Sneaker da collezione in mostra  alla sale d’aste di Bonhams a Londra (AP Photo/Kirsty Wigglesworth) 

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Sneakers, le scarpe che volano

Fabiana Giacomotti

Colorate ed esagerate, vanno forte anche quelle di marchi meno noti. Viaggio nei meandri della compravendita online
 

Scrivere di sneakers in estate evoca lontani ricordi di Superga indossate giorno e notte a pelle, macchiate di salsedine e di gelato, nascoste nel ripiano inferiore dell’armadio prima che le vestali domestiche le buttassero in lavatrice, fra smorfie di disgusto e gridolini d’esasperazione perché un paio doveva bastare per tutta l’estate, ma indossarle pulite e intonse era da cafoni e dunque le battaglie non finivano mai: da una parte la polizia dell’igiene, dall’altra l’onta della scarpetta da frescona, dell’“oddìo, ma le hai lavate?” di Olivia, la sciatto-chic che tutte imitavamo. Piacere delizioso, le scalciavi sulla porta d’ingresso, posando i piedi sul marmo nero cordonato di bianco tipico delle case liguri e lì, nella frescura che ti saliva fino alla radice dei capelli, ti guardavi con attenzione allo specchio per capire se qualcosa, nella postura, nelle guance accaldate, negli occhi soprattutto, tradisse la corsa in motorino proibita su per il Monte di Portofino che allora era aperto, l’incontro col filarino che non andava a genio alla mamma, la pomiciata durante la quale non ti eri spinta oltre perché, appunto, indossavi le “scarpe da tennis”, e con le scarpe addosso non si poteva, anzi sai che ridere. 

Grottesco baluardo della nostra virtù di adolescenti, i “scarp del tennis” delle nostre estati-Jannacci, bianche, al massimo blu e poi, via via che gli Ottanta incalzavano, rosa e gialline, oggi sono state sostituite da un traffico miliardario di scarpottoni coloratissimi e sgraziati che, me l’avessero detto allora, non ci avrei creduto. Per dirla tutta, neanche me lo sarei immaginato: se sono riuscita a scrivere questo articolo, è perché il figlio quattordicenne di una delle più importanti pr italiane della cultura, trader in modelli Nike griffati da artisti e celebrity che compra alle aste costringendosi a delle alzatacce che mai farebbe per Platone e che rivende con un guadagno medio del tre-quattrocento per cento, mi ha guidata nei meandri di questo mondo di cui noi delle Superga d’antan leggiamo molto ma sappiamo poco: due settimane fa, il Financial Times ha messo in palio sneakers di marca fra chi avesse dato informazioni utili sulla loro compravendita come investimento a medio termine per corroborare un articolo sul tema. 

 

Il Financial Times premiava chi avrebbe dato informazioni utili sulla compravendita di sneakers come investimento a medio termine

 

Gli scarpottoni colorati, larghi e pesanti di oggi ai quali gli adolescenti, ma anche il loro succedaneo simbolico e cioè gli artisti che frequentano vernici e biennali, affidano la propria personalità quasi volessero ancorarla a un elemento visivamente solido, quarant’anni fa semplicemente non esistevano. Alla fine di agosto, quelle bombe batteriologiche in cui si erano trasformate le Superga estive venivano infatti buttate, per essere sostituite con nuovi modelli identici che ci avrebbero accompagnato per tutto l’inverno, nelle ore di ginnastica a scuola oppure nei pomeriggi spesi sotto quei micidiali palloni in cui i colpi delle racchette rimbombavano come il cannone del Gianicolo a mezzogiorno. Quando arrivarono le Air Jordan, nel 1984, noi della primissima leva X Generation eravamo già all’università, e sui campi da tennis indossavamo le Adidas, cioè solida roba tedesca, purché fossero sempre bianche e blu. Altri colori non erano ammessi, giusto il verde smeraldo; insomma, quello che ha raccontato lo scorso anno Ben Affleck nel film “Air” è tutto vero. Adesso leggo che, dopo decenni di battaglia all’ultimo testimonial, Nike e Adidas sono in crisi di identità perché le nuove star dello sport sono sempre più propense a stringere accordi con marchi meno noti, ma in linea con i loro “valori personali”, qualunque siano e comunque si possano declinare su una scarpa sportiva. La verità è un’altra, e cioè che questi ragazzi non si contentano più di posare con la racchetta, il pallone o il giavellotto in mano e la scarpa griffata ai piedi. La massificazione del “fashion discourse”, cioè del dibattito attorno al tema, e la parallela concentrazione delle forze economiche dei brand su pochi nomi certi, li ha convinti di poter svolgere un ruolo più importante, sia a livello creativo sia commerciale, e dunque di poter disegnare e firmare il loro modello, e naturalmente di spartirsene gli utili con la casa produttrice, secondo il modello di impresa personale lanciato proprio dal campione del basket o, secondo quanto abbiamo appreso sempre nel film, dalla tenacia di sua madre Deloris. 

