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Guerra in Ucraina

Torna la moda a Kyiv

Fabiana Giacomotti

Dopo due anni di assenza, la capitale ospita di nuovo la Ukrainian Fashion Week. Il fragile equilibrio della creatività e le voci delle protagoniste

“La nostra industria è troppo giovane perché potessimo permetterci di perdere un’altra stagione”, dice da un luogo imprecisato della campagna attorno a Odessa la stilista Yuliya Paskal: lo schermo del pc rimanda l’immagine di un’alta siepe verdissima, in lontananza voci di bambini che giocano. Indossa un vestito sbracciato e non potrebbe sintetizzare con maggiore efficacia il ritorno della Fashion Week a Kyiv, dopo due anni di assenza forzata e di ospitalità certo generosa ma anche e inevitabilmente frammentaria da parte dei calendari di Londra, Copenaghen, Milano e Berlino sotto la bandiera, anche fisica e che tanti trovarono al loro posto, ripiegata sulla sedia, “Support Ukrainian Fashion”. Diciannove progetti all’estero in due anni, un grande supporto internazionale che ora, però, va inevitabilmente affievolendosi: tornare a Kyiv era diventato fondamentale anche per evitare una diaspora creativa che, la Francia lo sperimentò con l’occupazione, può rivelarsi lunga e difficile da recuperare, quando si ha un settore e un’industria che invece meritano di essere preservate, ma si tratta anche di una questione di orgoglio. 


La Ukrainian Fashion Week, che segna il ventisettesimo anno di attività e l’edizione cinquantacinque come se mai si fosse interrotta, si terrà dal primo al 4 di settembre, e benché lontanissima dalle presentazioni ormai centenarie di Parigi è comunque meno “giovane” di quello che Paskal afferma. Con il suo sistema di scuole, showroom, buyer e venditori, rappresenta al contrario uno dei primi segnali che l’Ucraina mandò al mondo occidentale dopo la proclamazione della repubblica, nel 1991. Fu la prima fashion week dell’Europa centrale, seguita a lunga distanza dalla settimana della moda di Mosca che peraltro è stata cancellata già da diversi anni dal panorama internazionale e ha dovuto rassegnarsi a lavorare con i paesi che in generale supportano le politiche di Vladimir Putin e che si stenterebbe a definire rilevanti: Costa Rica, Sudafrica, India. Alla fashion week di Kyiv hanno aderito una cinquantina di nomi, alcuni rilevantissimi come Litkovska, Ksenia Schneider, Ivan Frolov che veste i concerti di Beyoncé, grande supporter della resistenza ucraina, e la stessa Paskal, prima finalista del premio Lvmh nel 2014 con i suoi abiti tagliati a laser, leggeri e ben costruiti. Se per questione di budget, le sfilate non saranno trasmesse in live streaming ma solo sui rispettivi canali social e gli stilisti presenteranno le collezioni perlopiù nei propri atelier, oppure nelle gallerie d’arte che hanno messo loro a disposizione gli spazi, tutti i partecipanti avranno comunque un punto di ritrovo nell’Arsenale Mystetskyi, sede del Museo delle Arti e della Cultura della capitale, luogo simbolico per l’Ucraina anche per via delle origini monastiche dell’area e dove si dice fosse stata sepolta la madre dell’atamano Ivan Mazeppa: dallo scoppio del conflitto ospita anche un rifugio antiaereo, parte dell’accoglienza sarà ripagata con una donazione a un centro di cure palliative per i reduci, aperto nei dintorni di Kyiv. 


