Moda
Il lusso è in crisi. E c'entra qualcosa Donald Trump
Non c'è solo lo sboom dell'economia cinese a danneggiare la nostra produzione di moda (i profumi no, vanno benissimo). Ogni quattro anni, le incertezze delle elezioni americane frenano il mercato. Si spera nel 2025. E chi può, compra aziende. Chiacchiere a bordo passerella alla Milano Fashion Week
Max Mara
Roberto Cavalli
Prada
“Oltre ai fattori noti, fra i quali la minore capacità di spesa della classe media, e due guerre in corso, le incertezze congiunturali che stanno frenando i consumi dei beni di lusso non riguardano solo la Cina lo scoppio della bolla immobiliare, i cui effetti si stanno sentendo ancora oggi, ma la campagna elettorale in corso negli Stati Uniti: ciclicamente, nel caso di Washington ogni quattro anni, la moda risente negativamente delle elezioni americane: il mercato ha bisogno di stabilità di certezze, di sapere se i tassi scenderanno o se verranno aumentati i dazi, per inciso entrambi argomenti divisivi nella campagna in corso. Paradossalmente, sarebbe meglio essere certi dell’elezione di Trump che dover attendere ancora mesi per avere una direttiva chiara”, dice il presidente della Camera Nazionale della Moda, Carlo Capasa, in attesa della, bellissima, collezione di Max Mara, presentata in via Piranesi, allo storico Palazzo del Ghiaccio, nel corso di una settimana della moda ricca, o sarebbe meglio dire povera, di molte incognite.
Mentre le auto blu continuano a sfrecciare a centinaia per le vie di Milano, trasportando da una sfilata all’altra editor internazionali disperatamente ancorati al cocktail e alle scaramucce per il posto in prima fila, il timore che la crisi in corso sia il segnale di un cambiamento strutturale nei consumi, quel 4 per cento di fatturato in meno nel primo semestre che avrebbe dovuto essere compensato dalle vendite del secondo semestre e invece peggio, serpeggia fra le battute a bordo passerella, il bacio-bacio-good-to-see-you perché poi il problema è sempre quello, esserci ancora, tutti insieme, con i pochi influencer rimasti che vanno spacciandosi per content creator nel tentativo disperato di sopravvivere e che invece, del tutto privi dei fondamentali, tendono a fare il copia-incolla dei comunicati, benché a mezzo social. Le prospettive analizzate e diramate dalle grandi società di analisi non sono pessime, tutt’altro: Bain dichiarava pochi mesi fa, in una delle sue molteplici ricerche per Altagamma, che nel giro di un lustro, i ricchi mondiali cresceranno di altre centomila unità, da 400 a 500mila, che presumibilmente avranno voglia di dimostrarlo e che il modo più facile per farlo sia di sfoggiare borse Chanel e scarpe Loubutin, e poche ore fa Deloitte ha fatto sapere che, sulla base delle sue ricerche, nonostante il rallentamento dell’economia cinese, l’83 per cento degli operatori finanziari continuerà a investire nel mercato del lusso.
Il dato sarebbe suffragato dal boom delle operazioni di m&a nel settore, con 358 accordi registrati nel 2023 a livello globale, pari al 66 in più rispetto all’anno precedente. Marco Bizzarri, ex ceo di Gucci e nuovo partner di Elisabetta Franchi che sta promuovendo e riposizionando come solo a lui riesce di fare, sottolinea appunto che proprio questo sia il momento di investire. Ma siamo sicuri che i nuovi big spender, in Africa o nel sud est asiatico come la Thailandia dove, per esempio, l’amica Andreina Longhi, grande comunicatrice, sta aprendo un nuovo ufficio dopo quello di Hong Kong, vorranno destinare i loro denari in eccesso a moda e accessori e non, come par di capire da altre analisi, a viaggi, benessere, bellezza? Il mercato dei profumi, e Cosmetica Italia può confermarlo, è cresciuto a doppia cifra, ma in un mercato mondiale evoluto e consapevole come quello attuale, non è più certo, come era un tempo, che il consumo di fragranze di lusso sia compensatorio: mi è capitato di recente di salire su un taxi romano il cui guidatore mi ha intrattenuta dal centro a Fiumicino con un grande competenza sulla sua passione per “er profumo de nicchia” (“nicchia” è un sostantivo che ultimamente va fortissimo).
