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I vanti della moda

Sicuri che le donne siano le designer più efficaci per le altre donne?

Claudia Vanti

Per alcuni amministratori delegati una designer sarebbe più adatta ad assicurare una maggiore connessione con il target di riferimento perché meno incline alla spettacolarizzazione fine a sé stessa delle collezioni. Ma in questi anni il mondo della moda è cambiato

Dallo scorso ottobre, nel flusso delle email degli appassionati di moda, addetti ai lavori e clienti del segmento luxury sono comparsi, a cadenza regolare, gli annunci dei “drop” (in gergo, consegne a intervalli regolari) di vendita della collezione di Phoebe Philo. A fine 2017, la designer aveva lasciato Céline (allora con l’accento, l’attuale direttore creativo Hedi Slimane, peraltro in odore di non rinnovo del contratto, era ancora lontano) rendendo orfani i cultori delle sue linee decise, a volte aspre nella nettezza e nel rigore del taglio, ma sempre dichiaratamente pensate per il corpo femminile, e con un’aderenza alle necessità della vita reale che, nella moda del periodo, non era così scontata.  


Philo, per tutti i “Philophiles” e non solo, era la donna che aveva riportato in alto la cintura dei pantaloni femminili, sollevando il velo di Maya sulla presunta comodità della vita bassa. Grazie a lei, Céline era assurta a una rilevanza stilistica mai sfiorata prima di allora e a buoni risultati di vendita, rendendola dunque la maggiore interprete della “moda pensata dalle donne per le donne”. Questa etichetta, di semplificazione comunicativa, è diventata per un certo periodo un mantra da contrapporre a una moda, evidentemente più scriteriata, pensata astrattamente da creatori impermeabili alle necessità delle clienti.

Nella mente di alcuni amministratori delegati e brand manager, questo mantra si è tradotto in un obiettivo commerciale che avrebbe dovuto garantire vendite sicure: una designer, presumibilmente meno incline alla spettacolarizzazione fine a sé stessa delle collezioni, sarebbe stata utile ad assicurare una maggiore connessione con il target di riferimento.

Questa pur apparente banalizzazione non è del tutto priva di fondamento e di senso, del resto un’antesignana del minimalismo come Jil Sander si era fatta conoscere per le linee pulite (cutting edge, nella sua definizione, cioè un profilo tagliente a ricordarci sfide e difficoltà da affrontare) e colori neutri adatti alla vita quotidiana di molte donne, che in lei, oltre a un modello estetico, trovavano una sintonia nello stile di vita. Jil Sander si definiva debitrice di Coco Chanel, e chi se non lei, in anticipo su tutti, aveva eliminato fronzoli e strutture rigide in nome di una vestibilità che (prima a lei stessa, quindi a tutte le altre) permettesse di viaggiare, andare in barca, passeggiare sulla spiaggia senza impacci, in totale relax? Comfort agognato e raggiunto, certo, ma allora Madeleine Vionnet? Elsa Schiaparelli? La prima non creava forme particolarmente costrittive, però era sicuramente animata da un virtuosismo tutt’altro che ispirato dal senso pratico, come testimonia l’abito ritratto sulla copertina della monografia delle Editions du Régard che, senza l’intervento di Azzedine Alaia a ridare un senso alla sequenza del drappeggio, sarebbe stato solo un lembo di tessuto abbandonato all’oblio. E Schiaparelli poi, tanto affascinata dalle citazioni artistiche da racchiuderle nelle forme nette e strutturate delle sue giacche e negli abiti da sera in duchesse lucida e rigida. Insomma, e per venire al punto: l’idea che le donne designer siano più predisposte a un tipo di design più concreto e razionale rispetto ai colleghi uomini (ai quali evidentemente si è concesso più spesso il lusso della creatività arbitraria e senza vincoli), è limitante, penalizzante per le une e ingeneroso verso i risultati, di importanza sia estetica sia commerciale degli altri.

Questa valutazione non tiene inoltre conto, fra le tante, della visionarietà sperimentale di Rei Kawakubo, dell’approccio storicista filtrato dalle subculture di Vivienne Westwood e della fusione tra moda (mutevole ed eclettica) e concetto di Miuccia Prada, colei che ha ridefinito i parametri del codice borghese spostando per gradi l’asticella del buon gusto verso territori inesplorati e insidiosi quanto il verde acido -“Miuccia sludge”- che nel 1996 l’ha resa un’icona mondiale.

Tornando alla collezione di Philo, e al design “woman oriented”, che nella sua assenza si è canalizzato nel lavoro di molti suoi ex-assistenti (Daniel Lee, Matthieu Blazy, uomini, accidentalmente, a dimostrare che il design oggi non ha più alcuna correlazione con il genere di chi progetta), il filo si è riannodato dove era stato tagliato, i capi non mostrano soluzioni di continuità con le ultime collezioni pensate da Philo per Céline, stesse linee verticali e stessi volumi decisi; stessi tessuti corposi e accessori minimali. Intanto, però, il mondo è cambiato, in generale e nella moda, e ponendosi nella coda del fenomeno “quiet luxury” (già in via di disconoscimento mediatico, che altrimenti con i soli grandi classici i fatturati languono) questi prodotti si confondono con molti altri, come se in questo rientro si fosse un po’ allentato il legame tra l’idea della designer e il suo mercato (Philophiles esclusi, naturalmente): il mercato delle donne, proprio ciò che è stato all’origine della facile generalizzazione, ormai superata, sul design femminile.

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