Il Foglio della moda
Il red carpet e sei soldi: il solito stile, senza grandi sforzi
La sacra continuità delle passerelle cinematografiche, dove nulla cambia, dalla forma degli abiti alle smanie della folla sempre in delirio ma oggi armata di smartphone, senza che nessuno mai riesca a cogliere l’essenza del bello, come avrebbe detto Maugham
Venezia, 81esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Negli anni, sul red carpet qualcosa è cambiato per forza, ma forse neanche più di tanto. Ci basta chiudere gli occhi per qualche secondo e poi riaprirli, immaginando che quel mondo a colori sia diventato – o meglio – sia tornato in bianco e nero. I flash dei fotografi continuano ad essere una certezza tra mille e più cose che non lo sono. I fan sono sempre in delirio per un circo che stravolge chi lo vive per i dodici giorni della sua durata armati di smartphone, vittime e carnefici di una dipendenza necessaria ma comunque compulsiva. “È l’Internét”, con la “e” aperta, come lo avrebbe pronunciato Umberto Eco, il primo ad avvertirci (avendo poi ragione), che insieme con i social, avrebbe dato parola “agli imbecilli”. Vestire un divo oggi, tranne qualche rara eccezione – il doppiopetto (rosa) con una lunga foglia d’oro sul revers di Loewe scelto da Pedro Almodóvar - non richiede poi un grande sforzo.
Si pensi a Richard Gere, arrivato al Lido anche per partecipare al super party di Armani Beauty all’Arsenale e alla serata AmFar. Sul tappeto rosso del Palazzo del Cinema si è presentato con uno smoking di Giorgio Armani, rispettando uno stile che per lui è iniziato e continua inarrestabile dal 1980, quando interpretò “American Gigolo”, il film di Paul Schrader che diede a entrambi gloria mondiale. “Pretty Woman” – dove pur vestito dalla costumista Marilyn Vance indossava abiti simili, codificando dunque uno stile già riconoscibile - e ogni altro film è venuto dopo. Lo stesso vale per Daniel Craig, Joaquin Phoenix e George Clooney, co-protagonista e produttore del film fuori concorso “Wolfs”, diretto da Jon Watts. Con lui nel cast come sul red carpet, dove si aggiravano feroci e divertiti come due veri “lupi”, c’era Brad Pitt, vestito Louis Vuitton, molto classico. Ormai quasi un testimonial, ecco Luca Guadagnino in Prada e che dire, poi, di Jude Law, protagonista del thriller poliziesco “The Order”, suo grande ritorno al cinema di settore, che ha provato a dissacrare la formalità di un completo Brioni indossando la t-shirt sotto il blazer e annodando la cravatta come un foulard. Va meglio sul versante femminile, ma anche lì, abbiamo visto attrici, registe e altre ospiti con abiti a sirena bellissimi che, salvo qualche minima proporzione, sarebbero stati identici venti o trenta anni fa, a cominciare dalla madrina Sveva Alviti, in Armani Privé, ma anche Vittoria Puccini e Anna Foglietta. Splendida, su tutte, Sigourney Weaver, fresca di Leone d’Oro alla Carriera e di un tailleur da sera di Chanel molto commentato sui social.
Alcune star hanno scelto invece delle gonnone che hanno impegnato, volenti o meno, corpi, assistenti, palchi e autisti dei taxi boat. Si pensi a quelle indossate da Caterina Murino e Rocio Morales, tra le protagoniste della mostra “Dive & Madrine” organizzata all’Excelsior con la curatela del sottosegretario alla Cultura Lucia Borgonzoni e della presidente di Cinecittà, Chiara Sbarigia. Per un po’ abbiamo pensato alla difficoltà che deve aver avuto una come Isabelle Huppert, presidente della giuria del concorso ufficiale, col suo abito rosso Balenciaga scelto per la serata inaugurale. “C’est trop lourd”, è troppo pesante, ci ha detto uscendo dalla sala, tenendo tra i guanti bianchi un porta caffè in ceramica bianca e semplice della maison francese (costo: 80 euro). Uno strascico utile a suo modo per tenere pulito, camminandoci, diversi spazi dell’Hotel Excelsior come del palazzo del Cinema. L’abito di Cate Blanchett con le perline bianche sulla schiena è stato un must ed è sempre di Armani (due sere dopo, ha scelto uno smoking nero con pois bianchi di Moschino), così come il cappellino/parrucca con strass di Kasia Smutniak, oggetto del desiderio di molte nei prossimi mesi, un omaggio agli anni Trenta, al Café Chantant e a Boldrini che è più che mai evidente.
Julianne Moore ha illuminato il palco con il suo abito dorato, omaggio involontario a “Goldfinger”, disegnato da Matthieu Blazy di Bottega Veneta, ma è stata più straordinaria ne “La stanza accanto” di Almodóvar in cui recita insieme a Tilda Swinton, che per presentarlo ha invece scelto un completo di Chanel. Il magnifico trio ha ricevuto ben diciassette minuti di applausi: le due vinceranno ex aequo la Coppa Volpi? Chissà. Lady Gaga, con “Joker: folie à deux” potrebbe minacciarle, ma mai come i suoi abiti scultura. Intanto c’è da notare che una standing ovation così lunga era una pratica degli anni Cinquanta (ancora corsi e ricorsi), propria dei tempi della radio con Lello Bersani. In pratica, si misurava il gradimento con gli applausi e da allora non ci sembra che le cose siano cambiate più di tanto in tal senso. Quello che è cambiato e che non c’è più, ed è più che mai evidente, non sono gli abiti o la moda, ma l’artista vero come personaggio. Si continua a fare attenzione al fisico, a ciò che si indossa, poco importa se già visto e rivisto, dimenticando spesso ciò che conta ed è bello davvero, un enigma che - come scrisse William Somerset Maugham in “La luna e sei soldi” (ripubblicato di recente da Adelphi), “in comune con l’universo ha il merito di essere senza risposta”.
Alla Scala