La moda è una cosa seria ma può anche diventare gioco, evasione e “momento di sospensione”, dice Giorgio Armani a Parigi  

Il foglio della moda

Gli italiani sono troppo individualisti sul fashion? Non è una colpa

Fabiana Giacomotti

Chiacchierata con Gaetano Micciché, chairman di IMI corporate & Investment banking di Intesa sulle “attitudini” che rendono il settore meno competitivo rispetto alla concorrenza straniera. E gli utili correttivi da apportare (sì, la nuova legge sul "made in" aiuta)

Colpe? Qui non si tratta di colpe. Piuttosto, di “attitudini”. L’attitudine propria agli imprenditori italiani di mantenere il controllo assoluto delle proprie aziende, anche a scapito della loro crescita. Discutere di moda e politica industriale è impossibile senza l’opinione di Gaetano Micciché, Chairman Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo. Da venticinque anni, qualcuno in più, è il banchiere di riferimento di tutte le grandi famiglie imprenditoriali della moda italiane, e per tutte si intendono tutte: “La moda, in particolare dall’inizio dell’attuale secolo, ci ha visto protagonisti nella crescita e nell’affermazione di aziende come Prada, Versace, Ferragamo, Zegna, Moncler, OtB, D&G, Armani, Tod’s, Cucinelli, solo per citarne alcune”. Aver seguito le (non numerosissime ma costanti) valutazioni di Miccichè sull’evoluzione della moda, significa possedere una cronistoria molto precisa delle dinamiche del settore: nel 2005, anni molto ricchi, parlava di “fiducia e coraggio”; nel 2006, citando Proust, consigliava di guardare non tanto verso nuovi territori di sviluppo, quanto di “munirsi di occhi nuovi” per osservare meglio le opportunità offerte dai paesi sui quali già si operava, puntando “su originalità e nuove idee” che è quanto si è dimostrato fondamentale quindici anni dopo, post-pandemia.
 

Nei fatali 2008 e 2009, post-crollo di Lehman Brothers e crisi subprime, Micciché valutò come dirimenti gli investimenti sull'efficienza produttiva, logistica e distribuzione in primis: arrivò l’era dell’omnicanalità, i fatti gli diedero ragione. Nel 2010, quando “crescita” e “dimensione” erano le parole chiave, parlò di sfida dimensionale per la crescita, puntualizzando come lo sviluppo fosse impossibile senza dimensioni minime ottimali. Piccoli, insomma, era bello, tanto seducente, tanto artigianale e tutte quelle cose raffinate che ci diciamo sul made in Italy: ma restando troppo piccoli si correva il rischio di dover cedere le armi, che è quanto è successo anche per i façonnisti nel decennio successivo e fino a oggi. Ora che il divario fra le politiche delle multinazionali del lusso come Lvmh, Richemont e Kering e la media di quelle degli imprenditori italiani, sembrano rispondere in modo diverso all’evoluzione del mercato mondiale, vale la pena di chiedergli – è un po’ una fissa per il “Foglio della Moda” - se la forza delle compagini internazionali sia stata favorita da politiche industriali diverse rispetto a quelle italiane, e da un impegno diretto da parte dei governi e delle banche, o se vi siano altri fattori che stanno rallentando la competitività delle imprese nazionali.
 

Noi osservatori non ci siamo ancora rassegnati all’evidenza che la Francia goda di politiche istituzionali per la valorizzazione della produzione di beni di lusso dai tempi di Luigi XIV e in Italia si ritenga ancora bizzarra la presenta di un ministro o di un sottosegretario a una sfilata (la fiera è concessa, ma non si va oltre). Dunque, oggi che il ministero delle imprese e del Made in Italy sembra intenzionato, salvo risorse, a puntare decisamente sulla valorizzazione dei settori che fanno dell’Italia un brand, moda compresa, pare necessario chiedere anche a Micciché una valutazione sulle ragioni per le quali, per esempio, in Italia non si sia mai saldato il rapporto fra moda, politica e sistema bancario che altrove, vedi appunto in Francia e negli Stati Uniti, ha invece favorito l’ascesa di conglomerati, nel lusso e nel mass market. “Per quanto riguarda Intesa Sanpaolo”, premette, “ritengo che abbia sempre svolto il proprio ruolo con responsabilità e competenza: individuare la correttezza delle scelte presentate dagli imprenditori e supportare le aziende con adeguati strumenti finanziari consentendone, anche talvolta, il ricorso al mercato dei capitali”, aggiungendo come, in questa fase, “ogni parte coinvolta nel processo e nello sviluppo economico del proprio Paese sia chiamata a portare a termine obiettivi e impegni”. Gli imprenditori, “puntando a progetti industriali di crescita, di aggregazione e di espansione delle proprie aziende”, e i governi “favorendo l’operato delle imprese attraverso corrette azioni fiscali e creando i presupposti per le migliori valorizzazioni”. Che, poi, una parte non irrilevante dell’imprenditoria italiana si dimostri restia ad adottare quei comportamenti adeguati a favorire la crescita, abbandonando quell’approccio individualistico e padronale che frena lo sviluppo, a giudizio di Micciché non è, appunto, una “colpa”, quanto un’attitudine nazionale con cui bisogna necessariamente fare i conti, apportandovi eventualmente dei correttivi. “Spesso, gli imprenditori italiani hanno preferito privilegiare la politica del controllo azionario rispetto a quello della crescita.

