Rick Owens sfila a Venezia nel 2021. Sullo sfondo il Palazzo del Cinema

Il Foglio della moda

Io, Rick Owens, che sognavo Venezia a Porterville

Gianluca Cantaro

L’infanzia in California ad ascoltare Wagner e Puccini, le droghe, la scoperta della Laguna con Visconti e oggi una grande casa al Lido che si ispira al modernismo del palazzo del Cinema. Confronto con lo stilista

Nella Venezia di Rick Owens si entra in punta di piedi. Se gli show e i party del brand eponimo sono fantasmagorici, gironi danteschi popolati di freak, alieni, giganti e di esseri quasi mitologici, il designer è invece un tipo riservato. Se a prima vista può somigliare a Sauron del “Signore degli anelli”, inavvicinabile, crudele e slanciato grazie a una passione per i platform che gli fanno sfiorare i due metri e per i quali si ispira a Larry Legaspi, costumista di Grace Jones e dei Kiss - gli stivali con zeppa si chiamano appunto “Kiss boots”) in realtà e molto affabile.

“Durante gli anni del Covid”, racconta, “al Lido abbiamo tenuto quattro sfilate senza pubblico, diffondendole livestream: due sulla spiaggia, una al Tempio Votivo (scatenando le ire dell’opinione pubblica, seguirono immediate scuse, ndr) e una sulla grande piazza del Casinò”. “Il Tempio è uno dei miei edifici preferiti in assoluto. Quando in taxi, alla fine di una serata a Venezia, lo vedo lì sullo sfondo, illuminato, significa che sono quasi a casa. Il Casinò, poi, fa parte della mia vita quotidiana: quando ho ristrutturato il mio appartamento, a pochi isolati di distanza, il mio obiettivo era di farlo sentire come una parte di quell’edificio”.

È dal 2011 che ci passa le sue estati e nel 2016 ha comprato casa, ristrutturata con marmi, specchi e cemento, con vista a 360 gradi sull’Adriatico, a pochi passi dal leggendario Hotel Excelsior epicentro di mondanità per una decina di giorni all'anno, ma lontano dalle fiumane di corpi stranieri che ogni giorno popolano la città, punteggiate da pochi residenti insofferenti. “Si trova a soli dieci minuti dal Canal Grande, ma è un mondo a parte”, spiega. “Ha la semplicità e la serenità di un piccolo villaggio ignorato dalle moltitudini che affollano Piazza San Marco. È perfetto per ritirarsi dopo aver visitato il futurismo degli spazi d'arte contemporanea nella densità antica di Venezia. Mi ricorda la cittadina in cui sono cresciuto”.

E dove è anche nato, nel 1961: è Porterville, California, cittadina circa 53mila abitanti ai piedi della Sierra Nevada e, come molti della provincia americana, di quelle dove non si può essere diversi. Dove i precetti della religione cattolica sono soffocanti ma vuoti, perché magari in famiglia, come nella sua, si prega ma si collezionano anche armi da fuoco. Al Lido di Venezia, Owens ha dato un senso diverso alla sincerità di un luogo immerso in una placenta dalla consistenza completamente differente. A Venezia, anche se non vuoi, la cultura, la bellezza e le emozioni ti sbattono in faccia senza chiedere il permesso. Ed è qui che puoi capire, vedere e forse finalmente vivere il senso di un’infanzia singolare, per la comunità in cui vivi: niente televisione fino a sedici anni, intere giornate trascorse a conoscere Richard Wagner, Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi e a leggere Marcel Proust, stimolano infatti, e modellano, la già spiccata sensibilità del piccolo Richard Saturnino Owens, questo il suo nome all’anagrafe.