 

Nike e Adidas sono in crisi di identità perché le nuove star dello sport sono sempre più propense a stringere accordi con piccoli marchi

 

Anni e modi lontanissimi da quelli attuali, nei quali il numero uno del tennis Jannik Sinner può permettersi di firmare contratti di sponsorizzazione per categoria merceologica, uno per, e dunque di invadere le città e i social con i suoi riccioli rossi mentre assapora la pasta De Cecco, degusta il Parmigiano Reggiano, sorseggia il caffè Lavazza o ancora sfoggia il borsone Gucci in “collab” e il nuovo modello di Rolex che nessuno gli strapperà mai dal polso perché sarebbe un infame. Tanto gentile e tanto onesto pare, per carità, ma anche una oliatissima macchina da soldi che, come ormai è chiaro anche agli idealisti, sono il motore dello sport Terzo Millennio, molto oltre il completino regalato o la sneakers in prova. Peraltro, se i nuovi atleti rifiutano accordi di baratto o misere prebende c’è da capirli: al termine dell’anno in corso, il fatturato generato dalle sneakers a livello mondiale sarà pari a 80,19 miliardi di dollari, secondo le stime che PwC Italia mi ha inviato gentilmente a richiesta, e si prevede che aumenterà del 5,18 per cento di media fino al 2028, quando il segmento dovrebbe raggiungere i 98,14 miliardi di giro d’affari, per un volume di paia pari a 1,38 miliardi. Dunque, se star come Roger Federer (testimonial di Louis Vuitton, comunque) o Stephen Curry si sono potute permettere di siglare accordi con marchi di ricerca come On e Under Armour, per gli emergenti l’opportunità di diventare direttori creativi di una linea a loro firma è molto più seducente della cessione dei diritti commerciali alla scuderia Nike o Reebok, tanto che Isaac Okoro, giocatore ventitreenne dei Cleveland Cavaliers della Nba, ha scelto di firmare il suo primo contratto per una scarpa da ginnastica con la start-up Holo Footwear in cambio di un modello esclusivo e di una quota della società. A trentacinque anni si è atleti finiti, bisogna investire nel futuro. 

A questo proposito, al figlio trader minorenne che l’amica, cuore di mamma, mi ha presentato come incredibilmente timido e che invece, come era logico attendersi, è non solo verbosissimo sull’argomento, ma anche condiscendente con la giornalista attempata al punto che arriva il momento in cui bisogna ribattere con un rovescio (“le Nike Air Yeezy, firmate e indossate da un artista di nome Kanye West, sono state vendute per 1,8 milioni di dollari. Ah, lo conosce personalmente?”), ho chiesto se il risultato delle sue attività, insomma il gruzzoletto, venisse accantonato per gli anni dell’università o fosse già stato investito, per esempio, in un motorino, e lì ho capito di avere a che fare con un giocatore d’azzardo, cioè con un operatore finanziario in erba, il cui obiettivo principale non è di fare soldi, ma di sapere, di trattare, insomma di divertirsi un giorno dopo l’altro, una notte dopo l’altra, a botte di adrenalina. Sbaglia chi pensa che vi sia differenza fra chi trascorre le notti al tavolo dello chemin de fer e chi la scorsa settimana si è fatto un giro speculativo sul titolo di Brunello Cucinelli che, dopo aver comunicato ottimi risultati di bilancio, ha pur temporaneamente perso quota in Borsa: il motore che li guida, il “drive” come si dice in gergo, è assolutamente lo stesso. Se poi i soldi arrivano, bene, ma l’obiettivo finale del gioco, anche nel caso del brillante ragazzino milanese, è il gioco stesso. Oltre, naturalmente, allo sfoggio delle competenze acquisite con i compagni di scuola e al racconto epico delle notti trascorse sui siti di rivendita o del produttore. 

