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Girotondo tra le mode che abbiamo amato e abbandonato
Dai marchi popolari come Benetton e Fiorucci, alle grandi firme come Versace e Schiaparelli: non esiste una ricetta per replicare i fasti del passato. I milioni non bastano, i nuovi creativi annaspano
Non è vero che Benetton è un brand finito”, dice un filo risentito al telefono l’amico che ha lavorato a Ponzano Veneto per vent’anni e che ora si dedica alla scrittura e alle consulenze. “In India, per esempio, sta vivendo adesso una stagione simile a quella che in Europa furono gli anni Ottanta”. Mentre parla e argomenta, nella mia memoria vanno formandosi due immagini. La prima è il comunicato diramato da Benetton dopo il crollo del Rana Plaza di Dacca, nel 2013, per smentire che fra le macerie e i millecentotrentotto morti, perlopiù povere sartine rinchiuse in quel palazzo fatiscente a cucire abiti del fast fashion per una paga di poco superiore ai trenta dollari al mese, ci fossero anche capi con la loro etichetta. Memori di altre questioni problematiche negli anni precedenti, per esempio con i nativi Mapuche in Sudamerica, i giornali di tutto il mondo avevano infatti inserito Benetton con Primark e altri nomi similari fra i brand che si servivano da quei façonisti senza scrupoli, peraltro con una buona dose di ragione. “L’azienda”, ribadirono dal trevigiano, aveva smesso di lavorare con quel terzista due mesi prima della tragedia, e comunque “già prima”, i loro ordinativi valevano per l’1,8 per cento del fatturato del terzista stesso. Perché, interrompendo il contratto con quel perfetto tempismo, “l’azienda” non avesse sentito il bisogno di avvertire, segnalare, denunciare una situazione di palese violazione del diritto internazionale agli organismi internazionali di vigilanza che, già allora, esistevano, deve attenere allo stesso sentire che, dopo il crollo del ponte Morandi e il processo per disastro colposo, fece dire al Corriere della Sera dallo storico braccio destro della famiglia, Gianni Mion, di non aver ritenuto opportuno segnalare la necessità un intervento “perché così dicevano gli altri, i competenti”. Lenire, troncare, sopire, in ogni impresa c’è un Padre Provinciale manzoniano, talvolta anche due.
Il secondo pensiero che mi coglie mentre l’amico parla, attiene invece ai racconti e agli esempi della grandezza di Benetton che, nell’ultima settimana, hanno accompagnato la mesta intervista, un de profundis avallato non si sa bene da chi, di certo non da un (o forse una?) grande esperto di comunicazione, con la quale Luciano Benetton annunciava per la seconda volta in quindici anni la propria uscita dall’azienda denunciando al contempo un buco di bilancio di cento milioni, che a quanto si poteva desumere dalle sue dichiarazioni offese e dolenti, era stato causato dalla consueta distrazione benettoniana, da quella generosa disposizione a dare fiducia a chi non lo meritava: infatti, al momento dell’assemblea il rosso di bilancio si è rivelato essere, surprise, di 230 milioni. Argomentando la nuova sconfitta, dalla quale peraltro l’ultima generazione Benetton sarebbe ben contenta di chiamarsi fuori, la maggior parte dei colleghi ha evocato glorie così lontane nel tempo da essere sconosciute perfino a una quota consistente dei quarantenni di oggi.
