Il foglio della moda
Quella povera noblesse transitoria
La moda ha incrociato spesso la propria strada con quella dell’aristocrazia. Ma aristocrazia non è solo nascita e tradizione, è anche élite e privilegio. Caratteristiche dell'esclusivo circolo dei direttori artistici
La moda ha incrociato spesso la propria strada con quella dell’aristocrazia, sia quando ha sostenuto la nascita di maison il cui nome è scolpito nella storia (Sorelle Fontana, Balenciaga) sia quando ha flirtato, e naturalmente accade tuttora, con modelle di sangue blu, “riot girls” come Stella Tennant e Iris Palmer negli anni Novanta, oppure celebrities come Lady Kitty Spencer e Amelia Windsor. Però, sebbene i loro volti e modi mai sopra le righe abbiano “graced”, reso più gradevoli, le immagini di magazine e passerelle, l’eleganza di un’icona inconsapevole e indipendente come Marina Cicogna ora resta abbastanza fuori portata. Ma aristocrazia non è solo nascita e tradizione, è anche élite e privilegio, status che almeno in teoria dovrebbero appartenere più ai direttori artistici che a qualsiasi cliente di pur importante lignaggio o patrimonio. Élite, perché i creativi in grado di lasciare il segno nella propria epoca sono sempre necessariamente pochissimi (e non a caso Karl Lagerfeld di questa cerchia ristretta è stato il “Kaiser”, l’imperatore assoluto, mentre Giorgio Armani viene tuttora definito “re Giorgio”) e privilegio, perché la creatività è arbitraria e indiscutibile, un verbo elargito per gentile concessione a un pubblico in attesa di ogni nuova collezione, capsule collection, collab, special o limited edition. In teoria.
Questa è soprattutto una rappresentazione sentimentale e rétro (alimentata abbondantemente da cinema e serialità che con la moda a volte si scontrano più che incontrarsi, senza capirne mai né i meccanismi né le correnti emotive che la animano) che restituisce una visione semplicistica di un sistema complesso, retto da rapporti di interdipendenza tra istanze creative e necessità commerciali sempre in espansione, come l’universo. In breve: i direttori artistici decidono ma anche no. Il circolo dei direttori che contano rimane comunque esclusivo, elitario appunto, i nomi significativi alla guida di brand importanti (un luxury brand alle spalle non è sufficiente per la rilevanza) sono pochissimi e potenzialmente transitori, a meno di non essere proprietari del brand dove lavorano: Miuccia Prada, Armani, Alberta Ferretti, JWAnderson ma non su Loewe, e poi chi altri? Essere di passaggio è un invito a mettere alla prova la propria visione, un esercizio ad alto rischio e una sfida che a volte si rivela insidiosa per quanto salutare: si può uscire dal club molto velocemente, anche per disguidi e scivoloni improvvisi, ma non necessariamente per sempre, come dimostra la lezione sul senso del design di moda, tecnica e cultura visiva che è l’ultima sfilata Margiela Artisanal di John Galliano. In altri casi la risalita è difficile: Marc Jacobs con la sua Casa di bambole per una anti Barbie concettuale in apertura della fashion week newyorkese ha fatto gridare al miracolo, benché emanasse un forte retrogusto di rimpianto.
Altra questione è quella del privilegio che determina il potere di dettare legge in termini di immagine. Ai diktat non crede più nessuno, anche le “tendenze” (un tempo salvezza di tante piccole aziende alla base della piramide della moda italiana) non se la passano benissimo e sembrano ridotte alle onnipresenti décolleté piumate di ogni passerella. E in questa iper-frammentazione di proposte, stili, input, citazioni, capi per tutti/e per nessuno la saturazione e la noia sono a un passo dal colpire anche gli addetti ai lavori più tenaci e irriducibili. Quelli che alla moda guardano sempre con la fiducia tenera e un po’ infantile che tradisce la speranza di essere positivamente scioccati. Sarà un caso, ma sempre di più negli articoli che citano creatori del passato e scomparsi (Claude Montana, l’ultimo, geniale, portatore di un’estetica a suo modo radicale e inflessibile fino all’autodistruzione) si fa riferimento a show che hanno provocato lacrime di emozione: si avverte una certa nostalgia per quelle lacrime, a quanto pare.
La moda è moda solo quando si vende, d’accordo, ma se è il marketing a definire i parametri dei perfetti capi vendibili, è molto probabile che questi si assomiglino un po’ troppo, che addirittura assomiglino a quelli che affollano già i nostri armadi. O peggio sembrino le loro copie. Il momento è difficile sotto tanti aspetti e la concretezza, il prodotto, sembrano l’unico rifugio sicuro. L’essere umano è però pazzo e irrazionale, si stanca velocemente della ragionevolezza, anche se ha paura, e per fortuna non smetterà mai di cercare qualcosa di nuovo e di diverso. Per questo la creatività dispensata con più di un tocco di aristocratica sufficienza sarà la benvenuta, e si spera benevolmente accompagnata dagli amministratori delegati e dai consigli di amministrazione. Altrimenti di “aristocratico” resterà solo l’etichetta di una delle infinite varianti dello street style giapponese, quello ispirato all’eleganza dell’upper class del 19esimo secolo.
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