Prada, Gucci e strategie anti-crisi

Giunti quasi al termine della tornata di presentazioni e sfilate delle collezioni primavera-estate 2025 è chiaro a tutti che il sistema non possa e soprattutto non intenda fermarsi. Perché mai dire basta a un lavoro così divertente, dopotutto, e che tanto lustro ha dato ai paesi che possono fregiarsi di una posizione di vantaggio (Italia in primo luogo)?

Fabiana Giacomotti

Quanto pesa la crisi in corso nel sistema della moda sulla creatività? Giunti quasi al termine di questa tornata di presentazioni e sfilate delle collezioni primavera-estate 2025, quasi un mese di passerelle e cocktail da Kyiv a new York, Londra e Milano, e in attesa di Parigi e del suo debutto più discusso ed eccitante, quello di Alessandro Michele da Valentino, è chiaro a tutti che il sistema non possa e soprattutto non intenda fermarsi. Perché mai dire basta a un lavoro così divertente, dopotutto, e che tanto lustro ha dato ai paesi che possono fregiarsi di una posizione di vantaggio e l’Italia in primo luogo, a dispetto dei tanti fattori, congiunturali ma non solo, che gli giocano contro.

 

L’altro pomeriggio, in attesa della sfilata di Gucci che pure ha segnato un deciso passo in avanti rispetto alle precedenti collezioni, apparendo più chiara, più focalizzata, meno vittima della pur comprensibile ansia del direttore creativo Sabato De Sarno di fare bene in una fase così difficile della storia dell’occidente, osservavo dalla parte dei fortunati provvisti di invito e di una seduta non lontanissima da quella dell’ospite d’onore Jannick Sinner la folla di ragazzini al di là delle transenne montate fuori dalla Triennale, tutti piazzati dalle otto del mattino con la macchina fotografica nella speranza di cogliere uno sguardo (a un certo punto ho sentito una adolescente gridare “mi basta vedere la sua mano che saluta”) di Jin, leader della band del K-pop BTS, e di primo acchito ho pensato che se solo la metà di quella folla, duemila persone minimo, fosse entrata nelle prossime settimane nella boutique Gucci di via Montenapoleone per un solo piccolo acquisto, quello spazio oggi affollato di turisti e di signore ossessionate dalla borsa Bamboo nelle sue molte versioni (di cui le nuove, in pezzo unico e firmate da dieci artisti internazionali per celebrare la ricorrenza del lancio in Giappone, sono oggettivamente dei capolavori) avrebbe chiuso il budget dell’anno.

 

Ma il problema è che, rispetto agli anni di Tom Ford nei quali mia figlia comprava da Gucci la sua prima cintura griffata, sommando i risparmi delle paghette e delle campagne pubblicitarie per le quali posava prima di diventare pubblicitaria lei stessa, l’entry price di Gucci, come quello di Prada, per non dire Loro Piana e Brunello Cucinelli che però si rivolgono a un target decisamente più maturo e benestante, è schizzato verso l’alto a tal punto da rendere pressoché impossibile un accesso alla marca che non sia quello collaterale degli occhiali e dei profumi, e ancora, visto che alcune fragranze superano i duecento euro di costo.

 

L’attuale passione dei giovani per il vintage non si spiega solo con la volontà di distinguersi rispetto alla generazione precedente, omologatissima e nemmeno, per certi versi, con il lodevole desiderio di difendere il pianeta consumando di meno e riutilizzando quello che, in un secolo e mezzo di industrializzazione forsennata, abbiamo prodotto di necessario e di superfluo. Vogliono solo sfoggiare una griffe senza pagare il prezzo di un capo di stagione; che questa scelta li faccia apparire più cool, sofisticati e intelligenti, ancora meglio, ma la motivazione principale dell’attuale fiorire di negozi vintage di altissima qualità è puramente economica. Il desiderio del brand è ancora piuttosto vivo, dell’universo che gli ruota attorno è addirittura elevatissimo, ma manca la disponibilità, dei giovani ma anche generale, di approcciare questi brand. Rispetto a solo un decennio fa, la moda delle grandi campagne pubblicitarie classiche e social si è fatta lontanissima, siderale, da cui, all’opposto, la crescita di brand del fast fashion che hanno saputo prevedere i cambiamenti sociali in corso e adeguarsi anche alle dinamiche del reshoring e, come Zara, tornare in Europa a produrre moda interessante, oppure offrire un pronto moda di qualità, vedi brand come Antonello Serio o Susy Mix, che le boutique ormai mescolano alle grandi griffe senza essere costrette a grossi ordini, cioè a magazzini ormai non smaltibili, viste le nuove direttive europee.

