Tra moda e affari
Dietro il crollo di Kering c'è un allarme che riguarda un trend in declino nella moda
Il gruppo internazionale del lusso ha detto di aspettarsi un calo di vendite del dieci per cento nel primo trimestre dell'anno. L'annuncio merita una sola risposta: il supporto incondizionato al direttore creativo. Salvate il soldato Sabato De Sarno
La scelta di Kering di comunicare, con un sales warning davvero inatteso e inusuale, di aspettarsi vendite in calo del 10 per cento nel primo trimestre dell’anno a causa del rallentamento dell’area dell’Asia-Pacifico, previsioni negative che addirittura raddoppierebbero nel caso di Gucci, il marchio che da solo genera la metà dei ricavi del gruppo, merita una sola risposta: il supporto incondizionato al direttore creativo. Salvate il soldato Sabato De Sarno da una pressione sulla necessità di “rimettere in carreggiata” il marchio che il comunicato, forse inconsapevolmente ma è più probabile di no, rende intuibile fra le righe, insieme con l’arrivo “selezionato” della sua prima collezione nelle boutique, che è come dire in attesa, vediamo come va. Salvate lui ma anche Dries Van Noten, ultimo esponente della favolosa vague che, con Martin Margiela, ha vestito i colti e i sofisticati per trent’anni e la cui decisione di lasciare del tutto la gestione al colosso della profumeria Puig, comunicata poche ore prima che la nota di Kering raggiungesse i pc di mezzo mondo, è l’ennesimo segnale dell’insofferenza che regna in un settore nato per produrre meraviglie per pochi e che in tre decenni la finanza ha trasformato in un sistema costruito secondo le logiche del mass market, ma che con il mass market non condivide quasi nulla, a partire dal modello della riproducibilità infinita.
Un esempio spiccio: una volta azzeccata, una linea di yoghurt può mantenersi inalterata per decenni e anche legittimamente ambire a un posizionamento di lusso, vedi Muller. Una sedia di design di successo costa una follia in prototipo, ma rimane tale per un secolo e anche oltre. La moda deve invece rinnovarsi di continuo, e oggi anche generare e moltiplicare fenomeni di identificazione sociale e culturale. Per fare questo chi la crea, o chi dirige gli infiniti lavoranti della matita e dell’ago che rispondono ai suoi desiderata, deve avere il tempo per alimentare questa visione. Deve potersi guardare attorno, deve poter viaggiare, vedere, studiare e conoscere, e con sei collezioni all’anno, otto nel caso che segua anche la couture, alla quale aggiungere gli ordini speciali per gli Oscar, per gli Emmy, per il Met Gala, per la Mostra del Cinema di Venezia, alimentare la creatività non è possibile. “Voglio avere il tempo per fare quello che non ho tempo di fare” ha detto Van Noten. “Voglio dedicarmi a progetti umanitari”, ha spiegato Walter Chiapponi dopo aver lasciato, nell’ordine, Tod’s e Blumarine nell’arco di sei mesi.
Quasi quindici anni fa, dopo il suicidio di Lee McQueen e dopo il burn out di John Galliano che lo portò, ubriaco e strafatto, a proferire frasi antisemite in un bar di Parigi, da cui clamoroso licenziamento in tronco dal gruppo Lvmh, scrivemmo che la moda chiedeva troppi sacrifici ai suoi eroi e che forse fosse arrivato il momento di rivederne le logiche, insieme con le aspettative del mercato e degli analisti. In tredici anni, la pressione si è invece esacerbata, e dopo il Covid è diventata ingestibile. La moda deve produrre e vendere di più per soddisfare il mercato azionario, ma deve anche sostenibile per rasserenare analisti e consumatori. Deve essere nuova e desiderabile, ma neanche troppo perché è fondamentale che sia durevole per giustificare il proprio prezzo. Deve essere lussuosa ma anche accessibile, comunque non escludente. Come direbbe America Ferrera nella famosa tirata di “Barbie” che l’ha portata agli Oscar , “it’s too hard, it’s too contradictory”. Il mercato sta rallentando per tutti. Questa situazione, stavolta, non reggerà.
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