iL FOGLIO DELLA MODA - constatazioni
Il tailleur è morto, e la colpa è tutta del casual maschile
L’amore per l’abito appropriato è stato brutalizzato a partire dai costumi maschili, i quali del resto governano il mondo e dettano il ritmo. Si è gridato alla rivoluzione per un maschio con la gonna mentre la meglio gioventù è stata abbandonata al peggior disorientamento, alle tute sintetiche e all’incapacità di riconoscere un buon paio di scarpe
Quentin Tarantino gira “Jackie Brown” nel 1997, quando era scontato che un tailleur fosse il power dress per eccellenza e, infatti, la grande Pam Grier, sul punto di far sparire mezzo milione di dollari, si ferma da Billingsley per provarsi un tailleur nero; esce dal camerino e la commessa le dice: “Wow, vada a una riunione con questo e vedrà come la rispetteranno”, e Pam se lo compra in contanti. L’autorità del tailleur è tale che questa perla di saggezza viene lasciata cadere con indifferenza in un film dove Michael Keaton, ovvero l’agente Ray, indossa calzini bianchi con sandali tecnici incresciosi durante una scena decisiva.
Per quanto poche di noi abbiano ancora davvero voglia di metterlo, quasi nessuna ha appeso al chiodo il tailleur, siccome ci sono circostanze in cui risolve parecchio. Sono soprattutto quelle sulle quali ormai regna la confusione, mentre sono esistiti tempi in cui una donna poteva destreggiarsi anche solo avendo interiorizzato abbastanza bene una griglia che incrociava occasioni d‘uso (praticare uno sport, cenare a casa di amici, un colloquio di lavoro) e livelli di formalità. Lo stile personale era un plus che non tutte potevano esprimere ma, quando si era in grado di cogliere i dettagli che rendono un certo abbigliamento adatto a una certa occasione, non si commettevano gravi errori: tuttalpiù si poteva correre il rischio di vestire in modo anonimo.
La distruzione di queste regole è stata celebrata da alcuni come una conquista di libertà, l’infrazione dei codici è stata applaudita come la rottura di un crudele dominio del ruolo sociale sulla personalità individuale. Tutto ciò sarà anche vero, ma tocca anche riconoscere che, in questo bailamme, si è gridato alla rivoluzione per un maschio con la gonna mentre la meglio gioventù è stata abbandonata al peggior disorientamento, alle tute sintetiche e all’incapacità di riconoscere un buon paio di scarpe.
L’amore per l’abito appropriato, secondo me, è stato brutalizzato proprio a partire dai costumi maschili, i quali del resto governano il mondo e dettano il ritmo. In quel momento, più o meno a metà degli anni Novanta, proprio lo stesso in cui Tarantino a Los Angeles metteva in scena quel poliziotto in calzini e sandali, a New York, in Wall Street fu inventato il “friday wear”, cioè la concessione grazie a cui, nell’ultimo giorno della settimana, i “colletti bianchi” lasciavano a casa la cravatta. Da allora l’attacco alla formalità non ci ha dato tregua, si è anzi trasformato e rinnovato. Con l’avvento dei millennials il “Washington Post”, forse il quotidiano più autorevole del mondo, ha finito per titolare “No More Power Suit”, giustiziando il legame fra l’abbinamento di giacca e cravatta con l’eleganza. È stata quella la campanella d’inizio di una ricreazione permanente.
Ora il problema si pone se ricevi un invito con scritto “dress code after five” e non hai la minima idea di che cosa significhi. Solo un ricordo del conformismo, solo un’educazione alle formalità permettono di restare sereni in casi come questi, poiché sono numerose le principali tipologie di dress code tra cui scegliere, (almeno cinque); per tagliar corto, “after five” rappresenta il suggerimento a usare una buona dose di raffinatezza senza eccesso di formalità, quindi abito da cocktail ma non oltre il ginocchio, perché è molto male essere troppo eleganti nel tardo pomeriggio. Anche qui un tailleur può trarre d’impaccio, ma giammai sportivo e, anzi, scelto con spirito ed estrema cura, perché va sempre ricordato che il tailleur (la parola poi vuole dire soltanto “sarto”) è nato come abito da equitazione, dapprima nel secolo XVII in Francia e Germania, quando si diffuse la hongreline, giacca appuntata sul petto e chiusa con una cintura, e poi quando la Principessa del Galles nel 1855 si fece cucire il primo tailleur da John Redfern e lo usò per montare a cavallo. Una vocazione campestre che viene riformata dapprima da Coco Chanel e poi, radicalmente, da Yves Saint Laurent che mette un androgino smoking da signora addosso a Penelope Tree e la fa fotografare da Avedon.
Per tornare però alla tristezza per la perdita della capacità di scegliere un abito comodo e adatto in ogni occasione senza patemi d’animo e con naturalezza, non c’è da stupirsi se si cerca un riparo nell’uniforme. Steve Jobs in lupetto e jeans è diventato l’icona di stile di chi non sa che cosa mettersi. Si è sempre raccontato che Jobs, visitando un’azienda giapponese, fosse stato colpito dal fatto che i dipendenti vestivano tutti allo stesso modo perché, nel dopoguerra, la gente non aveva soldi e molte aziende fornivano un guardaroba ai dipendenti. Era stato scelto un vestiario standard, era nata l’uniforme aziendale. Jobs provò ad introdurre questa stessa filosofia nella Apple, ma nessuno fu d’accordo, quindi la adottò da solo. La sua non era un’idea nuova e neppure democratica: imporre uniformi, spingere le persone a vestire tutte nello stesso modo, è una forma di controllo. Ma se vogliamo vedere la cosa in modo meno sinistro, pensiamo all’economista americana Helen Louise Johnson che nel 1916 lanciò l’idea di un abito standardizzato con colletti e polsini intercambiabili, con l’intento “di fare in modo che gli individui vengano ricordati per le loro facce e le loro idee invece che per i vestiti costosi che indossano” e quello di liberare le donne americane dal “costante e ridicolo, fastidioso e costoso cambiamento della moda”, che lei descriveva come “una schiavitù”. E corre l’obbligo di osservare che, probabilmente, la cara Helen Louise non aveva mai avuto un tailleur appropriato, altrimenti certe leggerezze non le avrebbe mai scritte.
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