EUROPA, O CARA
Le battaglie politiche parallele a Bruxelles. Obiettivi: consumare meno, evitando il fast fashion
Passaporto digitale, no smaltimento, progettazione ecologica, norme sul lavoro anche indiretto. Viaggio estivo fra i dossier ancora aperti e le normative già approvate che stanno per rendere il lavoro nella moda particolarmente costrittivo per le PMI. Senza tutelare i grandi brand, ma chiedendo anche la partecipazione del cliente finale
Breve storia triste e complessa. Qualche mese fa, il gruppo Kering chiede a uno dei suoi fornitori di calzature una consegna importante. Si è sotto sfilate, i tempi sono strettissimi, la consegna va fatta subito. La piccola azienda, che non rifornisce solo il gruppo di Pinault, ha però tutti i facchini e gli addetti alla consegna impegnati, dunque deve subappaltare l’incarico a una ditta esterna.
Anticipando la direttiva europea di cui scriveremo fra poche righe, Kering chiede il Durc non solo alla ditta fornitrice, come da prassi, ma dell’azienda di facchinaggio subappaltatrice, di cui la fornitrice diventa automaticamente responsabile e il grande brand, nel caso di irregolarità, obiettivo passibile non tanto di azioni legali, quanto di una molto concreta campagna di contro-comunicazione, altresì detto sputtanamento globale. “Nel magico mondo della perfetta regolamentazione, tutto questo non dovrebbe succedere”, osserva Elena Salvaneschi. “E invece, è possibile che il piccolo fornitore, dopo essersi dovuto fidare a occhi chiusi dei documenti del subappaltatore, si trovi in una posizione difficilissima”. Di queste asperità nell’applicazione delle direttive europee in via di recepimento in Italia è andata a parlare di recente alla Camera Annarita Pilotti, presidente di Confindustria Moda, il raggruppamento di associazioni di categoria che, dopo l’uscita rumorosissima dei tessutai aderenti a Smi, delle aziende di occhiali e degli orafi, sta lavorando per mantenere questa denominazione preziosa proprio e innanzitutto a fini comunitari. Orientarsi fra le nuove norme e le molte iniziative in corso è, infatti, difficilissimo, e le battaglie attualmente in corso sulla costituzione del nuovo Parlamento europeo di sicuro non aiutano a capire su quali assi strategici si muova l’Italia e quali disposizioni imporranno nuove restrizioni alle aziende della filiera, strette fra le richieste dei brand, che in gran parte non hanno il controllo diretto della produzione, e la necessità, soprattutto in particolari momenti dell’anno, di ricorrere a subappalti. Anche quando non influiscono direttamente sulle scelte strategiche o industriali, le iniziative che coinvolgono l’Italia o meno sono infatti molto frammentate, frammentarie e complesse.
Tre settimane fa, al termine della due giorni di incontro a Venezia sul progetto Sea Beyond promosso per favorire la conoscenza e il rispetto dei fondali marini presso le scuole primarie da Prada, che già lavora da anni con il nylon riciclato dalle reti da pesca, abbiamo chiesto per esempio qualche informazione sui progetti europei in corso, scoprendo che l’Italia non è ai primissimi posti nella cosiddetta “ocean literacy”, cioè la conoscenza del mare e della sua tutela, come d’altronde sospettavamo dopo aver visto il simpaticissimo video di Geppy Cucciari contro i ladri di sabbia della sua Sardegna. L’Italia non fa parte, per esempio, del vasto consorzio Eu4Ocean promosso da Unesco, dove compaiono invece paesi che hanno un affaccio sul mare ben più limitato del nostro, tipo il Belgio, e non compare in altre iniziative legate al recupero di mari e laghi. Saremo sicuramente impegnati in qualche commissione, ma non è che il nostro impegno per il nostro patrimonio naturale più prezioso sia così evidente, sebbene non ci siano dubbi che negli ultimi vent’anni anni alcune delle associazioni di imprese direttamente responsabili dell’inquinamento delle acque, in particolare di quelle fluviali e lacustri come le concerie, abbiano investito in modo importante negli impianti di depurazione. Siamo invece molto più ricettivi e attenti, anche giustamente per carità, su altri fronti: la tutela del lavoro altresì detta Epr, acronimo di “responsabilità estesa del produttore”, il passaporto o etichettatura digitale dei beni di lusso, cioè il racconto, fase dopo fase, di dove siano stati realizzati, da chi e come, e altre specifiche che qui, in parte, vi anticipiamo grazie al contributo fondamentale di Confindustria Moda nella valutazione dei molti dossier aperti. Nell’ordine:
Regolamento sull’eco-design
Approvato dal Parlamento europeo lo scorso 23 aprile e dal Consiglio il 30 maggio 2024, in attesa solo di pubblicazione in Gazzetta ufficiale, avrà grande impatto sul settore moda: entro il 3 dicembre 2030 obbligherà le aziende a progettare i propri prodotti perché siano circolari e durevoli, dotati di un passaporto digitale che ne tracci i passaggi produttivi e fornisca ai consumatori informazioni chiave per mantenere o riparare il prodotto, vietando la distruzione dell’invenduto. Entro nove mesi dall’entrata in vigore del regolamento (cioè, venti giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale), la Commissione europea adotterà il primo piano di lavoro per stabilire un elenco di gruppi di prodotti prioritari nella definizione di requisiti di progettazione ecocompatibile, insieme al calendario stimato per la loro definizione. Tra i prodotti prioritari, il primo piano di lavoro includerà i prodotti tessili, come indumenti e calzature. Entro cinque anni dall’entrata in vigore del provvedimento, la Commissione adotterà atti delegati per definire i requisiti di progettazione ecocompatibile. Questi requisiti saranno applicabili non prima di 18 mesi dalla loro adozione, permettendo così agli operatori economici di avere il tempo necessario per adeguarsi. L’impostazione Regolamento Eco-design favorisce le produzioni di lusso – quale quella del made in Italy – e impone l’abbandono del modello del fast fashion, con produzioni incontrollate che hanno un impatto ambientale importante sia in fase di produzione che in fase di smaltimento. Vietare la distruzione di abbigliamento e accessori invenduti è sicuramente un gesto significativo, che imporrà una differente analisi del modo in cui vengono prodotte alcune collezioni.
