Il Foglio della Moda
Gli attacchi houthi nel Mar Rosso colpiscono il fast fashion. Il lusso è salvo (per ora)
Gli assalti yemeniti alle navi occidentali le catene di approvvigionamento della filiera della moda, più esposta di altri settori manifatturieri. Ma l'impatto della crisi di Suez non è uguale per tutti. Un'analisi di Oriana Cardani, responsabile del settore moda e lusso di Intesa Sanpaolo
Chissà che cosa direbbe oggi Luigi Negrelli, il progettista del Canale di Suez (anche se, per la sua prematura scomparsa, buona parte del merito andò al francese Ferdinand Lesseps) vedendo le navi mercantili di mezzo mondo riprendere la rotta dei tempi più antichi per raggiungere l’Asia, circumnavigando l’Africa e passando per il Capo di Buona Speranza: tremila miglia nautiche e quindici giorni di navigazione in più. Un salto indietro di oltre centocinquant’anni (il Canale venne inaugurato nel 1867).
Aprendo un varco tra Mar Rosso e Mar Mediterraneo, Negrelli contribuì all’enorme progresso del commercio internazionale, favorendo e velocizzando gli scambi tra il mondo asiatico e quello europeo, insomma un pilastro nel processo di globalizzazione. Ma le tensioni geopolitiche delle ultime settimane, che vedono l’Italia pronta a partecipare a una missione militare in risposta agli attacchi degli Houthi alle navi occidentali, rappresentano un nuovo choc per le catene di approvvigionamento delle imprese dopo la pandemia e la guerra russo-ucraina. “Un terzo delle importazioni italiane nella filiera della moda arriva attraverso il Mar Rosso”, avverte Bankitalia nel suo ultimo bollettino economico, mettendo in evidenza come la filiera sia esposta a quella rotta anche più di altri settori manifatturieri, visto che si rifornisce soprattutto dalla Cina e dagli altri paesi dell’Asia orientale.
Ma quanto esposta? Dati complessivi ancora mancano, ma un primo segnale arriva dal mondo degli investitori finanziari che, in genere, sono i primi a percepire quando il vento soffi nella direzione sbagliata. Dal primo al 24 gennaio di quest’anno, l’indice di Borsa europeo, infatti, ha avvertito il contraccolpo: l’Msci Europe Textile&Luxury ha perso il 5,2 per cento invertendo bruscamente il trend positivo del 2023 (più 8 per cento) salvo poi rianimarsi il 26 gennaio per gli ottimi risultati del gruppo Lvmh nell’anno appena concluso. Nello stesso periodo, a Piazza Affari, il Ftse Italia Brands ha mostrato solo una lieve flessione (meno 0,23 per cento) ma lo scorso anno aveva guadagnato oltre il 7 per cento. L’impatto della crisi Suez, comunque, non è uguale per tutti, come spiega al “Foglio della Moda” Oriana Cardani, analista responsabile del settore moda e lusso di Intesa Sanpaolo. “A risentire maggiormente dei ritardi delle consegne e dell’aumento dei costi dei trasporti marittimi e della logistica è il fast fashion”, dice, “mentre l’alto di gamma riesce ad assorbire meglio l’impatto anche perché la maggior parte della produzione avviene in Europa”.
Certo, dipende dai singoli casi. Paul&Shark, pur producendo abbigliamento sportivo di fascia medio - alta, è stato tra i primi a lanciare l’allarme sui ritardi delle forniture che stanno cominciando a colpire anche il settore calzaturiero. I passaggi produttivi colpiti o interessati dalla nuova situazione sono infatti moltissimi, dal target di consumatori (i super ricchi fanno meno caso agli aumenti di prezzo) all’organizzazione della catena produttiva (se corta oppure lunga, spesso arriva fino a Taiwan o in Cambogia), fino alle scorte. “In effetti, il modello della produzione just in time, che sincronizza i flussi delle forniture con quelli delle vendite, sta mostrando dei limiti di fronte alle interruzioni delle catene globali del valore. In fasi come queste vincono le imprese che sono attrezzate con riserve di scorte sufficienti per far fronte alla domanda”, osserva Cardani. In effetti, da quando le navi sono diventate dei magazzini galleggianti che sostituiscono quelli delle aziende, se si fermano paralizzano l’intero processo produttivo. Si è visto durante il Covid, quando le portacontainer si bloccavano in rada a Shanghai. E questa crisi può diventare qualcosa di molto simile considerando che il traffico commerciale marittimo che attraversa Suez si è già ridotto del 50 per cento, secondo gli ultimi dati forniti dagli spedizionieri.
Tempi di navigazione più lunghi significa costi di nolo più elevati (triplicati a giudicare dalle ultime quotazioni tra Shangai e il nord Europa) che sono destinati in futuro a riflettersi sui prezzi finali dei prodotti. Un corto circuito, che, però, non è l’unico fattore che può pesare sulle prospettive del 2024. Se per il fast fashion l’escalation del mar Rosso è il rischio geopolitico più grande, per il lusso la vera incognita è il rallentamento della crescita economica cinese, ai minimi degli ultimi trent’anni. “I consumatori cinesi – dicono i gestori di Thematics Am, fondo d’investimento specializzato in questo settore che fa capo al colosso Natixis – rappresentano oggi il 30 per cento della domanda mondiale di beni di lusso, e fattori come il rallentamento economico e l’invecchiamento della popolazione stanno già avendo impatti negativi sui produttori del settore. Ma le aziende con una forte qualità e diversificazione geografica e di prodotto, saranno quelle che resisteranno meglio e guadagneranno anche nuove quote di mercato”.
Del resto, la forza del lusso europeo risiede proprio nella crescita del potere d’acquisto da parte della classe media dei paesi emergenti. Se questa rallenta, gli investitori alleggeriscono un po’ le loro posizioni. Per adesso, il settore è in buona salute, ma se una banca d’affari come Bank of America, arriva, in un’analisi di inizio anno, a sollevare dubbi sul 2024, mettendo al centro il ruolo dei consumi cinesi, c’è da riflettere. Per Bank of America, quello attuale “è un bivio caratterizzato da un mix di cautela e opportunità”.
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