Gli articoli che sancivano le nuove perdite da ripianare raccontavano dei fotografi appostati davanti alle vetrine del negozio Benetton di Chelsea per rubare uno scatto della futura moglie dell’erede al trono di Inghilterra, Diana Spencer, con il golfino colorato sulla camicetta dal colletto smerlato e lo sguardo timido e obliquo, anno di grazia 1980; riportavano alla memoria Luciano nel pieno della forma, nudo con le mani lì, per una storica copertina dell’Espresso dei primi anni Novanta a favore del riciclo dei capi (sono trascorsi più di trent’anni, nel frattempo i capi che non abbiamo riciclato sono andati a formare costiere alte venti metri nel centro Africa) e poi, come dimenticarle, elencavano le campagne pubblicitarie “United colors” di Oliviero Toscani “con il bacio della suora e del prete”, il “diavoletto nero e la angioletta bionda”, i primi profughi in arrivo da Tirana che oggi invece accoglie per noi europei i migranti clandestini in arrivo dall’Africa, a condizioni sulle quali non solo “Report” si è fatto domande. Nessuno, oggi, rivorrebbe rivivere quei tempi, banali e scoppiati come quella musichetta insistente che non si capisce perché ti impongono sempre come sottofondo nei bar, “Big in Japan” e “Happy children”; eppure, al suo primo ritorno in azienda dopo la scomparsa di Gilberto, fra il crollo del Morandi e lo scoppio della pandemia, il patriarca Benetton decise che una squadra vincente non ha alcuna ragione di non replicare i successi quarant’anni dopo, e dunque ci convocò tutti in una specie di hangar per presentarci il dream team del rilancio, composto, oltre che da lui stesso, da Toscani e da Jean Charles de Castelbajac che, mea culpa, pensavo stesse trascorrendo la vecchiaia in una delle sue terre della Guascogna. Invece ci presentò in anteprima la collezione che avrebbe sfilato la sera. Pareva uscita direttamente dal mio armadio dei sedici anni: colori, forme, lunghezze, era tutto uguale.
I tre erano così entusiasti, così carichi di energia, che ci fecero un po’ di tenerezza, tanto che nessuno ebbe cuore di intingere la penna nel veleno, ancorché fosse chiaro a chiunque che non con quelle forme e quei colori si sarebbe vinta la sfida contro Zara ed H&M. Sul Foglio scrissi che mi era sembrato di vivere in una scena del “Vent’anni dopo” di Alexandre Dumas, con i tre moschettieri invecchiati ma ancora gagliardi, il fioretto lustro e il cappello piumato, c’era pure la Guascogna: “L’azienda” se la prese da morire, e poco mancò che non mi invitassero per il nuovo tentativo di rilancio, affidato invece e ancora una volta senza una vera ragione a Ghali. Disegnò tute di acrilico e t-shirt slarghe raccogliendole in una ricca “capsule”, come si definiscono quelle collezioni affidate o realizzate in “collab” con personaggi più o meno noti, per saggiare la tenuta del marchio e dare una scossetta all’ufficio marketing. Non si ebbero notizie di vendite travolgenti. Poi, finalmente, nel 2022, de Castelbajac tornò nelle terre natìe e arrivò un designer vero e bravo, Andrea Incontri, che fece del suo meglio per rivitalizzare quel marchio agonizzante: le città si riempirono dei cartelloni di modelle belle e contemporanee che indossavano graziosi completini stampati a fragolette e ciliegine. Avrebbe potuto essere un successo, non fosse che nel frattempo il brand Benetton aveva esaurito la propria parabola vitale, e non solo per via del Ponte Morandi e di quella festa ampezzana mai annullata dalla famigliona mentre a Genova i feriti morivano e si cercavano i dispersi sotto le macerie, una vergogna che nessuna “voce ferma” di Luciano Benetton potrà mai cancellare, cito il raggelante incipit dell’ultima intervista al Corriere. Non interpretava più la realtà, semplicemente. Non creava legami con la vita di oggi.
