La collezione autunno/inverno 2023-24 di Yohji Yamamoto (foto LaPresse) 

Collezioni di inni e odi

L'alta moda di filosofeggiare davanti alla banalità di una gonna

Fabiana Giacomotti

Arriva il ridimensionamento globale del mercato del lusso. Non lo hanno salvato le auliche cartelle stampa di questi anni e il “marketing narrativo”. Sempre spolverato di politicamente corretto, ovvio

Tempi difficili per gli “inni all’amore” e “i gridi di dolore contro la guerra” a mille euro al paio (di scarpe), per le “odi alla femminilità” vestite di collant color carne (solo quelli, tagliati come fourreau e arricciati in vita) e in generale per i lauri sventolati a bordo passerella da cronisti volonterosi come le fanciulle egizie delle mistiche carole. Con il rallentamento sempre più evidente delle vendite di moda e il disorientamento conseguente delle holding che ne controllano la produzione e che ha innescato un giro vorticoso fra direttori creativi dei brand più in vista, tocca di nuovo cambiare registro sintattico, trovare un linguaggio più adatto ai tempi attuali, che poco giustificano i lirismi profusi sulla stampa negli ultimi anni. Questo tocca: dimenticare le “splendide cornici” e le “magiche atmosfere” e ricondurre per esempio le espressioni creative di Demna Gvasalia, come gli asciugamani di spugna trasformati in gonne a portafoglio e i rotoli di scotch calati nella resina per farne braccialetti, a quelli che sono: non “ardite provocazioni”, ma sfacciate prese per i fondelli dei ricchi&cretini da parte di un giovane signore che sarà pure scappato dalla guerra in Georgia nella sua infanzia ormai lontana, come si scrive ogni volta dolenti e partecipi, ma che da decenni vive e gestisce le proprie considerevoli sostanze da Zurigo come un qualunque gnomo della finanza suisse. 

Abbiamo avuto giusto un ritorno della semantica “inni, odi et amo” l’altro giorno, un #backlash con l’hashtag come scrivono i modaioli sui propri account Instagram, al momento della nomina di Alessandro Michele alla direzione creativa di Valentino; la sua fantasiosa tirata sul concetto di gioia, espressa urbi et orbi a mezzo stampa (“oggi cerco le parole più adatte per dire la gioia, per renderle omaggio: i sorrisi che scalciano in petto, il senso di profonda gratitudine che accende gli occhi, quel momento prezioso in cui necessità e bellezza si tendono la mano. La gioia è però cosa talmente viva che temo di ferirla, dicendola. Che basti quindi il mio inchino a braccia spalancate per celebrare, in questo inizio di primavera, la vita che si rigenera e la promessa di nuove fioriture.”), lascia infatti intendere che il sostantivo assumerà presto nuovi significati, oltre a quelli che ci ha insegnato a declinare la mamma sui bigliettini di ringraziamento per gli inviti a pranzi e feste ai quali intendiamo partecipare. Per esempio: grazie per l’invito che accetto con gioia, un gioioso grazie per la direzione creativa della maison più classica ed elegante e forse amata dell’universo insieme con Giorgio Armani, a cui sono stato chiamato dai qatarini di Mayhoola a dare un twist (il twist, sostantivo amatissimo dell’ambiente – ufficialmente, torsione – viene usato in questi anni di riproducibilità e piattume creativo per giustificare l’aggiunta di un colletto ricamato su una camicia bianca o di un plissé parziale su una gonna a matita; la locuzione più praticata dai comunicati stampa di gente che vende noiosi golfini di cachemire e borse senza un perché è infatti “classico con un twist”). 

Questo tocca: dimenticare le “splendide cornici “ e ricondurre le “ardite provocazioni” a sfacciate prese per i fondelli dei ricchi&cretini