Investire in marchi, in comunicazione, in distribuzione, in management e, talvolta, attraverso aggregazioni di brand di altre aziende, necessita infatti di rilevanti interventi sul capitale; e ciò comporta la diluizione degli azionisti di riferimento. Questo, a mio avviso, è stato ed è il vero trade-off , (la vera differenza e il vero contrasto) tra chi cresce adeguatamente e chi, invece, punta a mantenere dimensioni sì soddisfacenti, assicurandosi il controllo dell’azienda, ma che non consentono importanti sviluppi”.
 

Come ovvio, per contrastare questo comportamento, singolo e molto singolare da tempi remoti, il governo può fare ben poco: solo rispondere incentivando il settore con politiche adeguate, anche nella tutela dei brand più appetibili. “La legge da poco approvata sul Made in Italy va nella giusta direzione. Mi sembra doverosa l’attenzione ai nostri marchi, al patrimonio storico e culturale, alla nostra tradizione e al nostro inconfondibile saper fare. Trovo per questo molto soddisfacente la volontà del governo di consolidare la proprietà intellettuale, anche attraverso l'istituzione di un contrassegno dedicato, rafforzando l'identità dei prodotti italiani sul mercato internazionale. Il Pil d'altronde cresce se aumenta la nostra capacità anche di andare all’estero. Perché permette di far crescere i margini operativi delle aziende, di aumentare il giro d’affari, portando dunque benessere generale. Scommettendo anche su nuove piattaforme distributive. Per farlo però è necessario che il nostro valore venga riconosciuto. I fenomeni di italian sounding li conosciamo, rappresentano una feroce e sleale concorrenza”.
 

Ora, aggiunge Micciché, le aziende della moda “si trovano di fronte a una sfida cruciale: far sì che il paradigma della sostenibilità entri concretamente nelle organizzazioni aziendali. Ognuna di esse deve agire in maniera lungimirante, contemplando questo tipo di investimenti nelle proprie strategie. A oggi, l’attenzione verso l’impronta ambientale è ai massimi livelli anche per una maggiore consapevolezza nelle scelte di acquisto dei consumatori; in particolare, i millennials e la generazione Z, sono molto più attenti alle ripercussioni delle proprie scelte”. Ma se questo è vero, è anche vero che molto spesso gli analisti, con un doppio registro non scevro da una certa ipocrisia, penalizzano chi, perseguendo le strategie di sostenibilità che essi stessi chiedono, razionalizza la produzione e rivede le proprie politiche di prezzo, finendo per non crescere nell’ordine di quel “double digit”, la “doppia cifra”, che sembra il mantra per i tanti, troppi, che mirano a orientare il mercato standosene dietro uno schermo a bere bevande gassate. “ ovvio che gli investimenti in sostenibilità possano comportare un “rallentamento della corsa” più o meno marcato”, osserva Micciché, “poiché serve un tempo tecnico necessario per adeguare la macchina produttiva e le strategie commerciali, ma è altrettanto chiaro che non si possa tornare indietro. Ne va anche del futuro del pianeta e dei nostri figli. Anche per questo noi, da sempre vicino al Sistema Moda Italia, abbiamo siglato all’inizio del 2022 un accordo per il supporto all’intera filiera colpita dalla pandemia, per affiancare tutti i segmenti della catena del valore con particolare attenzione alle tematiche ESG”. Non c’è comunque da temere una progressiva razionalizzazione del mercato, avverte il banchiere: le aziende italiane hanno mantenuto numerosi fattori distintivi e, al di là delle dimensioni, sono ancora protagoniste nei mercati in cui operano. Personalmente non credo che, nel breve termine, vi siano particolari spazi di razionalizzazione se si intende, con questo, integrazioni tra queste aziende”.

Di più su questi argomenti: