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Il foglio della moda

La prima sfilata di Valentino made by Alessandro Michele, dove interpreta se stesso

Fabiana Giacomotti

In quello spazio parigino anonimo, allestito di mobili velati e di un pavimento di specchio frantumato, gli abiti della storia di Valentino selezionati dal nuovo direttore creativo sono riapparsi come revenant: il fantasma dei vestiti passati 

"Beh, ma lui è lui", chiosavano l'altra sera, alla "Cena della gratitudine" organizzata da Brunello Cucinelli alla Borsa di Milano, imprenditori e grandi manager della moda, in linea con i media nazionali e internazionali che, assistendo a Parigi alla prima sfilata di Valentino firmata da Alessandro Michele e non sapendo che cosa dire di nuovo o di garbato, hanno usato la formula cerchiobottista resa celebre da Tippete in "Bambi": If you can't say something nice, don't say nothing at all. Se non hai niente di carino da dire, non dire niente.
 

Ovviamente Michele interpreta se stesso, chi altri dovrebbe interpretare, e peraltro bisogna riconoscere che la sua moda è sempre stata più ispirata all'estetica di Valentino, ricca e immaginifica e glamorous, che a quella di Gucci, più lineare o, per dirla con due termini molto di moda al momento, demure e mindful. E invece, e nonostante la passione dichiarata di Michele per il "signor Valentino" e la sua "presenza" che dichiara a ogni momento di sentir aleggiare nell'aria pur avendolo incontrato solo una volta, anni fa, dunque senza aver mai sentito il bisogno di rinnovare la conoscenza, in questa sfilata compariva la summa ragionata dell'archivio del maestro: le ruches, i fiocchi, i pois, e le pagode ricamate che tutti noi curatori, in un momento o nell'altro, abbiamo esposto in qualche mostra e il Met prima di tutti, e ancora i bordi di pelliccia (ora finta, ça va sans dire), i grandi cappelli di paglia e le velette e i davantini di piquet di Catherine Deneuve in "Belle de Jour" (che in realtà sarebbero molto Saint Laurent).
 

Tutto c'era, con grande rispetto e anche bellezza di manifattura, ma nulla di quella collazione di topoi valentineschi, talvolta copiati senza una sola modifica come qualcuno online si è divertito a sottolineare con prova documentale, sprigionava il glamour e la leggerezza e la voglia di ridere che per decenni hanno vestito i grandi interpreti di quello che si definiva il jet set internazionale ma che piaceva anche alle nostre madri milanesi colte, alto-borghesi e desiderose di sentirsi sexy anche a cinquanta e sessant'anni, che era un po' il segreto di tutte quelle ruches e di quelle arricciature sul bustino, che al tempo stesso comprimevano ed esaltavano. E invece, in quello spazio parigino anonimo, allestito di mobili velati e di un pavimento di specchio frantumato, il craquelé di Alfredo Pirri che da anni vediamo in mostra e nel 2020 anche al Maxxi, gli abiti della storia di Valentino sono riapparsi come revenant, come il fantasma dei Natali passati di Dickens, the ghost of clothes past, in un effetto che lo styling goticheggiante, prediletto da Michele, e il capovolgimento semantico (da "morire" a "gioire") della celebre passacaglia di accompagnamento funebre di Stefano Landi, rendevano inquietante e sinistro come una colonna sonora di Dario Argento.
 

Comunque, mentre noi esegeti della moda discutevamo con accanimento della sfilata, taluni anche prendendosela via Instagram con i commenti dei propri follower, in percentuale elevata negativi, è chiaro che oltre alla visione di Michele della moda, in realtà mai mutata dai tempi in cui veniva sostenuta da una narrativa sull'inclusione e il genere che ne hanno decretato il successo e che è ormai irrimediabilmente tramontata, adesso le ruches e i davantini andranno venduti. E qui resta da vedere se la sua community, trasferita di peso da Gucci, testimonial compresi, in genere "alternativa" come si diceva nei Settanta ma con un budget di spesa limitato, sarà in grado di sostituire la cliente-tipo di Valentino. Quelle storiche, o le loro eredi, hanno il guardaroba che trabocca di quelle gonne e di quelle cappe, forse non e per fortuna di quelle décolletées di vernice con i nastri alla caviglia e di quelle borsine al tempo stesso assertive e deliziose nelle quali vedo invece prepotente la mano del ceo di Valentino, Jacopo Venturini.
 

Ma resta da vedere se gli accessori, pur distribuiti in grande quantità, basteranno per coprire i costi del cambio di passo, o se il nuovo pubblico non si riverserà, come invece è probabile, nei negozi vintage. Io stessa, dopo aver visto la sfilata, ho rinunciato a cedere ad Alessandro Di Lorenzo, socio di Madame Pauline Vintage, boutique di riferimento delle milanesi e dello stesso Valentino, un abito di mia madre del 1973 che volevo vendere perché nemmeno mia figlia lo vuole, ritenendolo passé. È anche una questione di prezzo. Il turbante Anni Settanta di cui tutti hanno scritto, rigido come quello di un sikh, costa al pubblico millenovecento euro: una buyer che pure ama moltissimo l'estetica di Michele ne ha comprati un paio per "fare vetrina". Sa già che sarà difficile piazzarli.

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