Il foglio della moda
Guardarsi indietro è tempo perso. Parla Carla Sozzani
I genitori che esecravano l’autocommiserazione, le estati in collegio con la sorella Franca, la moda negli anni della contestazione e quella torta fatta arrivare da Parigi dopo la quale cambiò tutto. Era il 1987, e “in Rizzoli non sapevano chi fosse Diana Vreeland”. Poi sono arrivati Romeo Gigli, 10 Corso Como, la Fondazione Alaia e oggi la sua
Nel 1997, quando arrivai in Rizzoli come inviato del Mondo, in quel palazzone di periferia con la doppia scala elocoidale di Piero Portaluppi ora abbattuto girava la leggenda di una certa torta che Carla Sozzani, primo direttore di “Elle” pubblicato in partnership fra l’editore italiano e Hachette, aveva ordinato a Parigi per il numero di lancio, nel giugno del 1987, “facendola spedire per aereo”, come si sussurrava alzando gli occhi al cielo. Dal fattaccio era trascorso appunto un decennio ma certe stravaganze erano così lontane dallo spirito della casa che tutti ancora ne parlavano, arricchendo ogni volta il racconto di qualche particolare tranne di quello più importante, e cioè di quale strepitoso dolce si dovesse trattare perché né Cova né Sant Ambroeus fossero stati in grado di realizzarlo. Invece, si diceva che da quell’exploit fosse nata una surreale quanto ingestibile guerra interna. Tutte le altre direttore del gruppo avevano infatti voluto dimostrare al popolo del casermone di avere lo stesso potere dell’esile e raffinata signora bionda che fino a quel momento aveva diretto le edizioni speciali di “Vogue”, e si erano date chi all’invettiva, chi al contrattacco.
La più tenace nel rispondere torta su torta era stata Mirella Pallotti, alla guida di quello che allora si chiamava “Annabella” e che da molti anni non esiste più, così come, purtroppo, quella donna di pubblico polso e di mille incertezze private, comunque la migliore direttrice che la testata abbia mai avuto. Tre decenni dopo, in una mattina di caffè e acqua naturale al Bamboo Bar dell’Armani hotel per parlare della nuova sede della sua fondazione alla Bicocca, “in un vecchio piastrellificio a dieci minuti a piedi dal Politecnico”, nella stessa area dove lo Studio di Renzo Piano costruirà il più grande campus verde d’Europa e inclusiva di una ricca libreria e di una favolosa collezione di fotografie e di moda per la quale va raccogliendo sostenitori, non riesco a non chiedere subito a Carla Sozzani della torta. Si ravvia i capelli con le mani, un gesto di concentrazione inconsapevole, il primo di molti: “Era sicuramente per uno still life, se no non ce ne sarebbe stato motivo, dovrei riguardare fra le vecchie cose in archivio. Comunque, dopo il terzo numero e mezzo mi licenziarono”. Accadde per la solita ragione per la quale, da un giorno all’altro, nell’Italia dell’editoria di moda ti accompagnano alla porta, e cioè che non usi sufficienti riguardi nei confronti degli “investitori”.
La neo-direttrice di “Elle”, poi, aveva il difetto ancora più evidente di privilegiare gli stilisti stranieri rispetto a quelli italiani, e come ovvio anche le gateau parisien rientrava nei capi d’accusa. Un drappello di scontenti minacciò il taglio della pubblicità e, come da immutabile pochade, i vertici della Rizzoli la convocarono e le chiesero di dimettersi, offrendole un’uscita morbida. Lei, che aveva accettato di dirigere un mensile femminile proprio perché le permetteva di fare “un prodotto completo”, parlando finalmente anche di cinema, di cucina e di bellezza, perfino “di amore”, e non solo di “moda,moda,moda”, ribatté di non pensarci affatto e che per liberarsi di lei avrebbero dovuto licenziarla come a New York avevano fatto vent’anni prima con Diana Vreeland. Il gran capo rizzoliano di allora, ex Fiat, le chiese brusco chi fosse la signora Vreeland, e lei capì che dal tetro palazzone doveva andarsene subito: “La Rizzoli era un posto stranissimo. In Condé Nast, i redattori producevano i servizi dalla a alla zeta, occupandosi di tutto, dal set alle modelle. Invece lì, in quei lunghi corridoi, stazionavano delle persone che non sapevo chi fossero: erano gli agenti dei fotografi, vendevano anche servizi già fatti”. Come fosse possibile che fino a quel momento non ne avesse incrociato uno, attiene a quell’alone di mistero e venerazione che la circonda, così come circondava la sorella, Franca, l’unica direttrice della galassia di “Vogue” che contendesse il primato della notorietà mondiale ad Anna Wintour, e che scomparve nel 2016 per un tumore alla pleura che aveva contrastato fino a quando le era parso evidente che ogni cura sarebbe stata inutile e che non intendeva vivere i suoi ultimi mesi accanendosi su sé stessa. Quando, nel corso della mattinata, Carla Sozzani accenna ai suoi genitori, che ritenevano inaccettabile lo spreco e l’autocommiserazione (“mai dire di non avere tempo, mai dirsi stanchi”), capisco anche il significato di quell’ultima apparizione di Franca Sozzani a una premiazione londinese quindici giorni prima di morire, evanescente in un abito rosa, i lunghi capelli da musa preraffaellita intatti.