Non esiste una strategia vincente perché un marchio, non solo di moda, possa superare il periodo del proprio boom, in genere mai superiore al decennio, e magari raddoppiarlo o centuplicarlo. Anche senza guardare all’estero, dove per esempio sta dibattendosi in acque molto profonde, ed è almeno la terza volta che succede negli ultimi vent’anni, una gloria della produzione d’eccellenza inglese come Burberry, fondata nel 1856, che cosa è rimasto per esempio dei padri fondatori della sartoria made in Italy? Nessuno degli atelier degli invitati alla celeberrima presentazione nella casa del marchese Giovanni Battista “Bista” Giorgini del 12 febbraio 1951 che chiunque può leggere, elencati in ordine alfabetico, sui libri di storia della moda, è sopravvissuto non tanto all’evoluzione della moda, guardate Dior oggi e vi ritroverete quasi tutti gli stilemi e i codici del fondatore Christian, quanto ai cambiamenti sociali. Nulla è rimasto per esempio di Federico Emilio Schuberth che vestiva Sophia Loren e Gina Lollobrigida; solo un archivio tutela la memoria delle Sorelle Fontana che comparivano sulla scaletta dei voli dell’Alitalia di cui avevano vestito le hostess e delle quali i telegiornali magnificano “i modernissimi impianti di produzione”; di Carosa, quanti ricordano che era il marchio della principessa Giovanna Caracciolo Ginnetti? Con fatica e soprattutto con le spalle coperte dal gruppo Lvmh, di quella prima compagine di sarti resiste Pucci (senza il nome di battesimo del fondatore Emilio), cercando di riproporre alle giovani blasé di cui la direttrice creativa Camille Miceli fa parte lo stile amato dalle loro nonne.
Ma chi sente già più parlare di Cerruti (non le lane, il marchio), due anni dopo la morte di Nino che tenne a battesimo Giorgio Armani, chi sente più parlare di Complice che lanciò Gianni Versace, e che cosa succederà allo stesso Versace, ora che sta per passare ancora una volta di mano nell’ambito della fusione fra Capri Holdings e Tapestry, osteggiata dalla Federal Trade Commission, l’antitrust Usa, e si dice che Donatella, neo-cavaliere della Repubblica italiana, lo accompagnerà in questo cambio di proprietà per l’ultima volta. Ma anche scendendo di status, di prezzo e di qualità dei materiali, il risultato non cambia. Prendete Fiorucci, il primo vero brand popolare italiano, che interpretò un’epoca della storia del costume italiano, il nostro personale simbolo peace and love a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, questi ultimi soprattutto, di cui Elio, imprenditore abile quanto uomo leggiadro e delizioso, alleggerirono per quello che potevano il clima di piombo. Il negozio milanese di Galleria Passarella, primo multistore italiano, profumava di caramella ed era pieno di meraviglie sexy e divertenti, di prezzo accessibile anche per noi ragazzine che risparmiavamo per settimane e mesi interi pur di assicurarci un paio di jeans “bell bottom”, scampanati, una t-shirt stampata, perfino una mollettina per i capelli. Fiorucci con i suoi sorrisi e il suo seducente rotacismo, che per primo sostenne lo Studio 54 di New York, è scomparso nel 2015. Nel 2022, il marchio è stato venduto a Dona Bertarelli, imprenditrice del farmaceutico e sorella del più famoso Ernesto vincitore della Coppa America, che vi ha messo a capo un manager di provata esperienza come Alessandro Pisani e una giovane direttrice creativa.
La presentazione della prima collezione si è tenuta lo scorso settembre, e nonostante il “rispetto dei codici del fondatore”, cioè la litania che ripetono tutti i poveri creativi messi a insufflare nuova vita in questi corpi morti, e che naturalmente mi disse anche Francesca Murri, è evidente che quei codici non siano più interessanti, e se proprio volessi rivederli, riviverli o indossarli, potrei cercarne le vestigia sul mercato vintage, non a caso mai stato fiorente come oggi. Prendete, ancora, il caso Schiaparelli: ci sono voluti quasi vent’anni prima che Diego Della Valle identificasse il creativo giusto perché la lezione della grandissima Elsa, comunque una creatrice di nicchia anche ai suoi tempi, venisse aggiornata senza essere stravolta; ma nonostante l’eccezionalità delle collezioni di Daniel Roseberry e l’attrazione che suscita in particolare fra le star di Hollywood, il marchio è ancora in perdita, anzi le aumenta di anno in anno: 14,3 milioni nel 2022, 20 milioni circa nel 2023. Della Valle, che ieri ha delistato il gruppo Tod’s dopo un primo tentativo andato fallito quasi due anni fa, e stringendo al contempo legami più stretti con il fondo L Catterton partecipato da Lvmh, dice sempre di continuare a crederci.