 

Continuiamo a produrre, ma consumiamo molto di meno, come risulta evidente dagli ultimi dati di fatturato a livello mondiale e in attesa di un fantomatico aumento di nuovi ricchi entro i prossimi anni, nell’ordine addirittura delle centomila unità. Nel frattempo, c’è molto di tutto, troppo, e si ha come l’impressione, per non dire la certezza, che qualche sfilata venga allestita per presentare borse e scarpe e che, a dispetto della bravura dei designer, non verrà mai prodotta. Qualcuno, a bordo passerella, mi raccontava che il nuovo grande fenomeno dei paesi medio-orientali, grandi clienti del lusso, siano gli outlet, fino ad oggi modalità di vendita, o per meglio dire di svendita, del tutto sconosciuta in terre per le quali, un tempo, Miuccia Prada disegnava collezioni di caftani ad hoc. E a proposito.

 

Le reazioni dei creativi a questa situazione o, per meglio dire, a questa pressione continua e apparentemente senza via d’uscita – da una parte i conglomerati che spingono per aumentare il fatturato e soddisfare analisti e investitori e che hanno risposto al calo delle vendite aumentando i prezzi, dall’altra un mondo che spende sempre di meno e non necessariamente in vestiti perché la congiuntura e le guerre e la crisi immobiliare in Cina in queste dinamiche c’entrano fino a un certo punto - si può leggere in controluce proprio nelle collezioni Prada e Gucci appena presentate. “Un mattone alla volta, ci vuole tempo per costruire il cambiamento”, mi diceva poche ore fa Francesca Ballettini, deputy ceo del gruppo Kering, ospite alla sfilata Ferrari, commentando appunto la collezione di Gucci con quelle belle borse rivisitate e un secchiello Anni Settanta che credevamo di avere dimenticato, le mules con i plateau in plexiglas, il mocassino horsebit trasformato in stivale e una favolosa serie di cappotti, da quelli a trapezio in ricordo della “casual grandeur” dell’epoca kennediana a cui era dedicata la sfilata a quelli lunghi e striscianti come manti regali, sommamente non pratici ma di grande impatto soprattutto per il loro costruttore, che si definisce, ed è “nato come modellista”.

 

Ma quanto, a questo cambiamento, gioverebbe un direttore creativo libero anche di sbagliare, com’era negli anni in cui nessuno esigeva la crescita a doppia cifra, e gli obiettivi non erano di sfondare la soglia dell’uno, due, cinque miliardi di euro, strategia che rende difficilissimo calibrare le proposte nel lusso? Per questo, e sebbene l’effetto complessivo della collezione fosse molto, in realtà fin troppo eclettico, aveva profondo senso, per questi tempi, la collezione di Miuccia Prada e Raf Simons che, ben oltre l’evidenza, facile e immediata, che si trattasse di una collezione di archivio rivisitata, offriva piuttosto l’idea di una selezione di ipertesti: ho rivisto un paio di decolletées a tripla suola che possiedo dal 2005 e che non avevo più il coraggio di indossare e mi sono sentita molto confortata, una pelliccetta stampata maculata che mi piace tuttora, mescolata a interessanti novità, o per meglio dire a rivisitazioni contemporanee di quelle che Pierre Cardin e Paco Rabanne avrebbero definito tali sessant’anni fa, e mi sono sentita un po’ più giovane.

 

Dice Miuccia Prada che nulla di bello va buttato, che tutto può tornare utile, e che in questo momento storico, dominato dagli algoritmi che intercettano i nostri gusti e continuano a proporci le stesse cose, confermandoci al contempo nelle nostre opinioni, la ribellione sia necessaria, e che insomma costruire il nostro percorso fra vecchio e nuovo sia necessario. Ma lei è sostenuta da un immaginario, una posizione (anche rendita di), una fama che le consentono di sbizzarrirsi come meglio crede e di fare tendenza anche con un finto-vintage. Per molti, moltissimi altri, non ultimo Adrian Appiolaza di Moschino, il confronto con un’eredità pesante a un presente molto incerto è decisamente più ardua. E per questo, vorrei chiedere per tutti un po’ di tempo, di grazia, di rispetto, di network. In fondo, rischiamo tutti qualcosa.  

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