Homo felpatus. Fenomenologia della felpa, simbolo di vita comoda e disimpegno
Simbolo di status per gli adolescenti, persino bersaglio di furti. Rapida, comoda e versatile, ha conquistato la generazione Z, sostituendo pullover e camicie
Forse sbagliamo i modi, ma non sbagliamo moda. Devono averlo pensato i quattro ragazzini che a Jesolo, a fine aprile, hanno spogliato un coetaneo di ogni bene, compresa una felpa griffata: uno della baby gang l’ha poi indossata, trofeo di guerra, mentre ordinava tranquillamente del cibo da un noto drive come niente fosse. Le cronache sono zeppe di episodi del genere, focalizzati soprattutto sulle rapine di telefoni e altri ritrovati della tecnologia: ma che l’obiettivo fosse proprio la hoodie – quasi sicuramente nella versione con cappuccio – accende un faro su ciò che oggi assume valore per le persone circa quindicenni, tra quotidianità e status symbol adolescenziale.
In un’Italia che di felpato non ha più, appunto, nemmeno i modi, la maglia in felpa ha vinto la sua silenziosa guerra dei quarant’anni, diventando l’unico outfit conosciuto e riconosciuto dalla generazione nata negli anni Zero. Fateci caso, negli autobus del mattino o all’ora di uscita dalle lezioni: fuori dalle scuole di ogni ordine e grado, niente più pullover né camicie a stazionare ciondolando, ma solo felpe, felpe standard con pochi guizzi anche cromatici, figlie e nipoti delle tute da ginnastica che Nanni Moretti stigmatizzava in “Caro diario” tra le ville verdi di Casalpalocco. Sportivi della domenica, pantofolai, digitàmbuli sdraiati le indossano in continuum tra casa e lavoro, allenamento e uscita serale: l’espansione totale della comodità segna la vittoria definitiva rispetto a qualsiasi altro top, con percentuali bulgare o zaiane tra le persone under 20.
Rapida da indossare, altrettanto veloce da togliere, tiene caldi e non impegna: l’inesorabile affermazione del capo più morbido dove mettere il naso origina dagli anni Ottanta, quando grazie a brand quali By American e soprattutto Best Company – design by Olmes Carretti, orgogliosamente reggiano – l’invasione di colori pastello, vita facile e spensieratezza raggiunse il suo acme. YouTube conserva le sequenze di una sfilata fiorentina del gennaio 1985, pochi giorni dopo la famosa nevicata che inginocchiò l’Italia: a Villa La Loggia passavano in rassegna bambini, ragazzi, donne, adulti tra bianche montagnole artificiali, hit dell’epoca in tempo reale, pesi ginnici, larghe carezze giallo pulcino, settimane sugli sci e weekend in barca a vela.
Schegge attraverso le quali è possibile assistere alla genesi antropologica dell’homo felpatus, immancabili i sospiri odierni di chi non sapeva ancora che quella fosse la felicità. Di là da venire i tempi della collezione Eroi di Kappa, coi luoghi olimpici e le città eponime nei colori sociali del calcio: né più né meno che la stura alla tendenza salviniana di celebrare ogni città visitata in comizio, prima gli italiani, prima i sardi, prima quelli del quartiere. Per eterogenesi dei fini, la felpa arcobaleno dei paninari è venuta mortificandosi nei media come la felpa di Matteo, in tinta unita e spesso cerniera centrale (brrr). E oggi, tra Milano e Monza, due furti di felpe in quattro giorni, per mano di furbastri pronti a sfidare l’antitaccheggio: scarpe slacciate ai piedi, all’ingresso di San Vittore, chiusi nel proprio cappuccio per il rispetto dei compagni di cella, preciso a mammà.
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