EPR
Già dal mese di gennaio del 2022, in Italia è obbligatoria per tutti i comuni la raccolta separata dei tessili per favorire il riciclo. Con il sistema EPR italiano, i produttori saranno tenuti a garantire che i loro prodotti siano adatti al riutilizzo e alla riparazione, contengano materiali riciclati e siano tecnicamente durevoli e facilmente riparabili. Il sistema EPR in Italia prevede le seguenti misure: l’ambito dell’EPR per i prodotti tessili in Italia includerà abbigliamento, calzature, abbigliamento in pelle, tessili per la casa e accessori. Sarà introdotto un sistema di etichettatura digitale che richiederà ai produttori di descrivere le caratteristiche e la composizione fibrosa dei tessili, oltre a evidenziare la possibile presenza di parti non tessili. In fase di design dovrà essere assicurato l’utilizzo di materiali adatti al riutilizzo e alla riparazione, contenenti materiali riciclati, tecnicamente durevoli e facilmente riparabili e, similmente a quanto avviene nei Paesi Bassi e in Svezia, anche le aziende straniere che vendono prodotti tessili ai clienti in Italia avranno degli obblighi, mentre verrà applicato il concetto di tariffe EPR eco-modulate, a seconda del tasso-tipologia inquinante, e verrà rispettato il principio della gerarchia dei rifiuti, partendo dalla riduzione, riutilizzo, riciclo, recupero.
Passaporto digitale
Il Passaporto Digitale fornirà ai consumatori tutte le informazioni necessarie, attraverso un portale web gestito dalla Commissione europea. Questo faciliterà i controlli da parte delle autorità pubbliche. Inoltre, le nuove norme puntano a contrastare la distruzione dei prodotti invenduti, spreco di preziose risorse economiche e problema ambientale. Le regole obbligano le grandi aziende a riferire il numero di prodotti di consumo invenduti scartati all’anno e le ragioni per cui ciò era necessario. La distruzione di abbigliamento, accessori di abbigliamento e calzature invenduti sarà vietata due anni dopo l’entrata in vigore del Regolamento, e altre categorie potrebbero essere aggiunte in futuro.
Greenwashing
La Direttiva 2024/825 modifica la Direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori e la Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, e mira a proteggere i consumatori da pratiche di commercializzazione ingannevoli, nonché ad aiutarli a compiere scelte di acquisto più informate. A questo scopo vengono aggiunte all’elenco europeo delle pratiche commerciali vietate una serie di strategie di marketing legate al greenwashing e all’obsolescenza precoce dei beni. Nello specifico, sarà proibito esibire un marchio di sostenibilità che non sia basato su un sistema di certificazione o non è stabilito da autorità pubbliche; formulare un’asserzione ambientale generica e indimostrabile; asserire, in base a una mera compensazione delle emissioni di gas a effetto serra, che un prodotto ha un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente in termini di emissioni di gas a effetto serra; presentare requisiti imposti per legge sul mercato dell’Unione per tutti i prodotti appartenenti a una data categoria come se fossero un tratto distintivo dell’offerta dell’azienda.
Deforestazione
Il Regolamento sarà applicato dal 30 dicembre 2024 per le grandi imprese e dal 30 giugno 2025 per le piccole, e impone la geolocalizzazione degli allevamenti in cui sono nati e in cui hanno vissuto i capi di bestiame da cui deriva la pelle. La norma prevede inoltre che gli operatori commerciali, quando importano pelli bovine allo stato grezzo, semilavorato e finite, ne sappiano documentare l’origine, così da dimostrare che non siano collegate a recenti fenomeni di deforestazioni e ad altre pratiche illegali. L’onere riguarda, con modalità diverse a seconda delle classificazioni di rischio, le importazioni da tutto il mondo, inclusi i Paesi europei. Il sistema di controlli e sanzioni è demandato agli stati membri: a seconda delle eventuali irregolarità, gli operatori rischiano sanzioni fino al 4 per cento del fatturato annuo. Le incognite sull’implementazione del Regolamento sono ancora molte: in Europa e in Nord America la tracciabilità della filiera della carne è piuttosto strutturata. In altri Paesi, invece, è meno precisa: in Brasile, Argentina e Paraguay nella filiera della carne convivono iniziative private e sistemi pubblici che, a volte, non utilizzano tecnologie comparabili.
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