Gucci torna a Londra dopo sette anni. E sembrano sette secoli

Per capire come sia cambiata la moda nel pre e post Covid basta paragonare la collezione di Michele che sfilò a Westminster e quella che De Sarno ha presentato ieri alla Tate Modern

Fabiana Giacomotti

Gucci Cruise, 2025 nei tank sotterranei del Tate Modern Museum, centrale elettrica di architettura brutalista nobilitata negli ultimi decenni dalla bellezza dell’arte che vi scorre ai piani superiori e per l’occasione da un umido, terroso e selvaggio allestimento verde voluto a testimonianza della doppia anima inglese, culla della rivoluzione industriale, cioè del capitalismo come l’abbiamo sempre conosciuto e di cui stiamo assistendo con molta impreparazione e un dolente sconcerto agli ultimi fuochi, e del grande amore per una natura non “pettinata”, non irreggimentata, che noi italiani troviamo molto affascinante, salvo continuare a preferirle i nostri vialetti di ghiaia e la suddivisione barocca. Seicento ospiti, che diventeranno milleduecento nell’after party: champagne, gin tonic, acqua ghiacciata per i più coraggiosi.

Sfilano molti jeans, bianchi con le frange di canutiglie applicate a mezza coscia che danno al passo un andamento grazioso, oppure in denim délavé con margherite ricamate, baluginano sotto le luci gli abitini a ricamo tridimensionale di cannette e cristalli che, appena meno sontuosi di questi, sono già piaciuti parecchio alle ragazze di mezzi. Molti ricami tridimensionali su organza tagliata a laser ma con assemblaggio manuale, paillettes sagomate a mano che si muovono attorno al corpo. Chiudono la passerella gli abiti Seventies in chiffon plissettato che stanno benissimo anche alle meno sottili. Si moltiplicano le giacche di pelle spessa e dai volumi importanti adottati da quasi tutti i brand nelle ultime stagioni, color camoscio o burro o nel rosso “Ancora” che è già simbolo del nuovo corso. Le ragazze di belle gambe le indossano già da tempo con microshorts, quelle di coscia forte pure, stanno di peste ma naturalmente non si può dire, tantomeno scrivere, perché son tutte belle le ragazze del mondo e tutte slanciate, a prescindere: dopotutto anche Oprah Winfrey si è appena scusata pubblicamente per aver sostenuto che l’obesità è una malattia e che va curata.

Daphne Guinness, riconoscibile da lontano per la magrezza e i capelli bicolori, prende tutti i flash. A meno di un anno dal debutto di Sabato De Sarno alla direzione creativa di Gucci, sono spariti i mocassini con la suola alta dieci centimetri della sua prima collezione, che stroncavano la caviglia imprimendo pure un passo da replicante, a favore di una serie di demi-pointes di raso, ovviamente rasoterra, trattenute da laccetti punk, sempre secondo la tendenza degli ultimi anni. A tracolla, grande, preferibilmente in camoscio, arriva il nuovo modello di borsa “Blondie”, che ha molte ragioni per chiamarsi così e di trovarsi proprio lì, in quel momento, visto che la sua interprete originale, Debbie Harry, è seduta in prima fila con un fitto reticolato di rughe attorno agli occhi a testimonianza del tempo trascorso ma non della voglia di sorridere, mentre “Heart of glass” risuona nell’aria remixata con Philip Glass, ed è musica ancora attraente anzi lo è più di quarant’anni fa, perché con l’età i gusti si evolvono, talvolta, in meglio.

