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La moda non stupisce più

Fabiana Giacomotti

Contro la crisi delle vendite non bastano viaggi premio e mostre. Invece vince ancora la sobrietà di Armani, che ha scelto di concentrare in un unico momento l’apertura del nuovo palazzo in Madison Avenue e la sfilata della collezione primavera-estate 2025

Lo so che cosa pensate della sfilata di Dolce&Gabbana nel parco archeologico di Nora, ma Pula si trova nella zona meno frequentata della Sardegna, un po’ di notorietà non può farle che bene e di certo la Sovrintendenza avrà badato alla tutela del luogo, dunque non si saranno trovate le bottigliette di plastica vuote e le cartacce come accadde nei palchi del Teatro alla Scala in un magico 6 dicembre quando il duo organizzò la sfilata davanti alla scenografia di Davide Livermore che avrebbe inaugurato la stagione il giorno successivo e gli inservienti della veneranda istituzione lavorarono per ore al ripristino degli spazi dopo il passaggio della ricca clientela (fu l’ultimo anno della sponsorizzazione, poi cambiò il sovrintendente e arrivò Giorgio Armani). Il giorno dopo la sfilata il raffinato designer inglese Duro Olowu ha postato sul proprio account Instagram, senza commenti, l’immagine di Donyale Luna nel “Satyricon” di Fellini. Nel film, la favolosa ragazza di Detroit che diceva a tutti di essere figlia della luna ma che invece ebbe la sfortuna di incontrare sulla propria strada uno di quei nobilastri romani molto terragni dei quali Michele Masneri ha fatto un feroce e delizioso ritratto nel suo ultimo romanzo, “Paradiso”, interpretava il ruolo di Enotea, navigatissima maga che custodisce il fuoco del sesso fra le gambe. Sarà stato certamente un caso, ma il costume che indossa, firmato da quel genio assoluto di Danilo Donati e, benché non accreditato perché il clan Visconti non voleva, da quell’altro genio totale di Piero Tosi, è identico all’abito più celebrato della sfilata di D&G, una ricca tunica nera con due coppe di metallo dorato sui seni a mo’ di scudo e gloria degli stessi, sui quali la stampa mondiale ha speso fiumi di inchiostro accreditando “tradizioni sarde” del tutto inesistenti ma che devono aver divertito molto mister Olowu, un signore che sa dirti non solo la tipologia, ma anche la fabbrica dalla quale proviene il tessuto dell’abito vintage che indossi, oltre naturalmente all’anno di fabbricazione. 

E’ abbastanza noto che, nel “Satyricon”, Tosi si occupò del trucco e del parrucco storico, dove l’ansia di controllo del regista, che il costumista mal tollerava, si manifestava meno (“Pierino, ma quando mi farai almeno una scarpina”, si lamentava a ogni nuova pellicola Fellini, che però aveva l’abitudine di piazzarsi alle spalle dei costumisti per sfinirli di indicazioni con la sua vocina chioccia e perentoria, e che dunque non provò mai la gioia della scarpina ufficiale). Eppure, visto il lavoro che pochi anni dopo Tosi avrebbe fatto per la “Medea” di Pier Paolo Pasolini, in una folgorante crasi visiva degli abiti tradizionali del Mediterraneo fino all’Anatolia, mi sentirei di dire che quel costume sia più suo che di Donati, che peraltro in quello stesso periodo aveva appena lavorato a “Porcile”, dunque era orientato su altre epoche e stili diversi, ma che certamente avrebbe accettato un consiglio dall’amico degli anni dell’Accademia. Comunque sia andata, quello e in genere tutti gli altri abiti delle due sfilate sarde di D&G (c’è stata anche “l’alta sartoria” maschile, dove le signore in pizzi e i signori in camicia aderente hanno appreso dell’esistenza dei mamuthones con i campanacci e i velli a pelo lungo, una gioia anche solo pronunciarne il nome, con tutte quelle M così maschie) sono stati fatti oggetto di una delle feroci disamine delle “reference” che vanno per la maggiore sui social, utile divertissement in un settore che non solo sta rallentando nuovamente e non per cause esogene come il Covid la propria crescita, ma che sta perdendo concretamente di appeal: la moda, fino al 2019 argomento di conversazione onorevole anche in un consesso mediamente intellettuale, diciamo un alleggerimento stuzzicante fra il dolce e il caffè, è ormai molto meno praticata di qualunque altra espressione del vivere sociale, e massimamente i viaggi, le uscite pre e post prandiali, i pranzi stessi nel ristorante di grido e come peraltro certificano gli ultimi dati sulla propensione di acquisto dei very rich diffusa un paio di settimane fa da Altagamma, che compongono un nucleo pari all’uno per cento dei consumatori totali ma che sono in grado di orientare il ventuno per cento delle spese in beni voluttuari, a dimostrazione definitiva della sproporzione della ricchezza mondiale e della ragione per la quale i prezzi di certi modelli di borsa continuano a crescere anno dopo anno: perché compensano la perdita progressiva della fascia medio-bassa dalla clientela di riferimento. 

