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una vita vissuta al massimo

Addio a Roberto Cavalli. Scomparso come il suo mondo

Fabiana Giacomotti

Si era ritirato quasi dieci anni fa, cedendo il 90 per cento delle quote della sua azienda. Il suo mondo pitonato, zebrato, fatto di yacht di colore cangiante e di epiche litigate con Briatore non esiste più, fagocitato dalla finanza

“Qual è il vuoto che lascia la scomparsa di Roberto Cavalli?”, ti chiede la collega televisiva quando, un minuto dopo aver appreso della morte di uno stilista e di un imprenditore al quale per molti anni ti eri sentita vicina, ti trovi catapultata davanti allo schermo per offrire il tuo commento e, dopo che l’idea di dire le solite banalità ti ha sfiorato, pensi come, tutto sommato, la verità sia la strada migliore e anche un omaggio più onesto. E la verità è che Roberto Cavalli, morto da poche ore, a 83 anni, nella sua Firenze dopo una lunga malattia, si era ritirato da questo ambiente da un numero sufficiente di anni da non averlo visto cadere preda della finanza, della morsa del fast fashion, della trasformazione dei direttori creativi in idoli da abbattere alla prima défaillance.

 

Il suo era ancora il mondo libero, un po’ selvaggio, delle sue stampe animalier, dei suoi jeans a pelle, delle modelle iper-sexy, di Marta Marzotto che arrivava alle serate con i suoi caftani sur mesure, dello yacht dai colori cangianti, delle seratone al Cipriani New York dove si fermava a chiacchierare J.Lo e delle epiche litigate con Flavio Briatore sul reciproco gradiente di cafonaggine e uso di botox. Con la battuta tagliente dei toscani e un amore infinito per gli animali, le donne, i bambini, insomma per la vita vissuta al massimo, Cavalli aveva ceduto il 90 per cento delle quote della sua azienda nel 2015, quasi dieci anni fa al fondo Clessidra, che quattro anni dopo, a sua volta, l’aveva ceduto al miliardario di Dubai Hussain Sajwani e alla sua Vision Investments, attività perlopiù immobiliare, da cui erano giunte anche in Italia ricche presentazioni di progetti di hotellerie di cui la moda doveva essere, e in parte è, un corollario.

 

La Cavalli Tower di Dubai, inaugurata pochi anni fa, è la ideale rappresentazione di questo progetto. Cavalli aveva iniziato a cercare partner ancora nel 2007, proprio con i fondatori di Clessidra peraltro, e si era trovato nelle condizioni di cedere sul serio, e non con i multipli immaginati, pochi anni dopo: la crisi del 2008 aveva colpito in modo irreversibile la sua piccola e raffinata filiera, compresa una stamperia di tessuti alle porte di Firenze che era il suo orgoglio. Ne scrissi, chiedendogli un commento, non me lo perdonò mai, nemmeno quando, per i suoi ottant’anni, la seconda moglie Eva chiese a tutti noi che l’avevamo seguito negli anni di inviare un video di auguri. Il mondo di Cavalli era il mondo prima del Covid, del reshoring produttivo, dell’invasione russa dell’Ucraina, prima di tutto quello che ha reso adesso la moda un settore un po’ a rischio quando la sua era una moda forte, intensa, virile. Lo è anche adesso che la disegna Fausto Puglisi, molto bene e con un occhio di riguardo per quel genere di femmine che, anche in questi anni di lusso discreto, amano sentirsi come Eva prima di addentare la mela ma già con la pelle del serpente addosso.

Amatissimo a Hollywood, dove ha vestito e veste anche Madonna e Beyoncé, Puglisi riprende con creatività gli stilemi di Cavalli e dei molti direttori creativi che lo avevano affiancato, alcuni davvero geniali come Victor Bellaish, tornato da molti anni a Tel Aviv, o Peter Dundas, autore delle collezioni più sontuose del marchio, quelle della metà del primo decennio Duemila in cui tutto funzionava: la seconda linea Just Cavalli, il Just Cavalli Café, gli occhiali, i profumi, la vodka, la casa, presentata al Salone del Mobile, tutta una zebra e un pitone.

Ma Roberto Cavalli, con i suoi sei figli avuti da due mogli e una ultima compagna, la giovanissima Sandra Bergman Nilsson, cioè il piccolo Giorgio nato poco più di un anno fa e cresciuto perlopiù in Svezia dove ormai trascorreva molto tempo, con il nonno esponente della corrente dei Macchiaioli, con il padre partigiano ucciso dai nazisti in una rappresaglia quando lui aveva solo tre anni, con gli studi artistici perseguiti con la forza d’animo della povertà, con quella voglia di riuscire che l’aveva portato a vivere due esistenze lavorative di grande successo a trent’anni di distanza, la prima negli anni Settanta, a Parigi, e poi ancora fra la fine dei Novanta alla fine del primo decennio dei Duemila, con la moglie Eva Durringer, ex miss Austria, al fianco, per la Generazione Z era un marchio, non più un volto. Dei suoi sei figli ed eredi, a parte Giorgio, tutti gli altri si sono impegnati in attività parallele, con alterne fortune: i due figli di primo letto nei vini, nelle proprietà nella campagna in Toscana e nelle attività immobiliari, i tre avuti da Eva hanno tentato la strada della moda.

 

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