Insomma è fresca, questa collezione Gucci; ”facile” come devono esserlo tutte le Cruise, le prime a entrare nei negozi a novembre e a restarci anche per sette mesi, dunque per strategia e anche un po’ per ostinazione (del brand, dei clienti che alla fine si dicono perché no) quelle che vendono di più. Talvolta, anzi sempre, influiscono su oltre la metà del fatturato annuale, da cui si capisce il perché di tutto il “buzz”, il brusio, che vi viene costruito attorno, con i clienti privati scortati come star fra reception private in boutique e visite ad personam ai musei, i giornalisti trattati come sultani, i buyer vezzeggiati oltre ogni dire, per questa volta tutti gravitanti attorno o dentro il Savoy perché è lì, in quell’albergo costruito alla fine dell’Ottocento da un impresario teatrale grazie ai proventi delle micidiali operette di Gilbert&Sullivan, che il giovane Guccio Gucci, di professione portavaligie sul celeberrimo ascensore laccato di rosso che è sempre identico, allestito con quell’orientalismo un po’ kitsch che faceva il paio con le ariette chi-chi del “Mikado”, si mise in testa di disegnare e produrre in prima persona valigie ed equipaggi per la clientela internazionale che scortava nelle camere.

Chi vede nel primo logo di Gucci un armigero farebbe bene a osservarlo meglio: è un porta-valigie con tanto di visiera: dagli inglesi, il signor Gucci aveva appreso evidentemente anche l’orgoglio tipico della classe operaia.

“Fare moda significa studiare, esplorare, interpretare”, scrive De Sarno nelle note di sfilata. “Dopo aver espresso le mie idee in materia di desiderabilità e sensualità, questo è un altro lato di me stesso, più romantico e più contraddittorio. Mi piace prendere qualcosa che crediamo di conoscere e cambiarne le regole, spingendolo al limite, ma senza mai snaturarlo. Muoverlo verso il suo opposto e in questo scoprire armonia”. Insomma, è riuscita, terza sfilata di De Sarno per Gucci, presentata con tutto il clamore mediatico necessario e richiesto a un marchio che deve molto recuperare in termini di fatturato e anche di “vibe”, ormai essenziale per qualunque marchio, ma in particolare per quelli che contribuiscono a oltre la metà del giro d’affari della holding dalla quale dipendono. Lo scorso anno, la collezione, ancora pesantemente influenzata da Alessandro Michele, sfilò a Seoul: all’atterraggio a Roma, una parte considerevole dell’ufficio stile accese il pc e vi trovò una lettera di licenziamento. Da allora è trascorso solo un anno: il grande ufficio di Roma, affacciato su Castel sant’Angelo, è stato chiuso, tutte le funzioni aziendali sono rientrate nell’hub di via Mecenate, periferia est di Milano di ambizioni e attualità di spettacolo, visto che di fronte lavorano a pieno ritmo gli studi di registrazione della Rai e di recente vi è stato organizzato l’incontro elettorale di Letizia Moratti.

La moda di De Sarno è diventata (tornata ad essere?) quella di taglio cool, donante, degli anni di Tom Ford; le rare ospiti che ieri sera ancora sfoggiavano gli abiti di Michele apparivano incongrue, uscite da un’altra epoca e, in effetti, lo erano: forse su nessun altro marchio come su Gucci il Covid ha operato con crudezza, inciso senza pietà, invecchiandone brutalmente l’estetica. La sfilata che si tenne a Westminster nel 2017, pur impressa nel cuore di tutti, ormai sembra più apparentabile a una favola vittoriana che a un progetto di moda attuale. Chi dice che la moda di oggi sia meno “moda”, e che a farla davvero sia rimasto solo John Galliano ha per certi versi molta ragione (nell’ambiente si sussurra che, presto, maison Margiela e il suo direttore creativo verranno ceduti dal gruppo Otb, finora non vi sono conferme) e per altri davvero torto: la moda che funziona, che vende come il prodotto che è, deve rispecchiare il momento storico. E la moda apparentabile all’arte o alla ricerca sociale non vive il suo momento migliore. Si è tornati a parlare di “occasioni d’uso”, e di “value for money”: anche i clienti (italiani) che da Gucci spendono circa 2 milioni di euro all’anno, gioielli compresi, non hanno più intenzione di investire su un capo che indosseranno una volta sola. Vogliono capi che “abbiano vita”: una vita lunga.

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