In un periodo di profonda crisi del sistema dovuto non tanto e non solo ai conflitti in corso, quanto alla progressiva disaffezione della clientela mondiale nei confronti della moda dopo il clamoroso rimbalzo seguito alla pandemia (“la gente oggi vuole comprare vita, cioè viaggi ed esperienze, fosse pure e semplicemente una cena stellata”, mi diceva qualche settimana fa, alla cena del Fashion Trust, un creativo pure di successo come Massimo Giorgetti, fondatore di Msgm) per salvare un brand storico, rilanciarlo e renderlo attraente non bastano nemmeno budget faraonici, sebbene e come ovvio aiutino soprattutto ad assicurarsi i creativi migliori, i façonisti e i sarti più precisi e preziosi e la benevolenza dei media. Se bastassero i milioni, non si spiegherebbe per quale motivo, dopo quasi due decenni di sostegno illimitato, nel 2005 Bernard Arnault decise di cedere l’attività di Christian Lacroix e, poche stagioni fa, chiuse la linea di abbigliamento di Rihanna, lanciata poche stagioni prima sull’onda del successo della linea di prodotti di bellezza “inclusivi”. Un brand di moda non può affermarsi e sopravvivere all’evoluzione del gusto e dei desideri, se non è in grado di intercettarli e di farli propri, nei casi migliori di anticiparli.
Il New Look, per tornare a Dior, intuì il desiderio di milioni di donne di tornare a drappeggiarsi in decine di metri di tessuto dopo la penuria e le privazioni della Seconda Guerra Mondiale. Coco Chanel ripeté il miracolo per due volte; a cavallo fra gli anni Dieci e i Venti, quando capì che le donne volevano potersi muovere liberamente e dunque avevano bisogno di abiti leggeri e forme che le rendessero eleganti pur senza sovrastrutture, e al ritorno in Francia dopo l’esilio, in buona parte auto-inflitto, seguito alla guerra dove aveva platealmente parteggiato per gli occupanti, ideando quel tailleur di lana bouclé che per oltre mezzo secolo è stato riproposto da Karl Lagerfeld in infinite varianti alle quali chiunque saprebbe però inscrivere una data: Ottanta, Novanta, primi Duemila. Alle giacche e gli abiti di chi l’ha sostituito dopo la scomparsa nel 2019, il suo braccio destro Virginie Viard, non sarebbe invece possibile assegnare un periodo, un ricordo, una motivazione: perché fossero lì in quella stagione e non, come avrebbero benissimo potuto, due anni prima, o anche cinque, o anche boh.
Due giorni fa, la maison Chanel ha confermato che, dopo mesi di indiscrezioni, in effetti madame Viard lascerà il proprio incarico dopo cinque anni di direzione creativa e trenta di permanenza complessiva. Le vendite andavano male? Tutt’altro, ma bisogna guardare lontano, a lungo termine, e per vendere milioni di décolletées bicolori nel mondo ricco che ne possiede almeno quaranta paia non basta produrre solo quelle. Bisogna produrre le “emozioni” e il “sogno”: nel gergo della ricerca e del marketing, si chiama “effetto trascinamento”, e al momento il testimonial che lo incarna con la migliore adesione ai canoni attuali è Jannik Sinner: non perché vince, ma perché vince con stile, grazia, rispetto dell’avversario. I codici della sensibilità mondiale attuale. Sul fronte solo apparentemente opposto, si muove Demna Gvasalia, direttore creativo di Balenciaga e, come tutti i direttori creativi di questo periodo storico, un personaggio e un testimonial a sé stante. Se Cristobal Balenciaga, il grandissimo sarto basco a cui tutti gli italiani guardavano fra la fine degli anni Quaranta e i Cinquanta e che, non a caso, chiuse l’atelier nel Sessantotto, quando capì che non gli interessava affatto vestire un mondo che protestava in jeans e