 

La moda come argomento di conversazione è ormai molto meno praticata di altre espressione del vivere sociale come viaggi e i pranzi

 

Pare che persino il sequel del “Diavolo veste Prada”, attualmente in preparazione, si occuperà della crisi di questo sistema, un tempo favolosamente ricco e influente. Ci sono stati anni in cui le campagne di Oliviero Toscani per Benetton potevano tenere banco per settimane, dando una scossa all’agenda del governo. Oggi Benetton è in crisi nera e non provoca, tanto meno stupisce, nemmeno il direttore creativo di Balenciaga, Demna, che vende rotoli di scotch resinati come bracciali e sacchi della spesa griffati: la sua ultima sfilata couture, che riproduceva le linee e i volumi del fondatore attraverso l’uso stratificato di vecchi piumini e jeans, sembrava pensata al solo scopo di piazzare le sneaker e gli stivali a tacco alto e punta modello poulaine medievale agli adolescenti insicuri e alle ricche influencer a caccia di patenti intellettuali. Epater le bourgeois, il solito vecchio giochino, abbagliare lo sprovveduto che, stante la formazione culturale di base conciliante e assolutoria di questi anni, apre vaste praterie di ingaggi e consulenze a chiunque sappia inanellare tre citazioni e sfoggiare un uso corretto dell’iperbole. 

All’analisi comparativa delle ascendenze e delle “ispirazioni” si dedica dunque la piccola parte della comunità della moda internazionale che non si limita a copia-incollare i comunicati stampa sul giornale del mattino o a esercitarsi nei tag come i poveri influencer inglobati loro malgrado nello scandalo del pandoro e ormai costretti a spacciare il loro limitatissimo patrimonio lessicale per “contenuto”, ma che ritiene la caccia all’errore e alla copiatura un’imprescindibile leva di marketing e di affermazione personale. Questo genere di esercizio non è certo una novità: vi si dedicava con la stessa, isterica ferocia di oggi Marcel Proust nei primi del Novecento, scocciando grandemente i direttori che gli avevano chiesto una breve recensione delle toilette delle signore a un ritrovo di moda e si ritrovavano con papiri che il loro autore si rifiutava di tagliare. Oggi, però, questo esercizio, nel quale si mescolano i sentimenti di rivalsa più diversi, è attenzionato come un congiunto della premier, in quanto espressione di quella “cultura”, nel senso più ampio del termine, alla quale la moda si vede costretta a fare ricorso dopo aver dato fondo a ogni altro genere di associazione a partire da quello fondativo, e cioè il sesso e la giovinezza. 

Dal fatale 1875 in cui il Bon Marché aprì il primo atelier d’arte nei suoi saloni per rassicurare le impiegate che acquistavano camicette fatte in serie sull’artigianalità raffinata e la cultura profonda che sottendeva all’impresa commerciale, nulla è cambiato, e l’arte continua a offrire pezze d’appoggio alle camicette fatte in serie, così come i musei si vedono costretti a trasformarsi in vetrine del tutto paragonabili a quelle di una boutique in cambio dei denari necessari per restauri anche di media entità. La moda, sartoriale o anche industriale, si è affiancata all’arte e alla musica dagli anni di Paul Poiret, al cinema dai Venti; nei Sessanta ha aderito alle istanze sociali, nei Settanta alle grandi battaglie femministe, dai Novanta difesa della natura dall’altro ieri, e ancora cucina, vini, entertainment, fino alla recente brandizzazione, chiamatela pure occupazione, di stabilimenti balneari un tempo sobri, con cuscini stampati e tappezzerie pacchiane delle quali nessuno sentiva il bisogno, tanto meno le famiglie che vi affittano capanni a migliaia di euro all’anno da generazioni, ma sarebbe più corretto scriverne al passato visto che queste “collab” fra brand e gestori di lettini hanno provocato fughe e s-prenotazioni a raffica, sostituendo progressivamente il volto e i modi della clientela.

 

Cosa tocca fare per continuare a dare lavoro alle seicentomila persone, escluse le agenzie di comunicazione, che solo in Italia si occupano di moda?

