Dopo la notte degli oscar
Viva lo smoking creativo degli attori sul red carpet
Oscar ai look dei signori nominati e dei vincitori, che battono tutte le signore (con due eccezioni). È finita con le pantofoline di velluto e l’eleganza classica, viva i vaqueros e i pantaloni a zampa di elefante sotto il cravattino (o anche senza). Che poi, dopotutto, il "tuxedo" è roba americana
Per fortuna, oltre all'incidente del vestito rotto di Emma Stone, raccontato con lo spirito che le è proprio direttamente dal palco, c’erano i tagli sartoriali creativi degli smoking e dei completi da sera degli attori a offrire un po’ di interesse, altrimenti ci saremmo addormentati ancora prima di quanto sia accaduto: una volta verificato che “Io capitano” aveva perso, e dopo le parole di Matteo Ceccherini contro la lobby ebraica che vincerebbe sempre con una certa soddisfazione che il povero Matteo Garrone non meritava davvero (la prossima volta, magari, sceglierà un co-sceneggiatore meno becero e irrisolto), abbiamo chiuso l’ipad e spento la luce. In estrema sintesi: conclusa la serata degli Oscar 2024, possiamo dichiarare senza tema di smentita che eccessi vestimentari e gusto del grottesco siano ormai riservati al Met Gala del primo lunedì di maggio, che anche agli occhi del mondo et du peuple entier rappresenta la serata “della moda” e dove dunque i toni alti e le stramberie sono non solo tollerate ma attese con molta partecipazione, mentre gli Academy Awards, che per la maggioranza dei presenti sono invece “lavoro”, cioè contratti e prebende, richiedano giusto un tocco di stravaganza, ma in ogni caso forme e tagli classici, uso di bianco e di nero, (quest’anno inevitabilmente illuminato dal rosa-Barbie), ma insomma nulla di eccessivo.
La scorsa notte abbiamo assistito a un red carpet di una noia infinita, con poche, notevoli eccezioni che elenchiamo subito partendo dalla prima, Sandra Huller. Nominata come miglior attrice per “Anatomia di una caduta”, ha indossato una strepitosa rilettura del classico abito “en grand décolletage” a cura di Daniel Roseberry per Schiaparelli: due grandi ali spiegate trattenute al centro dal decoro a forma di serratura che è ormai diventato il simbolo della maison. Quindi, perfetta, Carey Mulligan con un Balenciaga a clessidra nero digradante sul bianco della svasatura: un classico modello Anni Cinquanta, presente anche negli archivi di Balmain e Rochas, tuttora amatissimo negli Stati Uniti e del quale, non a caso, all’epoca erano state create copie per la bambola Barbie. Splendida, ancorché vestita con lo stesso taglio di abito scelto, in rosso, da Anne Hathaway poche settimane fa a Milano, la delusissima Barbie dei giorni nostri, Margot Robbie, da cui urge riflessione sul valore che le attrici ancora assegnano alla riconoscibilità del brand che indossano e non alla propria, e impagabile la novantaduenne Rita Moreno in un wrap dress, l’abito a portafoglio, con cascata di ruches, di Badgley Mishka.
Molti sentimenti contrastanti anche sui social, invece, per Loewe, il marchio di Lvmh disegnato da JWAnderson, in grande ascesa sui tappeti rossi ma, con l’eccezione di Jodie Foster che ha sempre saputo chi e come vestire e dunque l’ha selezionato sapendo di poterlo fare proprio, decisamente inadatto alla passerella: l’abito stile tartan di Andrea Riseborough entrerà nella classifica dei più sconclusionati insieme, ahinoi qui duole molto dirlo, con quello di Emily Blunt, sempre firmato Schiaparelli: l’effetto trompe l’oeil sulla spallina rialzata e la mutanda in rilievo che forse si ispirava alla lezione dei fratelli Michaelles del futurismo e della “tutta”, antesignana dell’attuale tuta, a noi italiani ricorda inevitabilmente il ragionier Fantozzi. Pessimo, non in sé ma sulla sua figura, decisamente poco slanciata, il Del Core di Florence Pugh, che immaginiamo avrà avuto accanto a sé l’arrembantissimo padre che la segue in ogni dove: la ragazza non ha gli “attacchi” eleganti, come si diceva negli anni pure orribili in cui si paragonavano le ragazze ai cavalli osservandone l’altezza al garrese e il collo, e insomma c’è poco da fare. Non ci ha entusiasmato per una volta Giorgio Armani, che pure ha fatto come sempre l’en plein di star: l’abito grigio e rosa antico in raso duchesse ricamato di Zendaya, pur splendido, non era adatto alla sua età, insomma la invecchiava, mentre quello di Lupita Nyong’O forse non osava abbastanza per un’occasione così speciale e una personalità come la sua.