La scelta dell’Arsenale è il segno che il governo, pur non avendo in questo momento né la forza economica né le energie per dedicarsi all’industria dell’abbigliamento che in Ucraina non è prioritaria, ne percepisce però il potenziale politico e di immagine. Se ne ebbe un segnale importante già lo scorso febbraio, quando la first lady Olena Zelenska apparve in un video che ne annunciava la nuova edizione insistendo molto sul ruolo della moda come portatrice di vita e di entusiasmo: “I designer ucraini continuano a creare, a preservare posti di lavoro, a parlare al mondo dell’Ucraina, nel linguaggio della creatività, della volontà e della resilienza”, disse. “Questo significa solo una cosa: l’industria si sta sviluppando e quindi la vita prevale qui e ora. Ringraziamo tutti coloro che ci sostengono in questo viaggio”. La risposta è andata al di là delle aspettative anche in termini di sponsor, come sottolinea in un altro collegamento Teams stabilito per questo articolo in cui tutti vogliamo vederci e valutarci e capire e il telefono non basta, la presidente e amministratrice delegata della Ukrainian Fashion Week, Iryna Danylevska: “E’ stata la scelta giusta: la guerra non ci fermerà”. Fino ad oggi sembra positiva, ma forse non se ne sono ancora accorti perché a cosa vuoi che serva la moda, la reazione al progetto della comunità degli analisti politico-economici internazionali, cioè le anime pure che poco più di un anno fa fecero muro contro la coppia Zelensky fotografata da Annie Leibovitz per Vogue Uk, dimenticando i molti precedenti storici, famiglia reale inglese inclusa, cioè continuando a sottovalutare l’impatto psicologico della bellezza messa in opera, il solito Dostoevskij insomma, qui applicato in forma lampante. 


Fra le sale del museo verranno esposti i lavori di giovani stilisti ispirati alla guerra e i ritratti dei lavoratori dell’industria della moda che si sono arruolati nelle forze armate. Non si tratta di propaganda, puntualizzano dall’organizzazione a noi che vediamo tracce di retorica patriottarda e di vecchio apparatchik ovunque, ma di un omaggio doveroso: i volontari non sono stati pochi, anche nei reparti creativi, molti di loro non sono tornati. Fra fughe all’estero e arruolamenti, lo staff di Alyona Bettyar, fondatrice di A.M.C. Brand che veste anche Olena Zelenska ed è venduta dalle grandi piattaforme di e-commerce come Farfetch, è stato sostanzialmente dimezzato. Quando ci parliamo, sta scattando la campagna pubblicitaria della prossima collezione nei suoi uffici di Kyiv: osservando alle sue spalle le modelle che si preparano, i gesti del fotografo, i ritocchi alla scena, la stessa Alyona che è favolosamente bella anche con i capelli raccolti in un nodo sul capo, sarebbe difficile percepire una pur minima differenza fra questa e una qualunque giornata di lavoro al Superstudio di via Tortona, a Milano.

La differenza invece c’è, e si annida nel rischio continuo, ossessivo, assillante, del disastro, che non ti abbandona mai: mentre parliamo di vestiti e di strategie distributive, e sorridiamo e cerchiamo di fare apparire tutto normale, business as usual, sappiamo entrambe, io ovviamente con uno spirito diverso, che potrebbe saltare la luce da un momento all’altro o che un razzo potrebbe infrangere le finestre che si scorgono sul soffitto e che irradiano una perfetta luce zenitale. Il Cremlino non ha ancora abbandonato l’idea di mettere in ginocchio l’Ucraina con la leva dei black out elettrici, e c’è stato un momento in cui Paskal, come molti altri, ha dovuto fare ricorso ai generatori – i suoi le erano stati regalati dalla Germania – e affidarsi al buon cuore della comunità internazionale per il rifornimento dei tessuti. Pochi mesi dopo l’invasione, era stata invitata a sceglierli dal gruppo Lvmh nel magazzino di Celine: “Bellissimi”, sospira. Il problema è stato farli arrivare a Odessa nei mesi in cui l’Ucraina razionalizzava le importazioni di beni non strettamente necessari e l’esercito russo mirava a impadronirsi del porto. Il marito di Alyona, banchiere di investimento, avrebbe invece voluto lasciare l’Ucraina con lei e i bambini due giorni dopo l’invasione: “L’ho scongiurato di non farlo. La mia impresa è la mia vita, i miei collaboratori hanno bisogno di uno stipendio. Stiamo facendo dei grossi sacrifici, è tutto molto difficile, ma resistere è fondamentale”. 


