Il foglio della moda
"Abbiamo bisogno di consiglieri finanziari, non di gente che tratta la moda come un iPhone"
Brenda Belleli Bizzi, co-fondatrice del salone White, ad alzo zero contro chi si lamenta della troppa omologazione creativa. È ora di fare scouting dei manager
Con quel nome di battesimo tra la via Emilia e Beverly Hills, a modo suo Brenda Bellei continua la tradizione di famiglia. Nata a Castelfranco Emilia, solidi studi in Economia a Bologna e "lo scriva, eh: nomade moderna per vocazione", può contare su un patrimonio genetico che molto ha a che fare con il concetto di "narrazione" così di moda oggi tra la gente di moda. I suoi genitori, ma soprattutto la zia, Dina Boldrini - prima donna a diventare "Trovatore dell'anno", nel 1973 – sono tra i decani dei cantastorie ambulanti, l'aristocrazia parlante dei portatori di notizie, fattacci e opinioni spiegati al colto e all'inclito con utilizzo di immagini ad hoc. Altro che PowerPoint. Tra l'altro, Dina, anticipando di cinquant'anni le lotte al patriarcato che fa così contemporaneità, componeva versi del tipo questi:
La donna in ogni epoca
è stata bistrattata
è l'uomo con dominio
da schiava l'ha trattata
l'ha usata come sposa
sia stata amante o sposa…
È per questo che ci è sembrato che sembra che Brenda potesse rappresentare l'interlocutore ideale per commentare la situazione da Titanic in cui versa il fashion system globale "che ha smesso da anni di fare ricerca e ora ne paga le conseguenze con la peggiore crisi mai sofferta, la tempesta perfetta per metterlo in difficoltà tra post-Covid, guerre, recessioni planetarie".
Nel Duemila, con lo sposo Massimiliano Brizzi (lo chiama per nome e cognome, mai "mio marito") ha fondato White, format fieristico milanese che pone l'attenzione sui talenti emergenti, invitandoli a partecipare per farli incontrare con i produttori italiani. Nel 2007, Belleli è diventata Ceo del Salone e l'anno successivo ha lanciato The White Club, associazione no profit che promuove i più interessanti stilisti internazionali con eventi dedicati a Milano. Da qui sono partiti marchi come Golden Goose, Kid Super, Bianca Saunders, Maurizio Miri, Faliero Sarti (che espone ancora qui), La Milanesa, che qualche settimana fa ha organizzato il suo primo evento sulla terrazza-piscina di Ceresio 7: lì abbiamo iniziato tutti a parlare della situazione attuale; lì, mentre una squadra di nuotatrici si esibiva in cuffie e costumi modello Esther Williams, abbiamo iniziato a parlare di questo articolo.
Arriva all'appuntamento in leggings neri di pelle stretch, blusa candida e una sorta di pareo corvino, orlato di volant: "Che pensa, lo ha disegnato uno stilista degli Emirati, lei lo avrebbe detto? No, vero? E invece sì, perché vado in giro tutto l'anno a scovare stilisti nuovi, che arrivano da territori lontani e ci regalano anche uno sguardo sulla loro cultura" (è vero. Due anni fa avemmo la ventura di incontrare i fashion designer Inuit che arrivarono con i meravigliosi intarsi di pelli e fantastici ricami realizzati con le unghie degli orsi cadute nelle tundre e sui ghiacci e raccolte una per una, ndr). A Brenda non manca la capacità di espositiva eloquenza: si lancerà in un monologo di cinquantasette minuti filati. L'incipit è una controffensiva al lagnoso cronista che si lamenta di aver visto troppe sfilate con capi troppo costosi e non troppo originali: "Ecco, lei ha veramente toccato un tema forte, che è quello dell'omologazione. Però non penso che si debba per forza dare addosso ai creativi che hanno esaurito la loro scorta di idee: esattamente come si fa scouting di designer freschi, competenti e appassionati, perché non si la stessa cosa con chi li sceglie e dice loro cosa fare, cioè i manager, gli amministratori delegati i grandi consiglieri finanziari che trattano la moda come se si trattasse di un prodotto qualsiasi, proprio perché di abiti e accessori, ma soprattutto di consumi relativi allo stile, non sanno praticamente nulla? La finanza ha distrutto la moda, nel voler raggiungere fatturati sempre più astronomici con le stesse collezioni per differenti mercati, imponendo quella che io chiamo l'estetica dell'iPhone". Cioè, scusi? "Un conto è vendere il medesimo telefonino a tutti, un conto è vendere moda. E a prezzi sempre più irraggiungibili. La colpa non è dell'economia, ma di chi guida le economie aziendali".