“I nostri genitori amavano molto stare insieme, da soli, e dunque noi trascorrevamo non solo l’inverno ma anche buona parte dell’estate in collegio, in Francia, nelle sedi distaccate delle Marcelline”, racconta Carla, bambina taciturna, (“i miei amici mi chiamavano sfinge”) che, appassionata di moda fin da piccola, trasferì la passione alla sorella. Forse c’entravano qualcosa gli anni non troppo beati dei castighi e delle divise, comunque del periodo di apprendistato entrò sicuramente a far parte una certa boutique milanese di via Cino del Duca che vendeva dei Pucci “anche monocromi”, comprati grazie alla paghetta che però non era né settimanale né costante ma “proporzionale ai risultati scolastici. Se i voti erano insufficienti, dovevamo restituirne una percentuale”. Nel 1968, a metà di un corso in lingue e letterature straniere alla Bocconi dove già una volta le avevano ritirato il tesserino perché aveva cercato di accedere alle aule con un tailleur pantalone “a righe” che ancora conserva, la decisione di lavorare nell’editoria: “Mia madre era amica dell’editrice di Chérie Moda, un gruppo di testate specializzate in ogni segmento, dall’abbigliamento dei bambini all’alta moda. Iniziai come correttrice di bozze, poi arrivò il primo servizio di moda infantile. In breve, ero a Firenze in Sala Bianca a seguire le sfilate. Una dopo l’altra, sedici outfit ciascuno. Avevi la tua sedia e la tua posizione che restava la stessa giorno dopo giorno per una settimana. Non era una cosa civile?”, sospira compiaciuta come se in realtà non avesse contrastato la stanzialità per tutta la vita.
Pochi anni dopo, Franca concludeva gli studi in Cattolica con l’indimenticabile prof Giancarlo Bolognesi, filologia germanica, si sposava benissimo, si separava dopo tre mesi e già in attesa di Francesco, il figlio che oggi fa il regista ed è marito della primogenita di Anna Wintour, Katherine Schaffer detta Bee. “Non sposarti mai, è un inferno”. Carla le diede ascolto: solo uomini sposati, disse una volta ridendo a Gianluigi Paracchini del “Corriere della Sera”. La figlia Sara, oggi forse la più dotata talent scout della moda internazionale, è figlia di Donato Maino, manager e imprenditore, scomparso un paio di anni fa accompagnato da un necrologio che era un esempio di elegante gestione di un’architettura familiare complessa: Carla Sozzani partecipava al lutto con Chris Ruhs, pittore e scultore americano, che da oltre un trentennio è suo compagno ed è l’autore dell’immagine e della grafica di 10 Corso Como. Maino ne era l’amministratore, con una quota dell’uno per cento contro la quasi totalità delle azioni in capo alla Carla Sozzani Editore, nata per gestire editoria d’arte e galleria (oltre trecento mostre curate da lei con uno spirito avanguardistico che Milano non vedeva dai Sessanta, un record) e poi diventata “un giornale vivente quando ancora non c’erano i social”. In precedenza, Maino era stato anche l’amministratore delle attività di Romeo Gigli, lanciato alla metà degli Anni Ottanta, con Carla al fianco come direttrice della comunicazione e intenzionata a non avere più a che fare con la carta stampata dopo la brutta avventura rizzoliana. La sede dell’impresa si trovava nello stesso palazzo che poi sarebbe diventato il cuore del concept store più famoso e replicato del mondo per oltre vent’anni. Se si considera come siano andate a finire entrambe le vicende, e cioè a carte bollate con Gigli e nel caso di 10 Corso Como con un accordo con Equitalia per una maxi evasione fiscale raggiunto dopo anni di trattative e con strascichi giudiziari (“è andato tutto a posto, io non ne ero l’amministratrice, comunque”), forse verrebbe da dire che il genius loci non fosse favorevolissimo a dispetto del carrozziere nel cortile, del ristorante le Langhe nei pressi dove certi editori ancora alla metà degli Ottanta portavano le amanti considerandolo un indirizzo fuori porta e dell’aria di bohème della zona prima che Carla Sozzani la gentrificasse, facendone un polo d’attrazione turistico ma anche molto milanese e che spero prima o poi le verrà riconosciuto. La Galleria andò ad occupare le sale dove Gigli sfilava, poi arrivarono la boutique concepita come un grande salotto di design, il ristorante, il bar, il micro-albergo 3 rooms. Della prima etichetta di moda di Corso Como, molto stile Margiela di quegli anni, cioè anonima, “No name”, il Los Angeles Times scriveva entusiasta nel lontano 1992. Seguirono molte altre sedi nel mondo. Fino all’arrivo della Guardia di Finanza. Da tre anni, dopo qualche passaggio di proprietà, 10 Corso Como appartiene a Tiziana Fausti, buyer extraordinaire e imprenditrice molto accorta, che vi sta investendo tempo, denaro e va approntando curatele per la galleria rinnovata.