Nonostante la galvanizzazione che la nomina di Alessandro ai vertici della maison di piazza Mignanelli ha impresso al mercato, anche borsistico, la moda sta infatti entrando in una fase di ridimensionamento complessivo, collettivo e globale che la maggioranza dei fenomeni delle Borse mondiali, gente scollegata dal mondo che osserva grafici di quotazioni giorno e notte mangiando junk food nella speranza di potersi permettere il suv nuovo entro sei mesi e magari anche una rinfrescata alla piscina, sembrava non aver visto arrivare, tipo Elly Schlein prima del passaggio armocromista. E’ però anche possibile che l’onda grigia del riflusso l’avesse vista arrivare benissimo, ma che sperasse di esorcizzarla surfandola e continuando nel frattempo a tenere gli occhi fissi sul suv, fregandosene cioè della realtà e visualizzando invece l’obiettivo come consigliano di fare i coach del rugby e come fanno anche quei colleghi di ultima generazione che, avendo mancato l’epoca dei viaggi stampa di una settimana a Bangkok e dei festoni a Auckland per la Vuitton Cup, scrivono meraviglie di tutti, molti inni alla gioia, nella speranza che la gente si rimetta a comprare borsette e scarpe e che quei magici tempi ritornino privilegiando finalmente loro, freschi di anagrafica e ricchi di idee, invece di noi vecchie babe che siamo su piazza da decenni e ci siamo spartite le occasioni professionali migliori e che dunque, avendo avuto abbondantemente il nostro, potremmo levarci finalmente di mezzo. 

Attorno alle odi alla bellezza muliebre ma anche alla “eccitante normalità della vita quotidiana”, Clara Sereni perdonaci tutti soprattutto perché di questa eccitante normalità che suggeriamo ai lettori noi moriremmo dopo una settimana, si tessono infatti trame e si gonfiano fatturati tentando in ogni modo di allontanare l’evidenza di un perimetro che va restringendosi. Due mesi fa, mi era stata depositata sulla scrivania l’analisi di una di queste banche d’affari internazionali che produce report e analisi datata giugno 2023, cioè quando chiunque non fosse un incompetente totale o in totale mala fede già intravvedeva la fase calante e Kering, neo acquirente di Valentino, aveva iniziato a parlare di bond. Il report, magnificato scelleratamente dalla pr come “ancora attuale”, prefigurava per la moda di lusso le consuete sorti magnifiche e progressive, suggellate da quella magica locuzione che forse non troverete nei titoli dei giornali ma che manda immancabilmente in sollucchero i suddetti fenomeni appiccicati al pc: il “double digit”, cioè la crescita a doppia cifra. Tutto questo accadeva per quel classico processo di auto-celebrazione e reciproco conforto fra analisti, banche e clienti gonzi che tecnicamente passa sotto il nome di “bolla speculativa” e che non tiene mai conto della realtà quotidiana delle imprese nello specifico, alle quali nessuno di loro renderebbe visita nemmeno con una pistola puntata, e dell’evoluzione della società in generale, che a dispetto dei periodici tracolli mondiali, i fenomeni credono di poter governare dagli schermi dei loro pc, promettendo quindi valutazioni “double digit” ai loro clienti migliori per acquisirne di nuovi e forse anche di più gonzi. La banca d’affari internazionale aveva insomma tracciato per la moda già traballante a luglio sui mancati acquisti della Cina un futuro luminoso senza prendere in considerazione, forse senza nemmeno sospettare, che le piccole industrie della façon, cioè la rete dei produttori di abbigliamento e accessori a conduzione para famigliare per le multinazionali che costituisce l’ossatura del Made in Italy e la sua famosa e celebrata filiera, già tre mesi dopo la redazione di quel demenziale report avrebbero iniziato a vedersi ridurre gli ordini e che nel giro di un altro trimestre, cioè nelle stesse ore in cui la garrula pr cercava di piazzarmi la sua merce avariata, sarebbero andati a via Veneto dal ministro Adolfo Urso a chiedere sussidi, il tutto mentre Lvmh e la stessa Kering ammettevano di avere invenduti in magazzino per circa 5 miliardi di dollari, pare ormai parzialmente e fantasiosamente smaltiti fra gli outlet degli Stati Uniti e del Canada (ho provato a chiedere conferme su questa informazione di cui i buyer di mezzo mondo parlano con toni giustamente irati, tutti sono stati molto evasivi). 

“La gioia è cosa talmente viva che temo di ferirla, dicendola. Che basti quindi il mio inchino a braccia spalancate”, dice Alessandro Michele

