Utopie e realtà
La voluttà della parola F (sì, quella)
Riflessione di un omosex di “una certa età” su un epiteto di lontana ascendenza che sprigiona una liberatoria e adrenalinica ironia non riconducibile ad alcuna etichetta. Un manifesto di orgoglio virile (e il patriarcato non c’entra un fico, per una volta. Santo Padre, grazie comunque)
Etimo incerto, dice la Treccani. E anche googlando in rete il risultato è la solita aneddotica dei lanzichenecchi (no, Alain Elkann stavolta non c’entra) storpiatori della parola “feroci” ai tempi del Sacco di Roma nel 1527, e, tre secoli dopo, dei soldati napoleonici sfottuti in vernacolo romanesco in quanto “français”, volgarmente pronunciato “fronscè, che fa il paio col “surprise!” esclamato dai militi d’oltralpe quando a metà delle famose polpette di riso al sugo trovavano a sorpresa la mozzarella filante, e che pare sia l’origine più accreditata di “supplì”…
Vero è che “frocio” spunta per la prima volta nella lingua scritta in un famoso sonetto “der Poeta” (Giuseppe Gioachino Belli), che descrive il comico litigio tra una guardia papalina e un cencioso popolano che irrispettosamente fa la pipì sui muri di una chiesa, privo tuttavia di ogni riferimento ad alcuna pratica erotica tra maschi. Ma quale che sia l’origine della terribile “F word” (anche in inglese frocio comincia per effe: “fag”, e ne conserva la stessa valenza di insulto greve), già gradualmente sostituita anche da noi con il più urbano “gay” negli anni Novanta del secolo scorso in cui fioriva nei campus universitari USA la cultura del politically correct, è impossibile non registrarne l’inusitato e imprevedibilissimo revival scatenato dall’ormai supercliccato fuorionda di Sua Santità Papa Bergoglio ad una recente assemblea episcopale privata.
All’improvviso ogni social ha rilanciato in forma di post, tweet, thread e reel quel “frociaggine” (peraltro: complimenti, Santità, per la ragguardevole padronanza della nostra lingua!), garanzia appena fino al giorno prima, insieme a “frocio” e tutte le sue derivazioni (con quale gusto si torna a scriverli su un foglio di giornale: “frocia”, “frocie”, “froci”, “frociame”, “frociume”, “frociata”, “froceria”, via via fino alla “frociaggine” sdoganata da Bergoglio) di inappellabili provvedimenti disciplinari, dal blocco temporaneo dell’account alla sua cancellazione definitiva, tanto che i più furbi, per aggirare i delatori ed eludere gli algoritmi, adottavano fantasiose grafie comprensive di uno o più asterischi al posto della erre o della ci…
C’è stato chi, visti gli inquisitorii metodi dell’era woke, ha gridato al miracolo (nemmeno troppo a sproposito, dato il contesto) e ha auspicato il caloroso bentornato di quella libertà di parola assai più aderente alla realtà delle cose, che per quanto dura e sgradevole, si chiama apposta “realtà”, ed esclude quei manualetti di utopia applicata che da ogni scranno pretenderebbero di istruirci su come parlare e come scrivere (e naturalmente come pensare) per fingere di esser capaci di piegare Madre Natura alle nostre esigenze di bruttini, pelati, foruncolosi, sovrappeso condannati all’infelicità e alla morte, e indurci a credere di vivere nell’alveo protettivo di un fittizio e ipocrita “volèmose bene”. Che emozione, dunque, rileggere su schermi e schermini accesi dibattiti in difesa dell’eventuale recupero di una parola bellissima, che sa addirittura di latino antico (impossibile non pronunciare “frocio” e non riandare col ricordo al Satyricon, di Petronio o di Fellini non ha importanza perché sono la stessa cosa…), così come feroci (Altolà, lanzichenecchi!) invettive contro il recupero di un epiteto volgare, offensivo, lesivo della dignità di ogni diretto interessato, e via bacchettonando.
Così come ad Harlem tutti i Black si chiamano “nigga”, tutti noi maschi omosex di una certa età, quelli almeno che in gioventù hanno avuto qualche problema a dirlo non solo a mamma e papà, ma pure ai compagni di scuola, quelli che se “si vedeva” venivano derisi, insultati, menati, emarginati, e quelli che anche se “non si vedeva” si ritrovavano a vivere per metà del tempo comportandosi come se niente fosse, tutti noi ci si è sempre chiamati con quella parola dura e dolce al contempo, che sprigiona, nel dirla, una liberatoria e adrenalinica ironia inclassificabile e non riducibile ad alcuna etichetta, un manifesto di consapevolezza profonda e orgoglio virile (il patriarcato, per una volta, non c’entra un fico) di quanto la vita possa essere sì bella, sì meravigliosa, ma anche una colossale rottura di coglioni. Noi froci di una certa età, dicevo, non si è mai ben capito perché ci si dovesse tutti definire “gay”, che dizionario alla mano significa “allegro”, addirittura “giulivo”, né ora ci rendiamo ben conto del perché tutto quello che ci riguarda debba chiamarsi “queer”, aggettivo che ha fin dalle origini il significato ben preciso di “strano”, “strambo”, “eccentrico”, e che fino all’altro ieri, prima dei nuovi diktat wokisti, significava “checca”. Viva le checche, s’intende.
Ma nell’era di questa sbandieratissima multiculturalità perché esagerare con una troppo sommaria e approssimativa “inclusione”? A che scopo riunificare i milioni, anzi i miliardi di caratteri diversi di molti tra gli esseri umani di sesso maschile (perdonatemi – sennò pazienza – se per me i sessi sono e saranno sempre due, senza che per questo vi si debba restarne prigionieri: vivo nel terrore di essere investito da un treno in corsa mentre sto attraversando un non-binario morto…), sotto un’unica etichetta, mnemonicamente facile, ok, ma limitante e ridicolmente riduttiva? “Frocio”, finalmente! Grazie, Papa Bergoglio. Anche se l’hai usato con intenzioni poco carine verso quei poveri chierici che in tempi di crisi di vocazioni dovresti tenerti ben stretti sotto la sottana: chi non ricorda la disperazione di quel pretino costernato nel veder inciampare il tuo predecessore Benedetto XVI in Piazza San Pietro? È su YouTube: basta cercare “seminarista sfranta”… Grazie di aver rispolverato questo obsoleto (ma quando mai?) e proibito (su facebook) vocabolo nobile, letterario e cinematografico, imprescindibile nella cultura italiana di destra e di sinistra degli ultimi 100 anni, nelle sue mille e mille diverse lezioni e accezioni: “i frosci” scrive Pasolini nei suoi romanzi (deve ancora nascere chi riuscirà a convincermi che a dargli del “gay” o del “queer” Pier Paolo non si rivolti nella tomba incazzato nero); “Me l’ha detto il dottore: semo tutti froci” spiega ai suoi cipputeschi colleghi di cantiere il manovale Nino Manfredi dopo aver scoperto l’omosessualità del figlio Renato Pozzetto nel film “Testa o Croce”; era il 1982. “Ragazzi, come si sta bene tra noi, tra uomini!” grida Gastone Moschin in “Amici miei” (1975) dopo aver schiaffeggiato i passeggeri affacciati dal finestrino del treno in partenza; e conclude una delle sequenze più esilaranti e cult di tutto il cinema italiano chiedendo ai suoi fedeli sodali: “Ma perché non siamo nati tutti finocchi?”
Alla Scala