Bruce Weber sul set di una campagna negli anni ottanta (foto courtesy)

Intervista sotto la pioggia

Ci sono cose della moda (parecchie) che a Bruce Weber non piacciono più

Giorgia Motta

Il documentario del regista americano, “The treasure of his youth: un tesoro di gioventù”, ripercorre la vita di Paolo Di Paolo, fotoreporter autodidatta di grande sensibilità

“L’approccio all’immagine di moda ormai cambia ogni giorno. Un tempo c’era un gruppo di persone molto protettive, attente, che ci aiutava a svolgere il nostro lavoro nel modo migliore: erano lì per assicurarsi che ci fossero i vestiti più interessanti, le ragazze più belle. Oggi tutto deve essere fatto molto velocemente” e dunque è meno interessante farlo. Non ho più venticinque anni e non cerco nemmeno di viverli di nuovo” dice Bruce Weber, che però a settantotto non ha cambiato di un singolo dettaglio la panoplia che lo definisce da mezzo secolo e grazie alla quale riesce a riconoscerlo anche chi non saprebbe attribuirgli una sola fotografia o una campagna pubblicitaria: il fazzoletto paisley di cotone annodato sul capo in luogo della kippah, la barba, le camicie a scacchi, occasionalmente ma più spesso che no una sciarpina colorata, e naturalmente la “camera”, la macchina fotografica al collo. 

 

Se nell’ultimo mezzo secolo ci siamo fatti degli Stati Uniti l’idea di un luogo benedetto dalla dea Venere dove tutti sfoggiano grandi sorrisi e corpi atletici è per via dei semi-dei naturalmente sexy che popolano le campagne di Ralph Lauren, le copertine di Vogue America, le campagne di Calvin Klein Abercrombie&Fitch, disgraziatissima avventura imprenditoriale che però fissò gli standard della bellezza occidentale per un buon decennio all’inizio del secolo, e anche un discreto numero di calendari Pirelli, compresa quell’immagine di Eva Herzigova che si cala in gola una manciata di spaghetti e che da ventisei anni turba i sonni di qualunque maschio, anche non necessariamente etero-cis perché esistono fior di ragazzi che con quella bellezza seminuda in grembiulino a quadretti si sono identificati fino al cosplay. Bruce Weber ha reso sexy e famosi perfino i cani, per la maggior parte i suoi, in un volume formato XL ed edito da Taschen che in tre anni è diventato un classico della regalistica natalizia: “The golden retriever photographic society”. Il mio libro più personale”, sorride mentre la pioggia tamburella attorno alla tettoia dove ci siamo rifugiati nel giardino dell’hotel Four Seasons di Milano: “Vede, non mi sono mai domandato se la fotografia fosse arte o meno: mi sono solo chiesto che cosa rappresentasse per me. Mi ha portato gioia, dolori, e un sacco di momenti folli. E’ quello che mi piace”.

 

Nessuno tocca l’argomento, gli accordi extragiudiziali sono stati raggiunti ormai tre anni fa e Weber si è lasciato il brutto momento alle spalle, ma non ci sono dubbi che dei “momenti folli” della sua vita faccia parte la purga collettiva del #metoo nel quale venne coinvolto nel 2018 e che gli provocò una censura cautelativa da parte di Anna Wintour, insieme con Mario Testino. Non ha mai ceduto alle pressioni, ha respinto le accuse a una a una, ma che qualcosa nella bellezza incantevole, fresca e pulita della sua immagine si sia rotto, che l’incanto sia meno splendente, è ovvio anche dai suoi ultimi progetti, perlopiù cinematografici (ancora nel 1988 venne candidato all’Oscar per “Let’s get lost” un documentario biografico dedicato a Chet Baker) dei quali fa parte il documentario a cui lavora dal 2021, “The treasure of his youth: un tesoro di gioventù”, presentato nelle scorse settimane a Milano in anteprima, che ripercorre la vita di Paolo Di Paolo, fotoreporter autodidatta e di grande sensibilità che interpretò, in particolare per “Il Mondo” di Mario Pannunzio, la società italiana fra gli Anni Cinquanta e Sessanta. Il Maxxi dedicò a Di Paolo una mostra nella primavera del 2019, ricostruendo anche lo studio del direttore che più lo aveva sostenuto e per chi ha militato nelle fila di quel glorioso settimanale ormai chiuso da anni e nessuno capirà mai davvero il perché.