Quando chiedo a Carla Sozzani se intrattenga ancora rapporti con quel suo magazine da vivere, toccare e gustare, dice di no e ritengo opportuno parlare dei programmi della nuova fondazione: i primi saranno un ristorante pop up con il collettivo We Are Ona di Luca Pronzato e una mostra fotografica di Mark Bortwick, firma delle campagne di Margiela per molti anni, in occasione del prossimo Salone del Mobile. L’apertura vera e propria avverrà a settembre: “Mi piacerebbe sostenere la promozione della Bovisa come nuova destinazione culturale”. Nel frattempo, a Parigi Carla Sozzani continua a gestire, con grande sapienza espositiva e documentale, la Fondation Alaia, istituzione pubblica sostenuta dallo stato francese e consacrata a preservare l’opera del couturier di cui Carla fu amica e supporter per tutta la vita, anche in questo caso con qualche screzio e l’apertura di una inchiesta promossa dall’ex compagno del couturier, Christophe von Weyhe, pare per volontà della nipote che ne ha la tutela (“ne hanno scritto i giornali francesi, a me non è arrivata alcuna notifica. Comunque si tratta di un ente”). Si dichiara inconsapevole di appartenere alla fashion royalty mondiale: “La moda non è ancora aperta come dovrebbe essere”, dice, sapendo bene che le sfilate accessibili online non equivalgono a una vera democrazia del settore, semmai hanno reso più desiderabili gli inviti in presenza, ma sa anche che all’arte non si chiede di essere aperta e che nessuno sgomita per la vernice di Frieze. La moda è una festa a cui tutti vogliono prendere parte, l’arte richiede un minimo di impegno: lei ne sa qualcosa da quando, ogni domenica, il padre portava lei e Franca a visitare una nuova chiesa oppure, era ingegnere e possedevano casa a Sanremo, ad ammirare il viadotto sul Polcevera, il Ponte Morandi che, a dispetto del disastro, si trova ancora citato sui libri come esempio di maestria progettuale.
Una certa vulgata giornalistica ritiene che le sorelle Sozzani, tre anni a dividerle e un brutto incidente sulla strada di ritorno dalla Liguria e rendere il volto di Carla incredibilmente simile a quello etereo e distaccato della principessa del Pisanello affrescata a Verona (“sette operazioni, vedi, ho ancora una cicatrice qui” dice indicando la tempia, ma non si vede proprio nulla) fossero in feroce competizione. Ci furono periodi “di freddezza perché qualcuno cercò di dividerci”. Ma le foto che le ritraggono insieme con quell’aria complice sono troppo numerose per pensare a qualcosa di diverso da un patto di ferro, a prescindere dalle carriere parallele, dalle case vicine ma non vicinissime nemmeno a Portofino, dove Franca possedeva una casa sul Monte, che oggi pare si possa affittare anche per brevi periodi e della quale i locali raccontano scuotendo la testa che la collezione di fotografie vada deteriorandosi per l’umidità persistente e incancellabile, mentre Carla occupava uno degli appartamenti di villa san Giorgio, detta “il castello”, affaccio a strapiombo sul mare, spiaggetta magari un po’ erosa dal tempo e dalle mareggiate ma impagabile, di proprietà dell’imprenditore della cantieristica genovese Ferdinando Garrè, dalla quale è stata sfrattata pochi mesi fa con gli altri inquilini, fra i quali una furibonda Rosanna Armani. Smentita la vendita a Bill Gates, ancora adesso non è chiaro se diventerà un albergo – le dimensioni rendono pressoché impossibile che produca utili, arrivarci non è cosa per americani pigri – Carla Sozzani fa spallucce quando le chiedo se stia cercando un’altra sistemazione: “Un posto bello così è impossibile; era il più piccolo del castello, ma a strapiombo sull’acqua. Non lo cerco nemmeno, e poi adesso sono felice con la mia fondazione: Sara va spessissimo nella casa di Venezia, io seguo i lavori di ristrutturazione, sto benissimo alla Bovisa anche nel week end”. Le cose passano, la volontà no. E sorride.
P.S. Sul mercato antiquariale, i tre numeri di “Elle” firmati da Carla Sozzani, ottobre-dicembre 1987, con art direction di Robin Derrick e fotografie di Peter Lindbergh, Steven Meisel, Sarah Moon, Nick Night, Paolo Roversi, Juergen Teller e Bruce Weber, sono quotati attualmente a novecento euro. Quello che è seguito, non ha alcun mercato. Cercando bene, ha trovato la Polaroid della torta. Grazie
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