Insomma, per tornare ai nostri inni e al linguaggio aulico che ha accompagnato la ripresa post Covid, tre anni di tripudio ininterrotto di cartelle stampa orchestrate attorno al diktat generale di un marketing “narrativo” che aveva lo scopo di giustificare prezzi in aumento a fronte di una sostanziale uniformità di produzione e di linee, è sempre più ovvio che la messe di testi verbosi e spesso involontariamente grotteschi di cui siamo stati riforniti nell’attuale decade inizi a stonare in un mondo che, a macchie e tergiversando e faisant la sourde oreille, vive una terza guerra mondiale e che dunque nessuno abbia granché voglia di impegnarsi nella parafrasi di periodi quali “la tradizione incontra la sovversione in stile blasé britannico, unendolo alla sua controparte romana” (yes, Fendi, dove c’è mancato poco che arrivasse lo stesso Michele, che però pare si fosse impuntato su argomenti e competenze, principalmente la couture ma anche le borse, sui quali né gli Arnault né Silvia Venturini Fendi avevano intenzione di cedere). A difesa della moda, delle sue smanie di accreditamento culturale e della “borghesia cerebrale di Prada” (il conio è mio, quando l’ho visto spuntare dal web mi sono chiesta chi avesse scritto una simile scemenza, accetterò il lancio di pomodori), va riconosciuto che nessun altro settore è costretto a subire lo stesso conflitto fondativo fra dimensione industriale e ambizioni, o forse doveri, culturali e sociali. E che nessun altro settore, o “industry”, debba replicare questo equilibrismo fino a otto volte all’anno, per informazioni chiedete alla Fondazione Altagamma che è costretta a destreggiarsi fra soci di business solido e in crescita moderata e costante, vedi il design o il vino o i gioielli, e quei pazzi dei vestiti che un anno bruciano record e due anni dopo mirano a lasciare a casa un po’ di gente e dunque sono costretti a ingaggiare ex ministri perché sbrighino per loro un po’ di lobby schioccando sorrisi. 

Nell’universo del mass market al quale questa moda sempre più assomiglia benché faccia di tutto per negarlo, si sa che basta azzeccare il design di una sedia, il gusto di una linea di biscotti, lo stile di un mulino bianco, per “svortare” per due generazioni, come dicono a Roma e forse nessun prodotto più della Cinquecento, la Topolino dei tempi del “caro lei quando c’era lui”, ha cambiato lo stile di vita degli italiani, così come nessun mezzo più della Vespa ne ha accompagnato i sogni di riscatto sociale. Ma alla Vespa è bastato uno slogan, fra l’altro del tutto bislacco (“chi Vespa mangia le mele”), per scavallare non solo la prima ma anche la seconda ondata della contestazione, e pure ammiccando a quello che si sarebbe potuto fare, una volta arrivati sulle montagne verdi con la Vespa. Con gli abiti, le borse e le scarpe, il gioco non può riuscire; bisogna cambiare continuamente, cavalcare “l’hype”, mostrarsi “freschi e contemporanei”, eccezion fatta per quei due, tre casi che rispondono al nome di 2.55 Chanel, ma soprattutto di Kelly e Birkin, benché anche loro vivano ultimamente qualche guaio di ordine legale in California, accusate di essere sottoposte a pratiche di commercializzazione distorsive. La moda infinitamente riproducibile di questi anni, giocata più sull’emozione del momento e il culto della personalità di chi la crea che sulla qualità intrinseca del capo, ha reso i linguaggi inevitabilmente flou e tendenzialmente privi di senso, favorendo dinamiche lessicali ridicole (cinque anni fa fummo investiti da una messe di comunicati stampa su una inesistente “moda brutalista” sulla quale non facemmo osservazioni per non mettere nei guai il ghost writer di tutti quei testi, mediamente bisognoso) e azioni manageriali scarsamente comprensibili dal vasto pubblico. Un anno l’estetica ridondante e maestosa di Alessandro Michele sembra passata di moda ed ecco che viene cacciato da Gucci perché le vendite non sono più “double digit” e i fenomeni dei pc mostrano il pollice verso; l’anno dopo pare che la fase del “lusso silenzioso” abbia stancato anche gli Elkann che lo praticano non solo di persona ma perfino in consocietà con Hermès ed ecco che Michele viene richiamato sostanzialmente dallo stesso gruppo che l’ha licenziato due anni prima perché crei un po’ di aspettativa attorno alla maison Valentino appena acquisita. 

