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Quando il caporalato diventa brand
Trentacinquemila lavoratori irregolari sono impiegati nell'industria della moda in Italia. Molti meno rispetto all’agricoltura e in via di diminuzione, benché i controlli non siano semplici. Interviste al presidente di Camera Moda Carlo Capasa, alla senatrice Paola Mancini e a Roberta Griffini di Filctem-Cgil
Tutto si semplifica in due parole: “Sfruttamento dei lavoratori”. Addirittura, negli atti dell’inchiesta della Procura di Milano, si parla di un sistema “generalizzato e consolidato”, in atto almeno dal 2017. La moda italiana, o per meglio dire alcune aziende dai nomi altisonanti, sono inciampate nel cosiddetto caporalato, termine che si pensava riguardasse l’agricoltura e non certo griffe di fama mondiale che in Italia producono capi e accessori. Si dava per scontato che questo metodo fosse di uso comune in diverse aree geografiche dell’Asia asiatiche, ma non nella Penisola.
L’affanno per capire e intervenire è stato immediato e se da un lato i molti imprenditori che “Il Foglio della moda” ha sollecitato non parlano, è il presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, Carlo Capasa, a prendere il toro per le corna, quasi letteralmente. “Abbiamo istituito subito un tavolo al nostro interno per analizzare il problema e trovare soluzioni adeguate tenendo presente che i brand coinvolti in questa storia sono parte lesa, i veri danneggiati. Le analisi che ho letto in questi giorni sono piuttosto superficiali; da quanto si evince dagli articoli, pare che i brand paghino pochissimo accessori che rivendono a cifre altissime, mentre in effetti non hanno nessun rapporto con queste sub forniture”. Sta lì il problema? “Esiste un sistema di sub forniture ben regolato, ma al suo interno ci sono delle storture che vanno corrette. I brand sono dalla parte di chi le vuole correggere tant'è vero che tutta l’associazione si è resa disponibile e stiamo già cercando di collaborare; abbiamo avuto convocazioni dal prefetto, dal presidente del Tribunale di Milano, siamo pronti e disponibili a collaborare con quanti ce lo chiedono. Molti di questi laboratori devono essere controllati anche dalle forze dell’ordine; alcuni di loro non rispettano alcun limite, ma non sempre si riesce a fare controlli così puntuali della sub filiera”. Anche i numeri, le percentuali contano, dice Capasa. “Bisogna tenere presente che ci sono sessantamila aziende della moda in Italia per circa 600mila lavoratori: un brand di media caratura normalmente lavora con dieci-dodicimila mila laboratori, dei quali almeno settemila diretti; con cifre come queste, è facile immaginare che il controllo non sia semplicissimo.
In compenso”, aggiunge, “per via di pochissimi pezzi trovati rispetto a una produzione di milioni ogni anno, gli effetti in termini di immagine sono devastanti. Auspichiamo fortemente che venga creata una sorta di certificazione modello ISO 9000 alle quali le aziende fornitrici possano aderire in modo da essere tranquilli sulle modalità di lavoro che le sub forniture applicano”. Gli irregolari non sono pochi. “Se ne contano trentacinque mila: tenendo presente che cinque anni fa erano quarantacinque mila, sono dunque diminuiti del sedici per cento. Questo vuol dire che tutte le attività di controllo che si stanno facendo hanno in parte diminuito il numero di questi lavoratori. Dobbiamo tenere conto che la moda è il settore nel quale operano meno lavoratori irregolari: i trentacinquemila della moda, tra i quali figurano alcuni cui non vengono pagati i contributi per più di tre mesi e che quindi non sono tutti fantasmi, irrintracciabili, s’interfacciano con gli oltre 2 milioni di lavoratori irregolari tra agricoltura, turismo e edilizia. Nonostante questo, vogliamo portare la cifra a zero nei prossimi anni, ma abbiamo bisogno di un aiuto da parte delle istituzioni in modo da dotarci di uno strumento che consenta più controlli dal punto di vista delle condizioni di lavoro, mantenendo inalterata questa filiera così importante della moda italiana unica al mondo”. Secondo gli inquirenti, non è ‘mai stato effettivamente controllata la catena produttiva’. I capi e le borse, infatti, sarebbero stati fabbricati da opifici cinesi, i cui gestori sono indagati per caporalato. “Ovvero una forma illegale di reclutamento e di organizzazione della mano d’opera”, spiega la senatrice Paola Mancini, componente della X Commissione permanente che si occupa del lavoro e segretario della commissione vigilanza, inchiesta e sicurezza sul lavoro. “Oggi il governo - continua - proprio nell'ottica di dare dignità al lavoro, che esiste dove ci sono trattamenti equi, sta cercando di mettere in atto tutte quelle verifiche e provvedimenti per cercare di azzerare quelle cosiddette sacche grigio/nere”. Il lavoro deve essere regolare, “giustamente retribuito e tutelato tenendo conto che dove c’è lavoro irregolare ci sono anche i grandi infortuni mortali o così gravi da rendere una persona inabile al lavoro”. “Nel 2023 erano stati assunti 423 ispettori in più proprio per garantire un 30 per cento di controlli maggiori che stanno potenziando le normative che riguardano anche il penale sullo sfruttamento andando ad agire sulle sanzioni. Negli anni, aver allargato le maglie e non aver insistito su controlli e verifiche anche nel campo della moda, dove sappiamo che i guadagni sono enormi, ha prodotto queste realtà fuori dai radar”.
Appalti e subappalti. “E distacco, un’altra modalità di operare che sarebbe valida perché prevista da una norma ma che troppo spesso viene utilizzata come somministrazione illecita di mano d’opera. Dove si perde il controllo diretto è sempre più difficile andare a stanare la situazione negativa. L’appaltatore si assuma il rischio con la consapevolezza che deve retribuire il lavoratore e assicurargli tutele come i lavoratori non in appalto”. Si parla di borse vendute a 1.800 euro con un costo di produzione (pelli e metalleria escluse) di novanta, fatte da lavoratori con paghe di due-tre euro all’ora e turni fino a quattordici. “Poniamo molta attenzione sul tema, non tanto sul singolo marchio perché anche per noi diventa difficile ricostruire l'intera filiera; in generale, però, da tempo denunciamo la situazione legata al settore tessile moda”, spiega Roberta Griffini, segretaria Tessile, Moda e Occhialeria della Filctem-Cgil. I lavoratori denunciano? “Segnalano ma con molta paura e diffidenza, senza esporsi in prima persona; non si iscrivono al sindacato e questo ci mette in difficoltà perché senza un mandato non possiamo intervenire”. La situazione è quindi nota. “Il problema lo poniamo alle associazioni datoriali che rappresentano i grandi marchi della moda. Le aziende interpellate ci rispondono di non essere indagate, riteniamo comunque che da parte dei committenti ci debba essere una particolare attenzione verso la filiera produttiva. Sono loro che si devono responsabilizzare rispetto a quello che succede. Le aziende, a nostro avviso, non devono scaricare sugli appalti, che ovviamente devono avere delle responsabilità, però chiediamo ai grandi marchi, che hanno non solo il potere economico ma anche contrattuale, di stabilire delle regole quanto più restrittive affinché all’interno della filiera, ci sia rispetto delle leggi dei contratti nazionali e di tutto il tema della salute e sicurezza. Alle aziende del lusso dico, prendiamoci degli impegni attraverso dei protocolli”.
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