La profusione di Dior Couture, compreso il modello a pois appena sceso dalla passerella di gennaio, ispirato al modello “La cigale” del 1952 e indossato da Jennifer Lawrence, era interessante per capire il peso acquisito dalla maison fra le stylist delle attrici, soprattutto però nel caso di Anya Taylor-Joy e del suo abito che a sua volta, reinterpretava in chiave contemporanea, ma non troppo, lo storico modello “Junon” della collezione inverno 1949 in seta gros de Tour e tulle di seta ricamato (una volta dovremo interrogarci anche su queste reinterpretazioni continue, da parte di tutti, di modelli pluridecennali o addirittura centenari: davvero non si può più rischiare il nuovo?). Erano certamente eleganti ma, ancora una volta, non abbastanza distintivi per la serata più importante dell’anno, i due Gucci scelti rispettivamente da Greta Gerwig e Kirsten Dunst; decisamente regale, invece, quello di Lily Gladstone in velluto blu con strascico ricadente dalla scollatura come nello stile Impero.
In generale, però e a questo punto, meglio di tante altre Ariana Grande con uno di quei Giambattista Valli rosa confetto tutti volute e arricciamenti che almeno fanno un po’ di allegria e si riconoscono comunque da lontano (le ragazzine li adorano: ormai è rimasto solo lui a esaudire con gusto i sogni di chi vuole lo stile principessa-delle-favole-illustrate). E ora, i trionfatori della serata, e cioè gli uomini. Come si sa, o forse si dovrebbe sapere, l’istituzione dello smoking è oggetto di una diatriba centenaria fra gli Stati Uniti e l’Inghilterra: in Europa, dove gli troviamo anche giustamente ascendenze secentesche, lo chiamiamo appunto smoking, cioè giacca da fumo; è nato come veste da camera da indossare nelle stanze “per fumatori” dove gli uomini si riunivano per discutere e appunto per fumare, lontano dalle signore, e serviva principalmente per salvaguardare la veste sottostante. Fino al 1880, l’unico abito da sera maschile accettato era il frac, di cui adesso Dolce&Gabbana stanno riproponendo l’uso a una massa di bru bru mondiali, incapaci di capire se e dove e come vada indossato, in genere tutti nel modello gattopardesco di Calogero Sedara, cioè con le scarpe sbagliate, le code un po’ così e la cravatta sbilenca.
Per tornare al nostro smoking, pare che la diffusione europea della comoda giacca corta da mezza sera, per i ricevimenti di campagna a Sandrigham, venne introdotta attorno al 1870 dal principe di Galles, futuro Edoardo VII, che la ribattezzò “dinner jacket”, denominazione ancora in uso Oltremanica. Il “tuxedo” americano prende invece nome dal luogo della sua prima apparizione, nell’omonimo club del New Jersey, e tendenzialmente gli inglesi lo riterrebbero comunque una loro invenzione, in quanto indossato da soci come William Waldorf Astor o Odgen Mills che lo avevano importato non solo da Londra, ma dallo stesso sarto Henry Poole a cui lo aveva ordinato il principe ereditario. Come sia come non sia, poche ore fa, a Los Angeles, se n’è vista la declinazione più incredibile e numerosa, a dispetto dell’idea che agli uomini siano concesse poche varianti fra modelli sostanzialmente identici. A nostro giudizio, la palma va alla rilettura molto sexy e con cordino-gioiello attorno al collo di Saint Laurent indossata dal trionfatore della categoria miglior attore non protagonista, Robert Downey Junior, straordinario Lewis Strauss di “Oppenheimer”, ma non ci sono dubbi che quel taglio seventies del completo indossato da Bradley Cooper, con il pantalone leggermente svasato, un modello di Vuitton indossabile anche per una riunione di affari, fosse molto donante.
Non ci ha convinti l’abbinamento giacca-palandrana/djellaba-scarpottone montanare allacciate da Ramy Youssef, modello Zegna, ma soprattutto per le scarpe. Incredibilmente riuscito, invece, per noi cresciute con l’idea che lo smoking vada accompagnato solo alle pantofoline di velluto (“è un abito da ricevimento in casa”, sentenziava papà), il tuxedo con doppia fila di bottoni-gioiello, taglio a casacca, e i vaqueros con punta all’insù, di Colman Domingo in Louis Vuitton. Classicamente elegante Matt Bomer in Cucinelli e Dominic Sessa in Tom Ford, uno che gli uomini ha sempre saputo vestirli anche adesso che il suo successore Peter Hawkings ne ricalca le orme senza inventare niente; tutti belli e tagliati bene, cioè non con l’orlo corto che piace tanto Oltreoceano, gli smoking di Armani, vedi Brendan Fraser, al contrario dell’effetto zompafosso, in abbinamento agli stivaletti di vernice, di Cillian Murphy in Atelier Versace. Anche per gli attori e nonostante l’apparente facilità dell’abito maschile, il disastro è comunque in agguato, e nessuno l’ha incontrato con maggiore efficacia di Dwayne Johnson in raso perla di Dolce&Gabbana: quando si possiedono forme così importanti e muscoli tanto sapientemente allenati è meglio andar piano con i tessuti lucidi, per l’effetto complessivo di insaccamento che infatti, sul palco, si è dispiegato con effetto cinemascope. Ma l’Oscar per il peggiore outfit maschile spetta allo smoking marrone-nero, con scarpa marrone (doppio ugh) di Matthew McConaughey in Atelier Versace. Come dicono a Napoli, solo ‘o cafone vest’e marrone, e non si scappa. Figurarsi agli Oscar
manifattura