Prima sfilata di moda italiana e francese a Venezia, metà anni Venti

Il Foglio della moda

La moda a Venezia

Fabiana Giacomotti

Attualità e storia di una città-palcoscenico che è all’origine di ogni lusso e di ogni rappresentazione anche sartoriale dal 1926 e di cui la Mostra del Cinema è l’espressione più evidente. Analisi, spunti e una lunga conversazione sul valore simbolico-narrativo dell’abito con Laura Citarella, regista argentina, autrice del nuovo fashion film di Miu Miu

Se si considera che la prima sfilata di moda italiana di una qualche rilevanza internazionale si tenne all’hotel Excelsior di Venezia nell’estate del 1926, è più che logico che la moda sia una parte integrante anche dell’attuale Mostra del Cinema di Venezia di cui i red carpet, le feste sponsorizzate e tutte le infinite e anche minute attività di cui si fanno carico stylist e uffici stampa per vestire star e attrici di mezza tacca ma con agganci importanti sono parte integrante. Di quella sfilata esistono poche immagini, una ve la proponiamo noi del “Foglio della Moda” e proviene da un archivio americano; qualcosa possiede anche e ovviamente l’Istituto Luce, i cui tesori non sono ancora stati tutti dissotterrati: organizzava la “spadaccina della moda italiana”, Lydia De Liguoro, direttrice della rivista “Fantasie d’Italia” che aveva fondato dopo essere stata estromessa dalla sua prima iniziativa editoriale, la celebre “Lidel”, forse la più bella rivista pubblicata negli Anni Venti, la più riuscita graficamente di sicuro, e organizzava nell’alveo della stessa narrativa che è comune oggi a “Vogue” come a qualunque altra rivista che si ponga l’obiettivo di fare lobby per la moda, e non solo di promuoverne l’espressione più evidente, e cioè i vestiti, le borse, le scarpe.

A proposito di narrativa. Se fino ad oggi vi hanno raccontato che la prima sfilata di moda italiana si tenne a Firenze nel 1951 nella casa del marchese Giovan Battista “Bista” Giorgini, hanno ragione, ma fino a un certo punto: la sfilata dell’Excelsior, a cui ne seguirono molte altre, era infatti un “confronto” fra la moda francese e quella italiana, con molte maison parigine invitate fra le quali Patou, che con la sua moda elegante e sportiva era fra le preferite anche in Italia, dove peraltro investiva moltissimo in pubblicità. Se quelle presentazioni di moda sono cadute nell’oblio, questo è accaduto per molti motivi, fra le quali la data spiega molto: dopo la Seconda Guerra Mondiale, la caduta del fascismo, che aveva imposto regole severissime e molto disattese anche agli atelier nazionali nel tentativo di dar vita a una “vera moda italiana”, avrebbe trascinato con sé nell’oblio questi volenterosi ed eleganti tentativi. La moda italiana del 1926 doveva a quella francese in termini di ispirazione almeno quanto quella che andò in scena nel febbraio del 1951 a Firenze: la differenza fu nei tempi, nei modi, nelle relazioni internazionali di Giorgini, ma soprattutto nel desiderio dell’Italia di costruire un nuovo racconto di sé stessa dopo l’orrore e l’ignominia del conflitto. La Mostra del Cinema, nata nel 1932 sulla stessa terrazza dell’Excelsior dove si sfilava da anni, portò avanti con grande determinazione e molta lungimiranza questa doppia valenza – mondanità e settima arte – fino all’esposizione un po’ eccessiva dei risvolti commerciali dell’operazione a cui assistiamo oggi, ma che alimentano non di meno un indotto clamoroso, e del quale il bilancio della Mostra guidata da Alberto Barbera, pur ampiamente positivo (13,8 milioni di utile nel 2022, ultimo dato disponibile) è solo la manifestazione più evidente.