“Ogni giorno, mio padre dedicava un’ora al tè, accompagnando il rito con musica classica e incenso. Ricordo l’impressione che mi fece la "Madama Butterfly": il dramma del tradimento, dell'altruismo, della trascendenza nella morte mi colpirono profondamente. Anche il "Nessun Dorma" mi ha commosso con il suo glorioso struggimento. La mia giovinezza è stata riempita, arricchita dalle vicende di Violetta, Norma, Aida, fatte di desiderio, sacrificio, estasi e morte che credo abbiano finito per formarmi. Gravitare verso la cultura che produceva questo tipo di emozione è stato il mio destino. Parlando di cinema poi, i film di Fellini, Bertolucci, Pasolini avevano tutti un'atmosfera cruda e grintosa che sembrava molto più vera di altri film che guardavo quando iniziavo ad avere coscienza della direzione che volevo prendere nella vita, e credo che anche loro mi abbiano aiutato a decidere. Mi dispiace di essere così banale, ma la Sinfonia n. 5 di Mahler che accompagna “Morte a Venezia” di Visconti, rappresenta la mia prima impressione della città, vissuta durante l'adolescenza in un cinema della California. In quel momento non avrei mai potuto immaginare di poterci andare. Sembrava impossibile perfino sognarlo”.

Al contrario di molti colleghi del suo calibro, che avrebbero scelto residenze da doge sul Canal Grande o in zona San Marco, diventando un tassello del mosaico da cartolina, identificandosi nei cliché di ostentazione del potere economico più ovvio ed ergendo la propria torre d’avorio al centro dei flussi di massa, Rick Owens si è sistemato ai margini della baraonda su quell'isola oblunga, che dista pochi chilometri, sempre sonnacchiosa tranne quando si alza il sipario sulla Mostra del Cinema. Il volto e gli occhi di Owens sono vividi di un passato fatto di esperienze estreme, che si ritrovano anche nella sua moda. Come dichiarò tempo fa al “New York Times”, smise di bere e di assumere droghe pesanti a quarant’anni e oggi ripensa ai tempi di quello che definisce un “suicidio temporaneo”, senza nessun rimorso o rimpianto perché in quel buio, osserva, ha spesso trovato esplosioni di bellezza che si sono trasformate in abiti.

Sono indimenticabili le immagini di un’intervista di MTV Club del 1988 dove, ventisettenne, presenta le sue primissime creazioni mostrando un'attitudine sicura di sé e un po' incosciente. Era stato segnalato alla produzione dalla sua futura moglie, Michèle Lamy, figura di spicco della Los Angeles dell’epoca, dove realizzava una linea di abiti in jersey diffusa con il suo cognome. Owens era arrivato a L.A. per studiare all'Otis College of Art and Design, l’incontro con Lamy fu determinante; nel 1990 iniziò a lavorare per lei come modellista; impiegarono due anni per conoscersi, e il processo funzionò talmente bene che Michèle lasciò il marito per fare coppia con lui. Nel 1994 lanciarono la linea di Rick a Los Angeles e nel 2003 si trasferirono a Parigi, per restarci. Ora è una fashion star e tra le sue residenze c'è anche quella in laguna, anche se, dice, “ho sempre evitato il Carnevale e il Festival del Cinema, c'è un'intensità artificiale e frastornante che mi piaceva quando ero più giovane, ma ora non fa per me. Prediligo il lato più tranquillo e malinconico di Venezia”. Un mondo sempre più artificiale, plasticoso, che non lo seduce particolarmente: "Non ho mai inseguito la visibilità attraverso le celebrities, ma devo ammettere che ne abbiamo certamente beneficiato. Come piccolo marchio indipendente, non regaliamo vestiti né paghiamo qualcuno perché li indossi, ma devo ammettere che l'attenzione che si ottiene in questo modo è impressionante".

