica, le posso solo dire che, per evitare che in quella strada così sofisticata parcheggiassero delle auto, mi sono inventata di tutto: tipo far costruire allora delle bancarelle di design con dentro delle piantine di primule, che furono i primi dissuasori cittadini. Alla fine, piacquero anche al sindaco ed è andata benissimo: sono stata per più di trent’anni la presidente dell’Associazione Commercianti di via Borgognona. Anche se poi, a innaffiare le primule ci andavo io alle sei di mattina”.
Prima italiana a ricevere a Washington il premio IWF Hall Of Fame, insignita Cavaliere di Gran Croce, Anna è la memoria storica dell’azienda, poi venduta a LVMH nel 2000. Però, in un’ipotetica storia delle relazioni geo-glamour tra potere dinastico (il loro) e potere governativo, quelle delle cinque sorelle hanno vinto a mani basse. Non c’è mai stato nessuna casa di moda che abbia avuto con il territorio un’ininterrotta storia d’amore con relative crisi sentimentali come loro. Sia Alda, sia Carla (che si è sempre occupata degli eventi culturali di Fendi), hanno creato due Fondazioni culturali. La Fondazione Carla Fendi, la cui presidente è oggi Maria Teresa Venturini Fendi, figlia di Anna, è grande sostenitrice del Festival di Spoleto, e ultimamente ha interamente finanziato un padiglione del museo del CERN (Centro Europeo Ricerca Nazionale), disegnato da Renzo Piano e inaugurato alla presenza di Fabiola Gianotti. Alda Fendi, insignita della Legion d’Honneur, dentro ai Fori ha fatto costruire la Fondazione Alda Fendi Esperimenti a Jean Nouvel. “Mai nessuna istituzione, nell’arco di un secolo che compiremo tra un anno, ha mai dato una mano ai marchi del lusso”.
La vendetta, per così dire, è che nella capitale, a quella reale si è sovrapposta una fantasmagorica Fendonomastica: luoghi che il brand ha scoperto e risanato – come i restauri delle più famose fontane con l’iniziativa Fendi for Fountains – si alternano a epicentri che hanno causato discussioni vivaci, vedi la polemica sul trasloco della ditta nel Palazzo della Civiltà (per i romani, il Colosseo Quadrato), dove l’accusa fu quella voler realizzare una sopraelevazione che poi si rivelò temporanea. E poi, location di sfilate misteriosamente negate agli altri, ma a loro no: il Colosseo, il Palazzetto dello Sport, la Fontana di Trevi, suscitando parecchie polemiche.
Anna ricorda anche il clamore mediatico (noi c’eravamo) quando nel 1985 Fendi, nella persona di Carla, chiese e ottenne – per la prima volta nella storia italiana – un museo, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, per la mostra destinata a celebrare i vent’anni collaborazione con Lagerfeld. Quel che oggi è ben oltre la normalità, all’epoca venne considerata l’appropriazione indebita da parte di un privato di uno spazio pubblico a scopo promozionale. All’epoca Ida Panicelli, responsabile della GNAM, chiuse la propria presentazione con queste parole: “Non resta che osservare il felice dilagare dei sistemi uno nell'altro”. Arrivò addirittura un’interpellanza parlamentare. “Dall’arte povera all’arte ricca”, titolava “Rinascita” con un articolo dove si fustigava “l’inevitabile celebrazione di un marchio a creare imbarazzo, con la sua implicita possibilità di moltiplicare la schiera degli aspiranti ad avere la Galleria come simbolo di distinzione”. Sono passati quasi quarant’anni per dimostrare che anche in questo le Fendi sono state pioniere: avercene, oggi, di esibizioni autofinanziate che possano rimpinguare le esangui casse delle istituzioni museali nostrane.
Ad Anna, che di tutte era la più mondana, l’interfaccia diplomatica dell’azienda, un politico però è rimasto nel cuore: Giulio Andreotti, who else? «Aveva l’ufficio in piazza San Lorenzo in Lucina, a pochi passi da noi. E siccome a me piace che vengano fatte le cose come desidero, mi ero messa in testa di volerlo come testimone per il défilé collettivo in diretta tv, quello di “Donna sotto le stelle” con le modelle che scendevano dalla scalinata di Piazza di Spagna. Mica volevo che si facesse i gradini col rischio di cadere, sia chiaro: l’avrei messo in prima fila e, subito dopo la nostra sfilata, si sarebbe dovuto alzare e fare un breve discorso sull’orgoglio del made in Italy, sull’importanza economica dell’industria della moda, sul valore del nostro artigianato. Aveva accettato, pensi. E pure con molto entusiasmo». E cos’è successo? «A poche ore dall’evento, con me già addobbata per la soirée, mi telefona dicendo che un suo consigliere, il cui nome non dirò neanche sotto tortura, gli aveva suggerito che fosse meglio non presenziare. Sono andata a Palazzo Chigi, mi veniva da piangere, ho cercato di parlarci. Invece ho incontrato il consigliere innominabile che mi ha detto: “Non viene, non viene, torni pure a casa tranquilla, signò”. E allora, indovini cosa ho fatto?”. Cosa ha fatto? “Ho radunato le mie figlie e una mia nipote, e a una ho detto mettiti gli shorts, a un’altra le scarpe da ginnastica, a un’altra ancora una t-shirt, tutte au naturel…. Sa, quando si è giovani si è sempre carini e la gente è più benevola. Non avendo anticipato niente a nessuno, ma dicendo ai giornalisti che ci sarebbe stata una grande sorpresa, vedere il futuro di Fendi incarnato dalle ragazze di famiglia commosse tutti”.
Scusi, Anna: ma quello del divo Giulio non è stato un comportamento proprio da democristiani, una roba da legarsela al dito? “Ma no, mi creda: era sinceramente dispiaciuto. Ci siamo rivisti altre volte: una sera, a pranzo all’ambasciata israeliana, gli ho domandato quale fosse il suo capo di stato preferito e lui mi ha risposto, dopo averci pensato: Re Hussein di Giordania. Da allora è stato un po’ anche il mio. L’anno scorso, infatti, sono andata al matrimonio della nipote, la figlia del re Abd Allah e della regina Rania”.
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