giacche sfrangiate, è ancora vivo nei desideri di milioni di persone, è perché si chiama semplicemente Balenciaga, scritto in carattere bastone e non più graziato come alle origini, perché almeno due terzi dei milioni di ragazzi che lo idolatrano senza conoscerne la storia non ne sa pronunciare correttamente il cognome (sul web esistono dei tutorial per pronunciare correttamente il suo nome, quello di Chanel, di Givenchy e di Martin Margiela, sono spassosissimi) e perché Demna Gvasalia che invece solitamente si pronuncia senza cognome, solo Demna, mette in scena da anni, e a dispetto di spettacolari incidenti di immagine, la versione più contemporanea della tecnica di provocare la borghesia per stimolarne l’affetto e il rispetto, dell’épater la bourgeoisie. La sua ultima collezione, presentata a Shanghai una settimana fa, ha usato, fra atmosfere cupe e distopiche, lo stesso linguaggio satirico amarissimo di cui George Grosz intrideva le sue tele cento anni fa: le grasse borghesi impellicciate e con il muso di scrofa, i banchieri con il cappello a forma di pitale della narrativa pittorica, nell’estetica di Demna sono diventati abiti che, pur modellati sulla lezione del fondatore, hanno mostrato l’irrisione, lo sberleffo, ma soprattutto una riflessione vera sull’attuale sistema della moda. Un gioco per ricchi e oziosi, certo, ma dopotutto dai tempi di Oscar Wilde questa è sempre stata una parte essenziale della gioia di parteciparvi, fosse pure comprandola e basta: considerare la moda un’arte e se stessi un’opera inimitabile. “Se il lusso è per definizione scarsità, qualcosa che non è infinitamente disponibile, ciò che sembra essere veramente raro e finito in questo momento è, in realtà, la creatività stessa”, disse Demna in un audio-messaggio lo scorso marzo agli invitati alla sfilata a Parigi, andando al cuore dell’impasse nel quale si dibatte il business della moda oggi, fra il timore di eccedere in stravaganza e innovazione, perdendo così i favori di un pubblico meno ricco e comunque meno disposto a spendere in abiti e borsette, e la paura, ormai quasi una certezza, che non basti proporre giacche ben tagliate e in nappa morbidissima per assicurarsi i favori dei clienti.
Per fare moda, non è una scoperta né un’affermazione rivoluzionaria, non basta fare vestiti, e nemmeno basta che siano ben fatti. Volendo usare l’aggettivo à la page, quei bei vestiti devono essere rilevanti, cioè, raccontare qualcosa a chi li acquista, entrare in sintonia con il suo modo di essere di quel momento (quanti abiti possediamo nell’armadio che potremmo indossare ancora, che non sarebbero nemmeno passati di moda del tutto, ma che non ci sembrano comunque più adatti, ci paiono fuori tono e fuori contesto?). Per un marchio globale, non è detto che questo accada nelle stesse modalità in ogni area geografica. Quando si dice che una certa collezione sembra creata per il pubblico orientale, di solito lo è davvero. Talvolta, parte di quella collezione non viene nemmeno mostrata in Europa, vedi la linea di outerwear di Moncler e di abbigliamento per il Pilates e lo yoga firmata da Miu Miu che sta avendo un successo clamoroso in Cina e della quale in Italia, dove è stata disegnata, non è nemmeno giunta notizia: il marchio del gruppo Prada e l’azienda di Remo Ruffini, uno dei pochissimi casi di recupero vincente di un brand storico abbattuto dal suo stesso successo, hanno avuto entrambi l’abilità e l’intuito di capire che i cinesi più abbienti, stremati da anni di segregazione in casa, avrebbero certamente avuto voglia di impiegare il proprio tempo libero in attività sportive all’aria aperta.