Si tessono infatti trame e si gonfiano fatturati tentando in ogni modo di allontanare l’evidenza di un perimetro che va restringendosi

E’ inutile appellarsi a Roland Barthes e al rigore semantico dei tempi andati, alla sovrapposizione antica fra immagine e testo, pur imperfetta ma pragmatica e tanto utile perché chi leggeva le riviste potesse capire e magari desiderare la moda fotografata con cognizione, consentendosi perfino il lusso di non conoscere per nome, parentele e gusti personali gli stilisti o couturier come si chiamavano all’epoca e che facevano in effetti un mestiere diverso, cioè disegnavano e talvolta tagliavano abiti senza occupare necessariamente le prime pagine dei giornali con le loro dichiarazioni sull’universo mondo. Al limite, come Elsa Schiaparelli, facevano sfilare una collezione pensata per eventuali fughe sotto le bombe, piena di tasche nascoste per evitare il ricorso ad ingombranti borsette, e anche oggi che la si ammira nei musei, mostra la sua totale, muta efficacia. Se andaste a leggere che cosa venne scritto della collezione “cash and carry” all’epoca, e che cosa disse la donna che l’aveva creata, non vi trovereste alcuna assonanza con il tono querulo e dottorale che hanno assunto oggi gli stilisti. Un po’, bisogna riconoscerlo, anche spinti a dare libero corso ai loro pensieri da noi, i signori della stampa, a caccia di battute e osservazioni per rendere appetibili pezzi che altrimenti si assomiglierebbero tutti, perché ormai non scriviamo più un solo articolo riassuntivo per le dieci collezioni importanti della stagione (“it’s a complete New Look”, telefonò Carmel Snow a New York descrivendo la prima collezione di Christian Dior, e tanto bastò per definire un’epoca), ma una decina di articoli a settimana per tutto il periodo delle sfilate, che fra New York, Londra, Milano e Parigi e poi Firenze per l’uomo e poi ancora Parigi per la couture e poi le pre collezioni, le cruise, e il design, occupano circa cinque mesi pieni all’anno. 

Un classico processo di reciproco conforto fra analisti, banche e clienti  che non tiene mai conto della realtà quotidiana delle imprese

Volessimo essere rigorosi come la leggendaria Elsa Robiola di Bellezza che sedeva alla prime sfilate della Sala Bianca, dove peraltro le sfilate erano tutte uguali, meno di venti modelli a testa e avanti il prossimo annunciato con voce stentorea, tutti questi articoli parlerebbero solo di gonne, di pantaloni, di camicie e dei modi in cui una “vera signora” potrebbe indossarli. Una noia infinita. Oggi che già il set e l’allestimento di sfilata sono scelti apposta per essere “instagrammabili”, è comunque impossibile fare moda e scriverne senza limitarsi alla descrizione dettagliata degli abiti come accadeva nel lungo secolo della progressiva affermazione della moda per tutti, cioè dalla metà dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento, quando la couture era destinata a pochi e le descrizioni degli abiti riprodotti sulle riviste, con ampio ritardo concordato per non intralciare le attività dei maestri del taglia e cuci – altro che dirette Instagram dalla prima fila – servivano a una schiera di sartine per copiare il tailleur di stagione e vestirne la signora Cesira al matrimonio della figlia o la Bella di Lodi intenzionata a ben figurare alla colazione della domenica nella tenuta di campagna. “Ritorna Centinaro con il coordinato tre pezzi, gonna, gilet e giacca color panna in grosso tessuto a trama larga. Si porta con la maxi-sciarpa in tessuto scozzese, gli stivali beige e la cloche in feltro. Tessuto Fila, gli stivali sono di Colette”, leggo da un numero di Bazaar Italia del 1980, dunque epoca Giuseppe-Peppone Della Schiava, prestigiatore di bilanci che per un certo numero di anni fu anche presidente della Camera Nazionale della Moda: sono giusto quattro righe, e da quelle quattro righe io traggo informazioni utili e vera conoscenza sui produttori di ogni singolo capo, sui tessuti, i colori usati e sullo styling. Adesso, al di là della singola riga che affianca una foto dalla quale non sempre si scorgono tutti i capi citati, e che però vengono comunque indicati per contentare l’inserzionista, chi scrive la cronaca delle sfilate deve buttarsi forzatamente sugli inni e sulle dissertazioni attorno all’uroboro principio e fine del mondo anche per un altro motivo. 