“Non voglio nemmeno pensare che si tratti di una crisi strutturale”, osservava poche ore fa Stefano Sassi, già amministratore delegato di Valentino e ora consulente, alla sfilata di Fiorucci, la prima di una lunga storia interrotta bruscamente dalla scomparsa del fondatore e ora in via di rivitalizzazione a cura della famiglia Bertarelli, a giudicare dal risultato senza idee troppo chiare o la memoria fresca sugli aspetti strategici che guidarono l’ascesa del marchio negli Anni Settanta e Ottanta, e che parlavano di arte e inclusione quando nessuno conosceva nemmeno il significato della parola (ergo: perché una banale sfilata quando un gran festone con ampio uso di artisti giovani sarebbe stata una scelta più adatta e adeguata all’idea di community che Elio Fiorucci aveva della moda?). A metà di questa kermesse milanese, registrate almeno tre belle collezioni come N21, Moschino e Max Mara e opportunamente mandata a memoria quella, unica come sempre, di Prada, data ormai per persa Burberry (London Fashion Week), entrata nel cuore la collezione di Cavalli per l’uso fascinoso dei tessuti poveri e per il ricordo ad alto tasso glamour di Roberto Cavalli (vedere Alek Wek con l’abito di penne bordeaux indossato quasi vent’anni fa e Karen Elson in paillettes d’oro tigrate è stata un’emozione, mi sono sentita riportare di colpo ad anni molto trascorsi e a una moda che era divertente), apprezzato lo sforzo di concretezza di Marco De Vincenzo per Etro, collezione molto amata dai grandi buyer, mi domando chi potrà permettersi tutte queste novità, o queste rivisitazioni che in discreta parte sono: l’improvvido paragone che Vogue Italia ha fatto delle collezioni estate 2004 in un suo articolo celebrativo ha messo infatti migliaia di persone, e soprattutto i millennial, di fronte all’evidenza di quella che era la moda due decenni fa, e di quanto fosse divertente, libera, meno schiacciata dalle dinamiche della crescita forsennata che significa, inevitabilmente, appiattimento, e meno legata a dinamiche di rapporto fra qualità e prezzo che sono poi all’origine della grande tendenza al cosiddetto “lusso quieto”.
Per dirla senza mezzi termini, chi spende 5mila euro per un golf di cashmere, vedi le fantastiche creazioni di Cucinelli che per la prossima stagione ha introdotto nella sua classica palette un rosso ricco ma non squillante che ricorda le casule dei papi ritratti da Tiziano, non vuole indossarlo per una sola stagione, ma nemmeno vuole comprare un suo sub-succedaneo da Shein perché sì, la campagna contro il fast fashion inquinante sta iniziando davvero a funzionare, e non è un caso che Zara stia riposizionandosi verso l’alto e producendo sempre di più in Europa. All’attuale crisi, il mercato del lusso ha risposto quasi uniformemente alzando i prezzi, e assottigliando dunque il bacino dei potenziali clienti. Ma, e qui entra in gioco un altro dei fattori deterrenti al consumo di beni di lusso, chi potrà permettersi anche solo un accessorio, o un paio di scarpe, vorrà farlo per un pezzo eccezionale, di grande qualità e, soprattutto, contenuto creativo: dice sempre Bizzarri che la vera creatività trova sempre un mercato, e il caso di Loewe potrebbe confermarlo.
Però, prendete Gucci: il punto di rosso scelto da Sabato De Sarno come "firma" e simbolo delle sue collezioni, si trova riprodotto malamente ormai in qualunque mercatino, e continua a percolare in infinite collezioni, insieme con le scarpe con la catenella sul tallone, i cappotti striati di canuttiglie e paillettes: eppure, il suo messaggio stenta ancora ad essere compreso. E poi. Quanti brand hanno, adesso, la forza di scommettere sul nuovo, sia dal punto di vista della progettualità sia da quello dei manager e dei direttori creativi scelti per realizzarlo? A capo di Givenchy, non dimentichiamolo, è stata chiamata Sarah Burton, una donna con trent’anni di esperienza e una visione ben precisa e codificata: quella del suo mentore, Lee Alexander McQueen, che moltissimi anni fa, prima del lancio del suo brand, della depressione, del suicidio, guidò proprio la maison francese nel dopo-Hubert de Givenchy. La differenza fra i due momenti è che, quando Bernard Arnault lo ingaggiò, McQueen era attorno ai trent’anni, e chi lo sostituisce ne ha più di cinquanta.
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