intervista con sfondo di treni

Forzare il linguaggio non modifica il pensiero

Tony Di Corcia

Conversazione con Barbara Alberti sullo stile, su Gucci e sulla neolingua del politicamente corretto che però non agisce come dovrebbe: tutte le parole vanno dette, e ne vanno inventate di nuove

Estate. È tempo, per gli editori, di sguinzagliare gli autori in giro per l’Italia tra festival, rassegne, incontri. I meno schizzinosi non disdegnano nemmeno le sagre. Non si sottrae a questo tour costellato di treni in ritardo e abbracci sudati Barbara Alberti, 81 anni luminosamente portati: “In mia presenza nessuno usa la parola “vecchio” – arguisce la scrittrice – allora faccio schifo? Essere vecchi è una cosa così brutta che non si può neanche nominare? Ma la vita è questa: si nasce, si invecchia, si muore. Bisogna guardare in faccia la realtà. Questa idea di rimediare alle disgrazie umane modificando il linguaggio è assurda. Arriveremmo a dire che una persona non è morta ma diversamente viva”.

Intercettiamo la scrittrice all’Università degli Studi di Bari, dove è protagonista di un incontro organizzato dalla Camerata Musicale Barese: tra le mani stringe il suo ultimo libro “Tremate, tremate. Le streghe son tornate” edito da Rizzoli. Potrebbe sembrare un discorso nostalgico di slogan e femminismi che furono ed è, invece, un accorato manifesto sulla libertà al giorno d’oggi. Anzi, per essere più precisi, sulle libertà: di espressione, di autodeterminazione, di linguaggio, di ridere, di prendersi meno sul serio, di accettare il tempo e le sue scadenze. “La strega è il segno del terrore che la Chiesa e gli uomini hanno sempre avuto della donna. Abbiamo sempre fatto paura. E hanno ragione: perché siamo capaci di tutto! Se ci hanno imprigionate, bruciate vive, non è per caso. Siamo streghe, perché siamo amiche della verità”. 

Ti sei mai sentita definire “strega”? “Io non ho mai avuto questo onore! Ma non posso fare la vita perché sono nata in un tempo in cui, tutto sommato, le donne stavano cominciando a conquistare la loro libertà. Penso a mia madre o alle mie nonne, donne che a trent’anni erano delle vecchie: Prima ci volevano vecchie molto presto. Adesso vedo delle ragazze di sessantotto anni che fanno veramente girare la testa, tipo Rita Rusic. Abbiamo fatto delle conquiste e la più grande, secondo me, è il diritto al senso dell’umorismo. Fino a pochi anni fa, per fare la comica dovevi essere brutta e far ridere di te stessa: i più anziani ricorderanno Tina Pica o Ave Ninchi. Adesso abbiamo delle sventole pazzesche, pensa a Virginia Raffaele. Spero che continueremo a essere streghe, cioè a essere scandalose”. Stando a quanto scrivi, la libertà di linguaggio è ostaggio di quello che generalmente viene definito politicamente corretto. “Certo, oggi esiste una forma di civiltà che impedisce di rivolgersi a qualcuno dandogli del vecchio zoppo. Ma ci mancherebbe, se uno mi dicesse una cosa del genere lo menerei. Esiste però una censura insidiosa, che agisce sulle parole. E che attraverso il linguaggio censura i contenuti, dunque il pensiero. Ormai siamo tutti uguali, tutti uniti nelle parole, non esistono più differenze, ma non è vero: le discriminazioni restano e, dunque, cambiare il linguaggio non serve a nulla. Per esempio, non mi piace per niente quel femminismo che vuole censurare le parole: noi le parole le dobbiamo inventare, non censurare, tutte vanno dette. Sono stata femminista, ma mi sono sempre trovata molto male nei gruppi: ci sono giochi di potere, bigottismo… I gruppi umani, proprio come quelli animali, possono essere molto pericolosi”.

Di cosa parliamo, oggi, quando pronunciamo la parola “libertà”? Apparentemente, il nostro è un tempo così per bene, così tollerante e rispettoso, da illuderci che la libertà sia un valore disponibile, indiscusso, tutelato. “È una parola che si esprime chiaramente, non ha bisogno di essere interpretata o spiegata. La libertà è libertà. Poi, quanto alla società e al nostro tempo, siamo così per bene che mandiamo i nostri migranti a morire nei campi e si ammazzano le donne nell’indulgenza totale per gli assassini, ma sono tutte chiacchiere: la verità è che nascondiamo la realtà con la chiacchiera, le ingiustizie sociali rimangono e la nostra condizione lascia ancora molto a desiderare. Ormai la grande conquista femminile è che facciamo tutto noi, prima non ci lasciavano fare niente e adesso, invece, ci sono maschi che amano molto farsi mantenere. L’orientamento sessuale? Molto meno rispetto ai miei tempi, ma è ancora discriminato”. 