 

Di Paolo interruppe la propria carriera ancora relativamente giovane, adducendo come giustificazione, o per meglio dire come denuncia, il suo “grande amore per la fotografia”: si ritirò nel Molise di origine, approfondendo gli studi di filosofia e diventando lo storico ufficiale dei Carabinieri, e lì è morto nel 2023, a novantotto anni. Weber ne ha scoperto l’opera quasi per caso, girovagando con la moglie Nan una mattina per le strade del ghetto di Roma (che lui chiama, in perfetta correttezza politica, “the jewish section”, il quartiere ebraico), e per la precisione nella fantastica libreria di via della Reginella, il Museo del Louvre, che espone migliaia di foto d’autore, fra le quali un’immagine della celebre inchiesta sociologica “La lunga strada di sabbia” sulle abitudini degli italiani in vacanza, che Di Paolo firmò con Pier Paolo Pasolini nel 1959: uno sguardo intimo e realista sull’Italia che riemergeva dalla distruzione e dalla povertà della Seconda Guerra Mondiale. “La mia prima impressione fu che le avessi già viste; non per la tecnica, ovviamente, ma per lo spirito. Mi ricordavano il modo in cui mio padre, che ogni anno visitava l’Europa con mia madre lasciando me e mia sorella a Pittsburgh con una tata un po’ sbadata che andava a dormire alle cinque del pomeriggio, fotografava l’Italia. Tornavano dopo un mese nel quale io ero stato lasciato in pratica da solo a fantasticare e a guardare vecchi film, e portavano con loro racconti meravigliosi e tantissime immagini: il modo di mio padre di osservare il mondo era quello, incantato, di un bambino, e identico era l’approccio di Di Paolo. Ma a ben vedere, tutti noi fotografi conserviamo quello sguardo”.

 

Il documentario, che verrà distribuito all’inizio del 2025, è affollato dai volti di Di Paolo, ma nella scelta si intravvede l’amore di Weber per le facce che suo padre immortalava nei suoi viaggi, i molti sguardi italiani conosciuti al cinema (“il sabato andavamo tutti insieme in centro a vedere una pellicola: dalla “Ciociara”, ho capito che cosa fosse stata la guerra per la gente dei paesini di montagna del sud”), e per la progressiva scoperta di un Paese dove spesso gli piace soggiornare e che scoprì dal punto di vista professionale nei primi anni Ottanta, collaborando con il magazine “Di Lui” diretto da Franca Sozzani prima della lunghissima gestione di “Vogue Italia”: “Ho sempre cercato di essere onesto e sincero rispetto a quello che provo di fronte a un progetto, o alle persone con cui lavoro: quando inizio a lavorare a un film, per prima cosa scatto una foto a chi collaborerà con me. È questo il bello della fotografia: che puoi collaborare con la gente”. 

 

Ho come il sospetto che le culture tradizionali, restie a farsi fotografare perché convinte che cedere la propria immagine a un terzo equivalga a farsi rubare l’anima, sappiano qualcosa del lavoro di Weber. Il film su Di Paolo è dedicato a Piero Tosi, scelta di primo acchito singolare se si pensa che il grande costumista con Pasolini collaborò per un solo film, “Medea”, vestendo Maria Callas, e che non amava per niente farsi fotografare. La cronaca dice Weber e Tosi si incontrarono una volta, a Perugia, per ritirare entrambi un premio. Ma si sa che la cronaca racconta in fondo poco della realtà e di quel mondo che il piccolo Bruce sognava nelle lunghe estati solitarie a Pittsburgh: “Piero era una persona meravigliosa, con cui mi piaceva parlare di abiti la notte, davanti a un gelato, nella magia di Roma”. Sarebbe interessante se, dopo Di Paolo, pensasse a un documentario su di lui.

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