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Il Foglio della moda

I costumi a cui dobbiamo le mode di oggi (avvertenza: nessuno di questi è brandizzato)

Claudia Vanti

Cinema e moda incrociano i loro mondi dentro e fuori Venezia, realizzando abiti talmente iconici da rimanere impressi nell'immaginario collettivo anche decenni dopo l'uscita in sala. Continuando a far sognare, e ispirare, intere generazioni

Vorrei sedermi davanti a uno schermo e innamorarmi follemente di un abito bellissimo, indimenticabile come quello in raso verde trifoglio di Keira Knightley in “Espiazione”, la cui permanenza nella memoria collettiva è dovuta sicuramente anche a quel lampo di verde. Vorrei innamorarmene e non domandarmi chi ne sia lo stilista responsabile.
Oggi sembra che la rilevanza estetica di un costume, d’epoca o di immagine contemporanea, debba passare per forza attraverso le mani di un designer o la collaborazione con un brand: sapevamo tutto di J.W. Anderson e della partnership con Luca Guadagnino per “Queer”, ancora prima del debutto alla Mostra del Cinema, e immaginiamo i colori sbiancati dal sole messicano (in realtà ecuadoregno) del set, colori di indicibile raffinatezza, soprattutto addosso a Daniel Craig, del quale intanto abbiamo visto la campagna per Loewe del prossimo autunno-inverno. E prima c’era stato “Challengers”, ottimo volano per un tenniscore nell’aria già da un po’, come tutte le tendenze derivate dallo sport, che (lo spiega bene il libro “Fashion, Sport, Tourism” di Alessandro Tosi e Lorenzo Cantoni) è un tema intimamente connesso alla moda, ciclicamente e da tempo. Come si sa, il nome, lo stilista di richiamo dietro la realizzazione dei costumi è parte della strategia di comunicazione di un film, e diventa un fattore di promozione, tanto più se il pubblico di riferimento è potenzialmente sensibile al fashion buzz.

        


Non si tratta solo di questo, per fortuna, le collaborazioni tra cinema e moda spesso sono ottime, definiscono l’immagine di un periodo o creano visioni affascinanti e uniche. Due casi emblematici, e non solo per la storia del costume: Giorgio Armani per “American Gigolò”  e Jean Paul Gaultier con Peter Greenaway per “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante”, quasi dieci anni dopo. Il primo ha dato l’imprinting al guardaroba maschile di tutto il decennio a venire e oltre (nessun uomo, neppure il più informato e alla moda si vestiva così quando il film fu girato, nel 1979); il secondo ha integrato la sua passione bondage all’interno di veri e propri quadri allegorici e cromatici figli della tradizione pittorica e del “Satyricon” di Petronio, con risultati molto affini alle arti visive.


Cinema e moda si incontrano infinite volte, grazie al cielo non solo sui red carpet, e continueranno a farlo, ma tornando un attimo all’abito verde dei (miei e altrui) sogni, solo alla creatività della costumista Jacqueline Durran e non a uno stilista è dovuto l’equilibrio tra la linea anni Trenta e la contemporaneità dei trafori al laser lungo la scollatura, un equilibrio che ha reso quell’abito desiderabile ancora oggi. Il colore, che non è smeraldo come spesso è stato velocemente definito, ha una nota di giallo che aggiunge luminosità e leggerezza, un verde che da lì in poi, a vari livelli di intensità, è finito spesso sulle passerelle, e a pieno titolo come colore elegante. Un abito capace di ispirare dunque, come altri, come il bianco plissé di Marilyn Monroe o quello del tubino sexy di Sharon Stone (senza maniche e a collo alto, da candida dominatrice dal piglio manageriale), come i cheongsam di “In the mood for love”, capolavoro del Duemila, e il miniabito scollatissimo sulla schiena di lana fragola soffice di Nastassia Kinski in “Paris Texas”, responsabile forse della passione per l’angora e il mohair degli anni Ottanta. O anche, perché no?, come il cappottone in pelle nera (non bellissimo, a dire il vero) di Keanu Reeves/Neo in “Matrix”: fumettistico, con proporzioni rivedibili ma capace di imporsi, non proprio al livello della biker jacket di Marlon Brando, ma molto amato, non solo tra le subculture, e suscettibile di interpretazioni moda vagamente distopiche che arrivano fino ai maxi coat di Balenciaga.


In questi giorni di riposizionamento ai vertici di molte maison, circola insistentemente l’ipotesi di Sarah Burton alla guida di Givenchy, e con l’indiscrezione circolano immagini della sua collaborazione con Lee Alexander McQueen, e in particolare quelle della collezione autunno-inverno 1998, un omaggio dichiarato alla Rachael di “Blade Runner”: le idee dei costumisti Kaplan e Knode, tradotte in virtuosismo sartoriale, a distanza di anni, e forse in un prossimo futuro, sono state seminali, ispiranti, non le etichette di un brand per un ritorno di immagine a breve termine, ma per continuare ad alimentare la creatività. Quanto all’abito di raso verde trifoglio venduto all’asta per beneficenza a 46mila dollari nel 2008, mi spiace ammettere di non essere stata io la fortunata compratrice.

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