 

Pochi giorni fa, la newsletter di riferimento della moda mondiale, “The Business of Fashion”, ha pubblicato un reportage stupefatto e dolente sugli scarsi risultati, per non dire la sostanziale scomparsa dalla “conversazione”, quel genere di attività estemporanea che noi boomer definiamo ancora “dibattito”, dei molti comitati per l’inclusione e la diversità nati alla fine dello scorso decennio, sull’onda del movimento Black Lives Matter, domandandosi come fosse possibile che nel giro di un lustro tutto sembrasse dimenticato, e sarà forse stato per quest’aria di restaurazione che spira nel mondo occidentale? La realtà dei fatti è molto meno politica e molto più pratica. La si può leggere nei dati diffusi dalla Camera Nazionale della Moda a giugno: segnalano un calo di fatturato del 3 per cento nei primi due mesi dell’anno, che salgono al 5 per cento nei segmenti di riferimento e cioè tessile, abbigliamento, pelletteria. L’altra sera, incontrato per caso l’ex presidente di Confindustria Moda Ercole Botto Poala sulla strada del ritorno a casa dalla “Turandot” iper-decorativa e molto ben cantata del momento e fatti due passi insieme, abbiamo discusso della possibilità che il governo cinese alleggerisca le recenti misure contrarie ai consumi di lusso, in particolare a quelli importati, e che torni a favorire l’impresa privata nei settori dei beni di consumo voluttuari, dando cioè quella spinta necessaria a recuperare la perdita quotidiana di 15 milioni di euro di ricavi al giorno che Cna Federmoda segnalava lo scorso maggio analizzando i dati relativi al primo trimestre dell’anno e che sono addebitabili al brusco rallentamento degli ordini da parte dei grandi brand, a loro volta vittime delle politiche di Beijing, sulle quali quasi tutti hanno riposto eccessive speranze da un tempo eccessivamente lungo, tanto che nemmeno l’attuale vertiginosa crescita delle vendite in Giappone, favorita dallo yen debole, riesce a compensarle. 

Dunque se, per dirla con il cattivo titolista, la moda non è più di moda, che cosa tocca fare per continuare a dare lavoro a quelle seicentomila persone, mal contate ed escluse le agenzie di comunicazione, che solo in Italia se ne occupano? La maggior parte dei grandi brand lo ha fatto alzando il tiro, cioè caricando di orpelli e spostando l’obiettivo finale della vendita sull’“esperienza”, definizione magica di questi anni social; trasformando cioè la moda nel succedaneo di un parco divertimenti, in una succursale di Disneyland con acquisto obbligatorio all’uscita e photo opportunity inclusa, vedi appunto le visite riservate agli atelier e le cene-con-lo-stilista offerta da Mytheresa, l’accoglienza caprese riservata ai grandi clienti di Ferragamo in occasione di Nomad, l’esposizione d’arte itinerante per ricchi e sfaccendati, o appunto il grand tour annuale di Dolce&Gabbana, quest’anno organizzato forzatamente nell’unica struttura ricettiva per ampie comitive della zona, il Forte Village, per tutti gli anni Novanta destinazione prediletta dei venditori della Nielsen per la loro convention annuale, ma oggi lontano da quell’ideale di ospitalità a cui gli acquirenti della couture o dei loro succedanei più vistosi si sono abituati, e che si incarnano invece nelle masserie pugliesi, più o meno finte anche loro ma comunque create a somiglianza dell’autentico, del tradizionale, dell’esperienza appunto. Sarebbe impossibile calcolare quanti di questi eventi vengano organizzati all’anno, perché non tutti spostano dalle trecento alle seicento persone come nel caso delle sfilate cruise o degli appuntamenti annuali di Dolce&Gabbana. 

 

Non convince la trasformazione del settore nel succedaneo di un parco divertimenti, vedi le visite riservate agli atelier e le cene-con-lo-stilista

 

Che a nessuno di questi formidabili strateghi della vendita sia finora venuto in mente che questi viaggi continui, brevissimi, spossanti, ai quali migliaia di persone in misura maggiore o minore si sottopongono e perfino con un certo spirito competitivo, confliggano sfacciatamente con l’impegno per la sostenibilità sfoggiato in ogni occasione e messo anche a verbale nei consigli di amministrazione, attiene a quelle magiche contraddizioni di cui la moda non riesce a liberarsi e che tutti accettano come un dato di fatto. 

Per questo, nelle ultime ore sta facendo molto parlare la nuova presa di posizione di Giorgio Armani, che dopo essersi regalato per i novant’anni (compiuti pochi giorni fa, molti auguri) una sfilata couture parigina che era un incanto di rigore e sofisticata bellezza, ha scelto di concentrare in un unico momento l’apertura del nuovo palazzo in Madison Avenue e la sfilata della collezione primavera-estate 2025, prevista come sempre a chiusura del calendario milanese del mese prima. “Una scelta responsabile”, l’ha definita, che segue alle molte altre decisioni assennate degli ultimi anni: fu il primo a sfilare a porte chiuse per il Covid, il primo a chiedere che si sfilasse di meno, si producesse di meno, si desse insomma più concretezza al valore effettivo del vestire e meno spazio a quello che, con un’immagine purtroppo sempre in voga, la gente definisce “il circo della moda”. Pochi, finora, l’hanno seguito.

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