Questa intervista viene pubblicata su pagine dedicate alla moda, un sistema che condiziona le nostre scelte, i nostri gusti, i nostri consumi. E che pervade ogni spazio con i suoi loghi, i suoi pattern, le sue cifre: anche le scatole dei fazzolettini di carta o le cabine degli stabilimenti balneari. All’ultimo Premio Strega, sono stati comunicati i nomi degli stilisti che vestivano i finalisti. Come se qualcuno potesse mai chiedere: chi ha firmato l’abito di chi ha firmato il libro? “Davvero? Non posso crederci. Secondo dovremmo interrogarci, e dovrebbero farlo soprattutto quelli della mia generazione. Perché noi nonni, che nel Sessantotto volevamo rovesciare tutto, abbiamo nipoti che vanno in giro con gli abiti firmati. Ai miei tempi, mai avremmo portato un abito firmato perché la firma eravamo noi! Avevamo un senso della nostra esistenza. E invece adesso abbiamo quindicenni che vogliono le scarpe firmate, ma che cosa vuol dire firmate? Vuol dire che costano, quindi tu stai indossando il cartellino del prezzo. È terrificante questo fenomeno. E siamo noi, della nostra generazione, che dobbiamo farci delle domande perché abbiamo delle responsabilità. È la morte dell’immaginazione. Noi ci vestivamo alle bancarelle dell’usato, e andavamo in giro addirittura con una divisa da carabiniere perché ci si trovava di tutto. Era un grande Carnevale, una grande affermazione della nostra personalità. Adesso indossare un abito di marca significa essere uguali a tutti gli altri, e che hai bisogno di una firma per esistere. Siamo entità di consumo, tutti quanti. Prima ci infastidivamo quando compariva la pubblicità in televisione, adesso è dappertutto, anche sui nostri telefoni”.

Però anche Barbara Alberti ha ceduto alle lusinghe della moda, posando per una campagna pubblicitaria. E non per un sarto di provincia, ma per la Cruise 2018 di Gucci. “Lo auguro a chiunque. Vengono a prenderti a casa, con tutti gli onori. Ti portano in un posto bellissimo. Ti fanno delle foto. E ti pagano! Dovresti lavorare otto mesi per guadagnare quella cifra. È meraviglioso. E Alessandro Michele (attualmente direttore creativo di Valentino, ndr) è un uomo delizioso, simpaticissimo. E poi è un’esperienza che ti da soddisfazioni anche di altro tipo. Per esempio, noi siamo la tipica famiglia italiana a crescita zero: in quattro, due genitori e due figli, abbiamo prodotto una bambina. La ragazzina cresce, e i nonni non la appagano più. Invece del solito Natale, quell’anno decide di andare in Giappone: noi le abbiamo fatto un albero decorato con le bandiere giapponesi, facevamo finta di niente ma rosicavamo da pazzi perché nostra nipote andava in Giappone invece che dai nonni per il Natale. La figliola, già dimentica del Natale e della nonna, arriva a Tokyo. Scende le scale mobili della metropolitana e in fondo chi c’è? La nonna! C’è un poster di Gucci, grande venti metri, con la nonna!” Modella, addirittura. Essendo già scrittrice, sceneggiatrice, opinionista televisiva, concorrente del “Grande fratello”, presenza assai frequente in televisione: certamente una libertà che Alberti si concede è quella di non lasciarsi incasellare soltanto in un ruolo. Ha fatto persino l’attrice per Ferzan Ozpetek.

“Ma quello è accaduto grazie a Mina, io non sono un’attrice e non so recitare: quella è un’arte, un dono, oltre che un lavoro. Ozpetek cercava una nonna cattivissima, una vecchia carogna che arriva a rinchiudere i nipoti nell’armadio e veste con dei tailleurini tipo Chanel che sono l’ultima cosa che indosserei, tremendi, io gli darei fuoco. Mina e Ozpetek sono amici, si sentono tantissimo, e lei gli ha fatto un po’ di nomi di attrici. E lui le diceva che non andavano bene, cercava una che la guardi e ti fa paura. E lei gli fa “Ma c’è la Alberti!” Hanno dovuto fare 18 ciak per ogni battuta, se il regista non mi ha gettato dalla finestra è perché è davvero un brav’uomo. Mia figlia mi ha visto al cinema e mi ha detto “Mamma, io una cagna così non l’ho mai vista”. Aveva ragione”. Quindi l’ultima vera libertà è quella che si concede lei: l’anticonformismo. “Ma non è un blasone, basta essere sé stessi. E sì, è una forma di anticonformismo”.

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