Nessuno sponsor ufficiale investe meno di centomila euro, ma in genere sono il doppio e qualcuno supera questa cifra, a cui vanno aggiunti i materiali (make up o uso auto), il personale e il loro soggiorno (quante make up artist Armani Beauty vediamo in giro nelle due settimane del festival?), e ovviamente le feste (Armani la più attesa, anche e vogliamo dirlo nonostante sia molto scorretto politicamente, per la selezione estetica degli ospiti, non si sa quanto naturale o guidata: ovunque fotograferete vi entreranno nell’immagine solo persone belle e meglio vestite) e l’accoglienza per gli ospiti: da anni, Cartier prenota l’intero hotel Gritti, ma anche Pianegonda affianca tutte le attività dell’hotel Excelsior fra premi e cocktail e tutte le maison, da Dior a Etro a Valentino e ovviamente il gruppo Prada, che a Venezia possiede anche la sede più sperimentale e spettacolare della sua Fondazione, Cà Corner della Regina, aprono atelier temporanei a disposizione degli stylist delle star, nell’obiettivo di vestire le più quotate sia sul red carpet sia ai press junket o a quanto ne rimane dopo che, come nella moda, riprese e interviste sono ormai privilegio di pochi e anche i tg si devono accontentare di interviste inviate via link dai publicist, una diminutio della professionalità e delle opportunità di lavoro anche e soprattutto per i giornalisti free lance che, infatti, si stanno ribellando al dirigismo dell’informazione cinematografica. Impossibile fare un calcolo preciso, ma in un ideale spettro economico, le sole attività collaterali e molto modaiole della Mostra del Cinema dovrebbero collocarsi fra i quindici e i venti milioni di euro. Non male, per una città della quale Carlo Goldoni irrideva le smanie delle sue concittadine per “le piavole de Franza”, le bambolone che arrivavano da Parigi abbigliate secondo l’ultima moda perché le botteghe locali potessero imitarle, e dove la Serenissima, qualche secolo prima, affermava che abbigliare adeguatamente una dama equivalesse ad armare una nave. Se volessimo prendere in considerazione la haute couture, è ancora così.

La pampa argentina e il potere segreto dei vestiti: incontro

Per qualche giorno dopo l’incontro con la regista argentina Laura Citarella, in una caldissima mattinata all’hotel Baglioni di Venezia e mentre il marito-e-collega Ezequiel Pierri, che ho scoperto essere prediletto da un’ampia rappresentanza di esperti ambosessi (“ma come non l’hai incontrato?), dormiva il sonno del giusto e del jet lag qualche piano sopra di noi, ho cercato di ricordare dove avessi già visto la bellissima immagine degli abiti appesi, o per meglio dire planati, su un grande albero della pampa, nella scena più evocativa del corto “El affaire Miu Miu” che è stato presentato qualche giorno fa alla Mostra del Cinema di Venezia. Che l’autrice di “Trenque Lauquen”, filmone di culto dell’edizione 2022 della Mostra, coronato da molti premi in giro per il mondo, venisse intercettata da Miuccia Prada per la serie di cortometraggi che coinvolgono le registe più interessanti a indagare sui temi della vanità e della femminilità nel XXI secolo era abbastanza prevedibile. Che il breve film ne ricalcasse in parte la storia, comprese le indagini attorno a una scomparsa che in questo caso è una modella, e usando in buona parte gli stessi personaggi e attori, lo era altrettanto.

Però c’era quell’immagine, un po’ “Miracolo a Milano”, un po’ disneyana, che non mi abbandonava, fino a quando finalmente mi sono ricordata dove l’avessi vista, e anche il senso delle parole di Citarella sul “valore simbolico, ma anche giocoso” del vestire si è chiarito. Pippi Calzelunghe, la bambina magica ideata da Astrid Lindgren, quella serie svedesissima che vedevo da piccola in televisione sognando, come tutte, di poter diventare forte e coraggiosa e libera come lei. Gli abiti volanti, dotati di poteri magici, appesi misteriosamente agli alberi arrivavano da lì, insieme con tutto il portato esoterico del vestire e che Citarella, che dubito abbia mai visto una sola puntata della serie anche per ragioni anagrafiche, è una neo-quarantenne e l’ultima puntata andò in onda nel 1969, sebbene sia stata replicata a lungo, ha colto perfettamente pur non essendo, per sua stessa ammissione, un’esperta di filosofia della moda e anche del vestire. Che per lei, come per le protagoniste del corto e che sono ancora la detective burbera, la veggente, la gente del paesino sperduto in quel panorama immenso, la moda sia “un alieno”, o che per meglio dire lo sia stato fino all’arrivo di quella modella fantastica per una serie di scatti, è evidente lungo tutti i ventisette minuti di girato: assistere alla loro progressiva presa di coscienza del valore identitario della moda è piuttosto divertente, e anche, per certi versi, commemorativo, un “come eravamo” della bellezza della moda in sé, che le dinamiche economico-finanziarie dalle quali questo settore è stato assorbito negli ultimi trent’anni ci hanno fatto dimenticare.