Quindi, invece di andare a caccia di nuovi talenti nella creatività, bisognerebbe istituire indagini sui nuovi talenti sì, ma nella finanza? "Certo. Se sapesse: io giro tutto il mondo per tutto l'anno e, nelle vie dello shopping, da quello più prestigioso a quello più facile, non solo vedo boutique semideserte, ma ci sono ovunque le stesse cose, in una confusione tra alto e basso, costoso ed economico, elitario e accessibile. E mi chiedo se non sia il caso di ridefinire non solo il concetto di lusso, ma l'intero sistema che ha portato a un appiattimento comune: e questi cambi di poltrone non fanno bene perché giustamente ogni direttore creativo porta con sé un proprio linguaggio, un proprio stile, per l'appunto, ma a forza di andare da una maison all'altra, poi tutto sembra essere simile, anche perché grandi nomi adesso firmano linee per la fast fashion: e oltretutto c'è un altro problema, sa qual è?".
Pendiamo dalle sue labbra, signora. "Il pubblico, anche acquirenti insospettabili per così dire, non conosce i grandi designer. Le persone si emozionano di fronte a un capo originale, ma non conoscono le strategie, gli equilibri, le dinamiche che hanno portato la proprietà di un marchio a voler un certo tipo di estetica. Ma del resto, chi compra non deve sapere questo genere di cose, ma emozionarsi per l'idea, la qualità, le sensazioni che un determinato oggetto può offrire in termini concreti ma anche emotivi. Invece, oggi la moda è senz'anima: un prodotto è un prodotto. E allora il cliente si chiede perché debba pagare una giacca cinquemila euro quando ne può trovare una simile, con un tessuto meno pregiato, a novanta. Perché il consumatore evoluto viaggia e quindi sa dove e cosa comprare e cerca qualcosa che ancora non trova nel suo armadio: e in questo una grande responsabilità l'hanno anche i retailer che, non volendo rischiare, comprano abiti che sembrano nati da una stessa matrice. Penso anche alla grande crisi degli shop online, che proprio perché non fanno abbastanza lavoro di analisi: dopo il grande boom durante il lockdown sono in enorme sofferenza".
Sì, ma sono in crisi anche le boutique fisiche, se lei dice di vederle vuote… "Non prendiamoci in giro. Il tabù del mercato parallelo, tipicamente italiano, dev'essere infranto una volta per tutte: la vendita all'ingrosso da parte di negozi multibrand di stock di merci griffate a retailer stranieri - soprattutto asiatici e in particolar modo cinesi - è un argomento su cui è stato imposto un silenzio corale. Fino a pochi anni fa, si trattava di un sistema diffuso, ma gestito in modo quasi indipendente dai singoli multibrand coinvolti. Oggi le cose sono cambiate radicalmente: è come se il fenomeno facesse parte della catena del prodotto. Questo accade perché essendo diventati cosi rilevanti i volumi d'affari generati dal parallelo e cruciali per il business delle case di moda, le stesse maison del lusso si sono attrezzate per gestirlo nel modo più proficuo". Lei parlava prima della necessità di ridefinire il concetto di lusso…"Che, mi creda, poco o niente ha a che vedere con il prezzo. Mi spiego: tanto sono convinta sia assurda la politica di far lievitare i costi di abiti e accessori delle grandi maison, tanto il fattore soldi non incide se si tratta di acquistare qualcosa di realmente nuovo. I soldi ci sono: ma non vengono più spesi nella moda, perché è diventata noiosa, prevedibile, troppo sicura. Il nuovo lusso sono le aziende che noi rappresentiamo al White, dice Massimiliano Bizzi". Cioè suo marito? "Esatto. Sono ditte medio-piccole, che magari non hanno mai potuto contare su grandi budget per farsi pubblicità e in alcuni casi sono nomi storici, in altri sono rappresentate da realtà giovani o lontane dagli epicentri della moda istituzionale che non hanno la possibilità di farsi notare".
Vabbè, ma i social aiutano… "Sta scherzando? Tra social media manager, testimonial, fotografi e il sempre più inquietante fenomeno, ormai in declino, degli influencer, per un'azienda è difficile e oneroso farsi puntare i riflettori addosso". Quindi, cara Brenda, anche la stampa ha le sue pesanti responsabilità… Si sistema gli occhiali da vista sul naso: "Io non l'ho detto. Ma se lo sostiene lei, faccia pure. Si ricordi solo che uscire dall'omologazione sarà il primo passo per intravvedere la luce in fondo al tunnel. E non la chiami 'crisi' della moda. La chiami 'cambiamento'. Meglio".
Alla Scala