Dopo un primo periodo di disorientamento e di graduale conversione della produzione di abbigliamento per il pret-à-porter di lusso in divise e calzature per l’esercito, purtroppo un classico di questi momenti storici e che a prescindere dall’evoluzione tecnologica e logistica del mondo si ritrova pressoché identico nelle cronache del 1940 e in quelle del 1916, il sistema della moda ucraina ha trovato un suo equilibrio, pur difficile e precario. “E’ incredibile come si riesca ad adattarsi a tutto, a trovare soluzioni per ogni emergenza”, osserva. Non è facile stabilire quanto la moda ucraina abbia perso in termini di fatturato dal giorno dell’attacco delle truppe russe; non è riuscita a fare un calcolo preciso nemmeno Iryna Danylevska, manager del tessile che nel 1997 ritenne arrivato il momento di creare un sistema locale della moda, come decine di altri imprenditori avevano fatto prima di lei nell’ultimo secolo e mezzo, ovunque nel mondo. Non esiste un sistema della moda senza un’industria che lo sostenga, alle spalle di qualunque fashion week troverete un gruppo di tessutai che deve fatturare o rilanciarsi, vedi Christian Dior con quelle gonne per le quali impiegava quindici metri di tessuto solo perché il suo finanziatore Marcel Boussac doveva rimettere in funzione i telai dopo la Seconda guerra mondiale, vedi anche il progressivo spostamento dell’asse promozionale della moda da Firenze a Milano nei primi anni Settanta. Quello che Danylevska sa per certo è che da un anno a questa parte, le vendite di moda locale sono riprese, grazie a un’organizzazione che “dopo il primo choc” ha decentrato le showroom e la produzione in città lontane dal conflitto, come Lviv, Chernivtsi o Ivano-Frankivsk, e a un supporto effettivo da parte dei gruppi di acquisto internazionali, perlopiù operatori dell’e-commerce, che a loro volta hanno permesso alle migliaia di expat ucraini di “sostenere i loro brand acquistandoli nei paesi dove vivono”. Voleste ordinarne uno, sappiate che i tempi di consegna dei capi sono rallentati, fino a una settimana in più rispetto a quanto accadeva fino a febbraio 2022, e che nessuno si aspetta che protestiate


In ogni caso, anche a Milano ci sono boutique come Milaura che hanno continuato a ordinare gli abiti di Paskal. Comprare moda ucraina è diventato insomma un atto politico, e la nuova fashion week una sfida: “Nonostante gli attacchi missilistici, le sirene dei raid aerei e le sfide quotidiane, il nostro impegno rimane quello di sostenere i nostri designer con la loro creatività e la crescita del loro business”, dice la presidente della Ukrainian Fashion Week: “La nostra resilienza è una testimonianza della forza e dello spirito infrangibile dei designer ucraini. Apprezziamo molto la solidarietà dell’industria della moda mondiale che ci ha sostenuto in questi tempi difficili. Il nostro obiettivo è di mostrare al mondo la forza creativa e il coraggio della scena della moda ucraina, e che la guerra non ci fermerà”. Con il suo staff lavora gratuitamente da tre anni, e conosce perfettamente i risvolti potenzialmente problematici della sua iniziativa: “Quando le persone muoiono, le città vengono distrutte, quando c’è tanto dolore e sofferenza intorno, è difficile parlare di risultati, di progetti riusciti, è difficile sognare. Eppure, vogliamo davvero riportare Kyiv sulla mappa della moda e dare ai nostri marchi l’opportunità di mostrare le proprie collezioni nella loro terra”. Non da expat, non da rifugiati. Pochi giorni dopo l’invasione, Danylevska scrisse tre parole sul proprio account Meta: “Survive, withstand, preserve”, sopravvivere, resistere, preservare. La resilienza, appunto. “In quei giorni, sopravvivere era il primo imperativo”. Questa è la fase quattro, potremmo chiamarla riaffermazione della sovranità creativa ucraina. Danylevska ne va orgogliosa, ma sa perfettamente che la sua è una vittoria amara già in partenza: “Non auguro a nessuno di ripetere questa esperienza. Spero che resterà solo scritta nei libri di storia”.

 

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