La correttezza politica, che in un mercato ormai globale è terreno infido e fonte di infiniti guai. Gli argomenti dei quali è ormai illecito scrivere e occuparsi senza che qualcuno si erga offeso contro l’articolista e il suo giornale scatenando una shitstorm o tempesta di merda sui social sono così numerosi che pochi mesi prima dello scoppio della pandemia, cioè nel periodo più caldo della guerra contro l’appropriazione culturale, perfino la borghese cerebrale Miuccia Prada sbottò: “Come facciamo a conoscere tutte le culture? Le proteste cinesi, poi i sikh, poi i messicani, poi gli afroamericani. Ma come si possono conoscere tutti i dettagli di ogni singola cultura quando ce ne sono a centinaia in ogni paese?”. Un mese prima, la sua azienda era stata costretta a ritirare alcune borse, accusate di razzismo a causa del volume delle labbra di alcuni pendaglietti portafortuna. Nel giro di poco, Prada avrebbe sapientemente istituito il Diversity and Inclusion Advisory Board, fra i membri due colossi della cultura afro come Theaster Gates e Ava DuVernay che da allora collaborano attivamente con Prada anche per il loro lavoro, continuando però a rivendicare il diritto di ispirarsi ad altre culture nel suo: “Questa è la base fondante del lavoro, è sempre stata la base fondante di tutto”. 

Adesso che la vague dell’appropriazione culturale sta tramontando perfino negli Stati Uniti che l’hanno lanciata, forse rendendosi conto che rappresenta una contraddizione rispetto alla vague per più importante della “diversity and inclusion” (in sintesi, se rendo una cultura intoccabile e impermeabile alle altre non ne valorizzo affatto i principi, semmai ne segrego i membri), il nuovo tabù, o tàbu come sarebbe corretto scriverlo e pronunciarlo per rispetto della cultura polinesiana dove Thomas Cook ne scoprì il significato attorno al 1780 esportandone poi l’uso in occidente, vedi fin dove si spinge l’appropriazione culturale, è tornato ad essere l’eros, cioè la rappresentazione dei corpi. Ne scriveva perfino una testata business to business come Pambianconews un paio di giorni fa, evidenziando il pericolo mediatico, e dunque e conseguentemente il riverbero commerciale, di un approccio troppo diretto della moda attuale nei riguardi dei corpi e della loro rappresentazione non tanto estetica, quando sociale e culturale. Il corpo, in particolare quello femminile, è sempre stato corpo e fenomeno politico in ogni cultura, da tempi immemorabili. Ma adesso, in un periodo di nuovo oscurantismo occidentale nei riguardi della sessualità femminile e dei suoi diritti riproduttivi, terreno di scontro anche alle presidenziali americane, è quasi scontato che questa moda economicamente più debole, sempre più incerta sul proprio ruolo sociale, sempre più impaurita dalle violenze dei social, per evitare accuse di volgarità o di “cattivo gusto”, qualunque cosa voglia dire perché ogni epoca ha avuto il suo e senza che venga profuso a piene mani, tendenzialmente non progredisce nemmeno l’estetica, giochi per sopravvivere la carta del “quiet luxury”, del lusso silenzioso. I golfini grigi, le giacche beige tagliate tanto bene, i mocassini tornati di moda ma solo del modello college che abbiamo indossato uguali negli anni della nostra adolescenza, cioè quasi mezzo secolo fa, insomma questa moda così poco eccitante, così poco desiderabile, è il frutto di tutte queste paure combinate, e dell’evidenza che dei magici anni Ottanta in cui venne lanciata la locuzione del “must have” perché tutti volevano riempirsi il guardaroba di cose nuove e interessanti che dessero nell’occhio e mettessero allegria, sono rimaste giusto le spalle ampie delle giacche, ma per farsi spazio in questi tempi difficili in cui nessuno “deve” più comprare niente perché anzi vorrebbe rivendere tutto sul mercato del vintage. 

La messe di testi verbosi e spesso involontariamente grotteschi inizia a stonare in un mondo che vive una terza guerra mondiale

 

L’altro giorno ascoltavo Yohji Yamamoto parlare a un incontro sul web del difficile equilibrio fra commercio e ispirazione, fra creatività ed esigenze di vendita. Nel suo inglese elementare e nella dignità dei suoi ottant’anni, il grande innovatore del rapporto fra corpo e vestito ha detto in pratica una sola parola: rischio. Bisogna saper rischiare. Lui, produttore indipendente, può ancora permettersi di farlo, fra mille difficoltà e la quasi certezza che il suo stile, a cui tutti attingono da quarant’anni a piene mani, verrà comunque compreso nella sua essenza da pochi. I grandi gruppi, questo rischio non possono più assumerlo. E allora, ecco spiegate le collezioni uniformi e il nostro ricorso agli inni e alle odi, necessarissimo per infondere un senso di sacralità a un mondo che combatte per la pace perché senza di quella rischia di andare a fondo.

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