Un'immagine della sfilata di Carven, nome storico del pret-à-porter francese, rilanciato negli anni scorsi (foto Ansa)  

Il foglio della moda - i vanti della moda

La visibilità, miraggio di troppe collezioni che vanno in passerella e non verranno mai prodotte 

Claudia Vanti

Per il settore della moda il 2025 sarà un anno molto difficile. Le strategie di contenimento del problema sono abbastanza confuse. Purtroppo l'unica strategia anticrisi efficace, almeno nel medio termine, sarà un inevitabile selezione darwiniana: sopravvivrà il più forte

Il 2025 sarà un anno molto difficile, e se avessimo bisogno di conferme l’economista Carlo Cottarelli avverte che “in caso di turbolenze [economiche] l'Italia può finire sotto attacco”. Ma non c’è solo l’Italia, gli scenari mondiali non inducono certo all’ottimismo, e questo mentre nella moda siamo esposti a un eccesso di prodotti per i quali non ci sono domanda e spazio sufficienti.

Le strategie di contenimento sono varie e, spiace constatarlo, abbastanza confuse. Per di più, seguono di appena un paio d'anni il rialzo dei prezzi, che il riposizionamento e l’apparente del desiderio nel settore luxury seguito alla pandemia sembrava aver giustificato ma che attualmente appare come l’idea meno brillante possibile.

“Che fare”? Avrebbe detto Lenin, ma non sarebbe stato il solo. Re-editing di capi storici? Non è una novità, e l'appello agli archivi è ormai piuttosto stucchevole. Promuovere il nuovo classico, ancora? Il quiet luxury ha reso i capi indistinguibili e quindi non proprio irrinunciabili. Fidelizzare i clienti con prodotti accessibili? L'entry level delle t-shirt e della piccola pelletteria ha alimentato i fatturati ma ora rischia pericolosamente di sconfinare nel gadget. 

In tempi di crisi, solo pochi accessori ricoprono il ruolo di investimento e, visto che alcune borse costano come l'affitto annuale di un garage in centro città, devono garantire lo status di oggetto di valore, duraturo e trasmissibile. Lo stesso vale per i gioielli, un segmento nel quale brand molto ambiti hanno trovato una nuova linfa identitaria e una nuova via commerciale.

Da tutto questo, gli abiti nuovi da appendere nell'armadio sono esclusi. Non è che non se ne vendano più, perché clienti (pochi) disposti ad acquistarne ci sono, ma è evidente la sproporzione tra la tipologia di capi proposta e ciò che ci si può permettere, sia economicamente sia per occasioni d'uso.

Malgrado questo, però, designer e brand continuano ad avere voglia di esprimersi con collezioni che offrano una visibilità immediata, e il total look dà loro la possibilità di partecipare al rito collettivo delle sfilate, che tra main e precoll. occupa più di quattro mesi in calendario, a beneficio di una comunicazione pressoché infinita. È ancora la visibilità, il miraggio alla base di tanti rilanci di marchi storici, rinnovati con la prospettiva di capitalizzare poi con borse e affini, e che negli anni ha visto susseguirsi progetti mai del tutto decollati attorno a nomi evocativi come Carven, Patou, Vionnet e Nina Ricci: per una Schiaparelli che si consolida nell’immaginario collettivo, altri, tutt’al più, mantengono solo una finestra sul mercato della profumeria.

Alle collezioni destinate a non essere prodotte o quasi - tanto da diventare fonte di imbarazzo per i confezionisti a cui fa piacere annoverare fra i propri clienti i nomi “hot” del momento, ma che poi devono fare i conti con venduti nell'ordine delle decine di pezzi, di difficilissima gestione produttiva - vanno aggiunte quelle che i designer realizzano essenzialmente come biglietto da visita per guadagnarsi una consulenza prestigiosa e redditizia. Redditizia quanto basta per lo meno a far sopravvivere il marchio eponimo, in un ciclo che si autoalimenta, ma che produce pochissimi capi destinati ad essere indossati. 

Purtroppo l'unica strategia anticrisi efficace, almeno nel medio termine, sarà un inevitabile selezione darwiniana: sopravvivrà il più forte, e c'è da augurarsi che “forte” non sia soltanto il mega brand (del resto il meccanismo di selezione naturale è crudele, basta una collezione o una comunicazione sbagliata per fare la fine delle giraffe a collo corto) e chi offre un prodotto di altissima qualità a pochi privilegiati, ma anche chi ha una visione creativa degna di imporsi.

Una selezione naturale, per quanto dolorosa, può essere salutare, una sorta di reset che costringa a ripensare a cosa si produce e per chi. 

Anche in tempi complessi la moda non è il Titanic, ci si può salvare e sarebbe masochistico rinunciare a rinnovarsi, pure a costo di perdere dei nomi per strada, perché non ci si salva gonfiando il settore di collezioni e abiti tanto cari quanto non sempre di qualità eccelsa, con personalità incerta o al contrario validi solo come statement su red carpet che pochissimi percorrono. Capi che fanno pensare a molti di poterne benissimo fare a meno.

Non c'è posto neppure per tutti i giovani designer, ed è triste, sì, ma c'è posto per tantissime professioni che offrono grandi soddisfazioni, anche creative, di responsabilità e, perché no? di potere (a titolo di esempio qualsiasi designer potrebbe raccontare di scambi “burrascosi” con i modellisti, veri detentori della riuscita di un capo). 

Unioncamere stima nel numero di 75mila, i posti vacanti nella moda da oggi ai prossimi cinque anni, posti chiave di alta specializzazione, quindi lo spazio “per fare” e fare bene, c’è. Basta solo saperlo reimmaginare e reinventare senza ingolfare gli armadi con collezioni ipertrofiche che sembrano ormai soffocarci più che gratificarci.

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