Non c'è celebrity che non abbia calcato un red carpet in Rick Owens, da Zendaya a Billie Eilish, da Kim Kardashian a Timothée Chalamet. Ma nessuno vede gli Owens su quegli stessi tappeti rossi: li immagino visitare le calli deserte di notte, aggirarsi come ombre curiose e divertite in quei luoghi che di giorno sono presi d'assalto da una babele barbarica spesso irrispettosa della magia e della storia delle pietre che calpestano. Venezia è un posto da sogno che diventa ancora più onirico quando sei sveglio e ti inoltri ne “le spire di questa città d’Oriente” come scriveva Proust. Ma è meglio farlo quando non c’è nessuno. Venezia ti rimane dentro anche se non te ne accorgi, come la moda di Owens che se da un lato è estrema, dirompente, aliena, dall’altro è profondamente radicata nel passato e nella tradizione: non è per caso che, nelle ultime stagioni, sia fra gli stilisti più imitati dagli studenti. “Credo che l’antico rappresenti sempre il nuovo moderno. C'è così tanta bellezza in quello che è stato che le attuali generazioni non ne sono nemmeno consapevoli. Si potrebbe addirittura ricominciare a vestire ripartendo dagli inizi della storia dell'estetica per godere in egual modo della sensazione di novità che ne deriverebbe” osserva. Attraverso il suo filtro, sicuramente: “C’è un'opulenza densa e patinata nel classicismo italiano che, da americano schietto, sento di voler assorbire, condensare, distillare e interpretare con il mio linguaggio molto essenziale. L'obiettivo è sempre stato quello di trascinare un po' di fantasia radicale nella vita di tutti i giorni, che quindi finisce sempre per sembrare un po' aliena”. Come la sfilata dello scorso giugno, al Palais de Tokyo a Parigi.

Se le due presentazioni precedenti si erano svolte a casa sua per una parentesi più intima, (si intitolavano, appunto "Porterville", come la cittadina dalla quale è fuggito), ha chiamato quest’ultima "Hollywood" per celebrale il luogo di approdo dove ha incontrato molti dei personaggi più strani passati nella sua vita. Uno spettacolo composto da undici gruppi di venti modelli di ogni taglia, sesso ed etnia che scendevano dalle maestose scalinate di Avenue du President Wilson e che oltre ai richiami dichiarati ai kolossal biblici, mescolati a contaminazioni Art Déco, mi hanno riportato immediatamente alle rappresentazioni più sensazionali della “marcia trionfale” dell’Aida, germinate dalla sua formazione. Anche la palette, fatta di nuance chiare che ricordano i dipinti di John Ruskin, scrittore e pittore con un forte legame con la città, dove trascorreva intere stagioni nella sua camera della Pensione Calcina, alle Zattere. La teatralità dei gruppi rimandava anche alle folle nelle quali ci si immerge in Piazza San Marco durante i giorni del Carnevale, mentre i drappeggi, silhouette e costruzioni facevano pensare alla maestria di Mariano Fortuny y Madrazo, veneziano d'adozione. “Ho studiato il suo modernismo nella biblioteca pubblica di Porterville”, ricorda: “Credo di aver copiato quel mix di moderno e antico che doveva essere altrettanto radicale come fu il punk rock a suo tempo.

L'influenza di Fortuny rimane una delle pietre miliari della mia estetica: qualche anno fa ho potuto ricolorare alcune delle stampe originali e applicarle ai miei tessuti in collaborazione con il museo Fortuny”. Ma non solo, Owens è un esploratore della moda, un Marco Polo dell’estetica che si avventura dove altri non osano. Quando gli chiedo se sbaglio o se certi costumi tradizionali della laguna ricordano le sue silhouettes, risponde ironico: “Quando vedo alcuni abiti nei dipinti dell'Accademia, sento il bisogno di diventare più sontuoso”. Anche se nato a migliaia di chilometri di distanza, ha inaspettatamente molti tratti da veneziano. L'intraprendenza di Goldoni che ha innovato il teatro mantenendo la tradizione, con un forte realismo improntato sull’osservazione della società e attraversato da una vena ironica. La malinconia di Thomas Mann che, in "Morte a Venezia", ne coglie la bellezza della sua decadenza, la sua eleganza e il senso di impermanenza dato dalla tensione tra bellezza e morte e che Owens ripropone nel suo lessico a volte disturbante. “È proprio la patina di questa storia leggendaria che la carica di una forte gravitas sotto la sua deliziosa delicatezza”, conclude. “È il luogo più improbabile e impraticabile che esista. Apparentemente fragile, ma duraturo ed eterno”. Quanto di più vero, che lo dica Rick Owens o chiunque altro.

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