Vedere la detective mentre cambia progressivamente il proprio abbigliamento, acquisendo una nuova consapevolezza di sé, vedendosi ma anche percependosi diverse, equivale a un altro viaggio a ritroso nel sé più profondo, nel gusto del travestimento e soprattutto della trasformazione. C’è, nel corto per Miu Miu, una scena in cui le due stanze occupate dalla modella scomparsa appaiono perfettamente speculari: la prima disposta secondo un ordine maniacale, la seconda caratterizzata, o per meglio dire travolta, da una confusione assoluta. “La doppiezza della natura umana”, messa in scena attraverso gli oggetti che ci circondano e ci servono, nel senso proprio del termine: “L’acquisizione della coscienza di sé, come la conoscenza della moda, richiedono tempo, lentezza, introspezione”. Che questo processo avvenga nel territorio mapuche (sì, quello della vecchia polemica con Benetton, Trenque Lauquen significa laguna rotonda in lingua araucana) è molto credibile, bisogna davvero arrivare ai confini del mondo per non incontrare i soliti influencer wannabe e i sedicenti esperti di brand. “Il cinema consente degli incontri impossibili altrimenti, e la moda interpretazioni al di fuori della logica”, osserva Citarella davanti a un “necessarissimo mate”, pestato come si conviene nel recipiente apposito e che lei rabbocca continuamente con acqua calda presa da un thermos.

C’è una purezza, un senso del racconto nel cinema indipendente e in particolare di quello sudamericano degli ultimi anni davvero impossibile da ritrovare nelle grandi produzioni che, ammette Citarella, seguono regole (ed evidentemente subiscono pressioni) del tutto diverse, e con le quali qualunque regista è tenuto a scendere a patti, e al contempo spese e fissazioni assolutamente improponibili per un regista esterno al sistema degli studios: “Io sto molto attenta ai budget e anche a massimizzare l’uso delle risorse: l’uso dell’ultimo ritrovato della tecnica cinematografica per me è meno importante di una buona scrittura”. Il suo è un cinema in gran parte autofinanziato, se si escludono gli aiuti del governo, ovviamente difficili in questi anni di profonda crisi economica: “Trenque Lauquen” era una produzione sostenuta in parte dalla Germania, prodotta dal collettivo El Pampero Cine, che Citarella ha contribuito a formare e del quale fa parte anche il marito Ezequiel, familiarmente “Chicho”; firma, chiaramente, anche il corto per il gruppo prada. Come il nome rende evidente, Citarella è nipote di quegli immigrati, nel suo caso dalla Sicilia e dal Piemonte, che fra l’inizio e gli Anni Trenta del secolo scorso sbarcarono in Argentina e che oggi rappresentano oltre il cinquanta per cento della popolazione non nativa: nessun gruppo etnico è più numeroso nel Paese di quello nazionale, sebbene la regista abbia scoperto l’Italia solo negli ultimi anni, grazie a una serie di inviti di presentazione del suo ultimo film.

“A Palermo ho percepito delle vibrazioni e un senso di appartenenza davvero potenti”, racconta, al punto di aver scelto di ambientarvi il suo prossimo film, che prende spunto da racconti di famiglia e da una certa fascinazione per le storie di scrittura, e in particolare delle sorelle Bronte. Trenque Lauquen è, invece, “il mio luogo magico del verano”, dell’estate, il paese dove la nonna, oggi novantaquattrenne, cuciva abiti per le spose locali e che Laura bambina vedeva cucire dal mattino a tarda notte, senza sosta. Oggi, parte di quei gesti sono entrati a far parte del suo “incontro inatteso” con la moda, cioè con la vita al tempo stesso più intima e più evidente di ognuno di noi.

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