 

Trader minorenni che sono operatori finanziari in erba, il cui obiettivo principale non è di fare soldi, ma di sapere, di trattare, di divertirsi 


A quelli che forse non conoscono Kanye West bisogna però spiegare un antefatto: nessuna sneakers sulla quale valga la pena scommettere arriva infatti in negozio. Le “release”, i rilasci dei modelli che contano, avviene infatti per sorteggio, cioè con l’ingaggio fattivo della dea bendata, insomma per fortuna e cioè e ancora per azzardo: al figlio della mia amica non è ancora capitato di vincere uno di questi jackpot, però mi conferma che “quando si sparge la voce, l’hype sale al massimo” anche fra chi non ne fa oggetto di business: eppure, contrariamente a quanto credevo, ne trattiene pochissime per sé: nove, fra le centinaia che ha trattato. Come sempre accade, si è fatto trascinare nel vortice del mercato della rivendita da un amico, poco più di un anno fa; da allora, racconta, ha messo a segno un paio di colpi interessanti, in particolare su un modello di ciabatte estive (ma come, non erano solo sneaker?) sempre della linea Yeezy, cioè ancora una volta firmate da Kanye West che, ho scoperto chiedendo al cugino di mio nipote, sedicenne versatissimo nella musica, forse sarà impositivo con le donne, ma resta comunque un grande artista, e in ogni caso, se proprio dobbiamo parlare di quella Bianca Censori sempre mezza nuda, è un’adulta no? Facesse pure come vuole, osserva definitivo guardandomi in tralice da sotto la massa di ricci. 

Il network delle piattaforme online di rivendita è molto variegato: si passa da StockX, forse il più conosciuto, che offre un sistema di aste stock market per determinare i prezzi, a GOAT che, mi confermano gli esperti liceali, ha “una forte enfasi sull’autenticazione”, un tema da non sottovalutare anche quando si parla di modelli unici o a tiratura limitata, quindi il sito europeo Klekt, e il rivenditore americano Stadium Goods. Gli italiani si distinguono per fantasia nel nome o, per stare in tema, nel naming: Fight Club, lo chicchissimo Smallable e Yankee Kicks, specializzato in sneakers rare e di collezione. Quindi, come ovvio in un sistema che coinvolge decine di migliaia di appassionati, ci sono le comunità online, posizionate tutte su piattaforme già ben note: su Reddit (sottotitolo “Dive into anything”, e appunto), esistono diverse subreddit dedicate al resale di sneakers, dove è possibile trovare informazioni, consigli e fare affari con altri appassionati, mentre su Discord si trovano diverse community dedicate al resale di sneakers, dove è possibile chattare con altri appassionati e partecipare a scambi e vendite.

Tenersi informati è capitale o, almeno, dovrebbe esserlo anche se si è parte attiva di un universo collaterale come le sneakers prodotte dalla moda, vedi Balenciaga o, in forte crescita, Bottega Veneta. Dalla provincia di Lecce, dove governa Leo Shoes, leader del settore e capofila di un conglomerato da 240 milioni di euro di giro d’affari, Antonio Filograna Sergio spiega che, dopo un breve periodo di stallo post Covid, quando non vedevamo l’ora di mettere a riposo le tute e le sneakers della domesticità coatta, negli ultimi sei mesi il mercato ha ripreso a correre e che, anzi, tutti i brand stanno orientandosi su questa tipologia che, evidentemente, garantisce non solo fatturati interessanti, ma anche ottimi margini. Per quelle pieghe della normativa sul Made in Italy che consente la dicitura anche a prodotti che hanno visto l’Italia col binocolo e all’ultimo momento, le sneakers di lusso della moda sono composte quasi sempre da suole di gomma vulcanizzata di tecnologia asiatica, oggettivamente la migliore, e tomaie di varia origine; italiana, ma anche no.

 

Il variegato network delle piattaforme di rivendita, da StockX, forse la più conosciuta, a GOAT che mette “l’enfasi sull’autenticazione”

 

Assemblaggio e packaging sono invece sempre nazionali: l’ultimo passaggio è quello che conta, ma è un fatto che, come il destino di Bianca Ristori e la sua mania di girare per strada coperta solo da nastri di scotch, dell’origine di questi oggetti, un tempo parecchio attenzionati dai media, ormai interessi zero a nessuno. Si dà ormai per scontato che una multinazionale sia attenta ai propri fornitori e alla qualità del lavoro che offrono anche le manifatture presso le quali si serve. Quello che conta, è la prossima “release”.

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