Hanno rischiato e hanno vinto, così come i numeri e la diversificazione degli investimenti dall’arte al marketing sportivo, vedi la ripresa della Vuitton Cup, sembrano dare ragione a Louis Vuitton ben oltre quelle sfilate del direttore creativo della linea uomo, Pharrell Williams di cui, in Europa, si stenta a capire lo stile e l’approccio. Quello che fra Milano e Londra troviamo tacky, cioè kitsch, negli Stati Uniti intercetta invece e per esempio il recentissimo revanscismo della comunità nera per la conquista del West, affermata non a caso anche dall’ultimo successo di Beyoncé, “Texas hold’em”. C’entra qualcosa, tutto questo, con gli ultimi esponenti della famiglia Vuitton, tutti collaboratori del gruppo Lvmh, con Patrick Louis, scomparso pochi anni fa, anche allevava centinaia di cani da caccia e che si dilettava a seguire le commandes spéciales, gli ordini esclusivissimi di valigeria? Ovviamente no ma, come in un organismo umano, per sopravvivere robusti anche i marchi hanno bisogno di linfa vitale, di contaminazione e di incroci, di non esaurirsi nella replica eterna del proprio racconto, che è quanto sta cercando di fare Gucci, con molta fatica, diviso com’è fra una comunicazione iper-sofisticata e una realtà di prodotto per così dire concreta.
E’ forse per questo che, dopo un primo piano di rilancio, sembra essersi arenato il progetto di rilancio del marchio Walter Albini acquistato da Bidayat, veicolo di investimento di Rachid Mohamad Rachid, amministratore delegato di Mayhoola, il fondo sovrano del Qatar che nel luglio del 2023 ha stipulato un accordo di partnership strategica con Kering su Valentino che, nel giro di quattro anni, porterà il gruppo di François Henri Pinault al possesso della totalità delle quote del brand. Per iniettare linfa vitale in un marchio che, già a fondatore in vita, cioè fra gli anni Settanta e i primi Ottanta, aveva avuto numerosi problemi di gestione (Albini morì nel 1983, i suoi abiti sono difficilissimi da trovare sul mercato antiquario, per tutto il mondo non esperto di moda è un totale sconosciuto), Rachid avrebbe voluto nominare direttore creativo Alessandro Michele, per il quale nutre una grandissima stima. E’ andata a finire che Michele si è insediato in Valentino con un nutrito gruppo di collaboratori, scalzando Pierpaolo Piccioli. Una mossa che, si dice, avesse cercato di fare anche in Fendi, dove aveva moltiplicato i pourparler, salvo incassare, oltre all’ovvia ostilità di Silvia Venturini Fendi a lasciargli il timone dei pregiatissimi accessori, il deciso diniego di Arnault alla creazione di una enclave. Sia questo vero o meno, non ci sono dubbi che anche questo aspetto abbia una certa rilevanza nei progetti di rilancio, recupero e mantenimento di un marchio, e la riprova, duole dirlo, è rappresentata dalla parabola di Gianfranco Ferré, un marchio che da anni è gestito da tale Paris Group di Dubai di cui nessuno reclama il possesso, che nessuno cerca di acquisire e rilanciare, nonostante si vedano ormai sempre più spesso tracce del suo genio nelle creazioni dei giovani stilisti, che credono di poter impunemente saccheggiare libri e archivi perché tanto, in epoca social, chi vuoi che se ne accorga. A differenza di Giorgio Armani che ogni mattina va ancora a controllare le vetrine e la domenica segue le partite dell’Olimpia Basket dalla panchina dell’allenatore, Ferré viveva chiuso, letteralmente, in una torre d’avorio. Arrivava in ufficio in auto, si appartava in un ufficio dalle finestre perennemente sbarrate, collezionava oggetti rari e preziosi, interagiva con pochissime persone. Nei primi Anni Duemila, era la migliore incarnazione di Floressas Des Esseintes che mi fosse capitato di incontrare: la sua era la moda ideale, sontuosa e magnifica, fatta per un mondo che il suo autore viveva a distanza di sicurezza. Ancor prima che scomparisse, e fra pochi giorni, il 17 giugno, ricorreranno i diciassette anni dalla scomparsa, quella moda non poteva reggere. E infatti non ha retto.
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