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Maschi in azzurro e “femminucce” in rosa? Un'invenzione recente

Fabiana Giacomotti

I primi distinguo, i suggerimenti di cromie “appropriate al sesso” arrivarono dagli Stati Uniti negli anni immediatamente precedenti al Primo conflitto mondiale e avevano scopi puramente commerciali

"Il cavaliere in rosa”, ritratto giovanile di Gian Gerolamo Grumelli, il notabile rinascimentale par excellence, viene considerato uno dei punti più alti della pittura di Giovan Battista Moroni, come peraltro dimostra la storia del dipinto, dal quale la famiglia dei conti Moroni, bergamaschi doc, non volle mai separarsi dopo averlo acquisito con non poche peripezie un paio di secoli fa. Nonostante la città fosse sottoposta al dominio veneto, quel ragazzo del 1570, niente male anche per gli standard odierni, nel dipinto indossa un completo rosa corallo, o “rosa seca” come si diceva all’epoca, di gusto smaccatamente spagnolo, nei calzoni soprattutto che, così corti a sbuffo, erano in uso solo alla corte di Castiglia, tanto che attorno a quell’abito politicamente così indicativo gli studiosi di storia discutono tuttora. Nessuno ha mai speso invece una parola sulla tinta di quello che oggi definiremmo look: calze e pianelle comprese, sono infatti di un rosa sfacciato, che era un colore da ricchi, anzi da nobili, anzi un colore da ricco maschio nobile: se fossimo negli Stati Uniti aggiungerei la definizione di “bianco” e di “patriarca”, che comunque, in quegli anni, era un merito e non un insulto. Dunque, il conte Grumelli seminava figli, presiedeva banche e opere di carità e vestiva di rosa nell’ammirazione generale. 

 

Questo accadeva perché al tramonto di quel secolo di arte magnifica e di guerre terrificanti, con molti altri conflitti in arrivo e proprio dalle parti del Grumelli peraltro, epidemia di peste compresa, il rosa era un colore perlopiù maschile essendo un derivato del rosso, colore della regalità che era però appannaggio esclusivo del re e dunque toccava accontentarsi, sapendo comunque di trovarsi solo un gradino cromatico più in basso rispetto al sovrano. Il rosa veniva scelto anche dalle donne di carattere, per esempio dalla seconda moglie del Grumelli stesso, Isotta Brembati, che teneva un salotto letterario, scriveva poesie in quattro lingue (questa leggenda che le donne non potessero studiare è un po’ da rivedere: se ricche come lei, potevano eccome), pubblicava saggi in volumi collettanei di intellettuali (una sua lettera è inserita nel testo “Del Secretario” di Francesco Sansovino, faro della cultura letteraria della Controriforma molto sostenuto da san Carlo Borromeo) e insomma partecipava attivamente alla vita del secondo marito, favorendolo nei suoi rapporti diplomatici e politici. Entrambi, dunque, vestivano di rosa in età adulta senza che questo fosse, presumibilmente, argomento di discussione di coppia. Un ritratto di Isotta che testimonia il suo debole per il rosa è stato esposto di recente all’Accademia Carrara nell’ambito di una bella mostra sul Moroni, gloria cittadina, ma ne esiste un altro dov’è più matronale, probabilmente era già arrivata al nono figlio e dunque è abbigliata con sapienza di verde cupo, che era un altro colore difficile e costoso da ottenere e quindi indicava a sua volta lo status sociale del soggetto. Lo dimostra, ancora, uno dei dipinti più enigmatici della storia, il ritratto dei coniugi Arnolfini, di cui una serie di documenti ritrovati presso gli archivi borgognoni indicano che l’autore, Jan Van Eyck, discusse parecchio col committente Giovanni il costo delle ampie campiture verdi della sopravveste della donna ritratta, forse la prima moglie, Costanza, e della veste azzurra che le spunta dai tagli delle maniche. All’epoca, ma in realtà fino a un secolo fa, insieme con il celeste, l’azzurro era il colore più indicato per vestire e per ritrarre le giovinette: “più delicato”, si diceva ancora sulle riviste dell’Ottocento, il primo secolo della storia ad interessarsi dei bambini, intendendo naturalmente il più adatto a suggerire l’illibatezza della ragazzina, il suo bene più prezioso, essendo l’azzurro la tinta del manto della Vergine Maria. 

 

In questi giorni sto lavorando sul catalogo della mostra dedicata a Berthe Morisot al Palazzo Ducale di Genova, e quasi tutte le bimbe ritratte sono vestite di azzurro, a partire dalla piccola Jeanne Pontillon, la nipote dell’artista, che spicca dalla carta di un delizioso pastello del 1877 con una vestina di quell’azzurro vivido che i primi colori chimici, vanto dell’epoca, consentivano anche a chi non avrebbe mai potuto permettersi il guado e il lapislazzulo dei secoli precedenti. I colori sono simboli, come sanno tutti e come sapevano primi fra tutti i pittori medievali, Giotto per esempio, che si incaricavano di usarli con astuzia perché i molti illetterati potessero entrare nella basilica di Padova e dire, guarda quel tizio con il mantello dello stesso giallo che imponiamo ai nostri mercanti ebrei mentre bacia nostro Signore Gesù Cristo, quello è Giuda. 

 

Insomma, per arrivare al punto, non è affatto chiaro come nel giro di qualche secolo si sia arrivati all’inversione cromatica fra rosa e blu e alla sua assegnazione per genere sessuale, maschi cis in azzurro e “femminucce” in rosa. Uso il diminutivo-dispregiativo apposta perché, come forse avrete intuito, lo spunto che ha suggerito questo articolo è il grande successo, ma anche le molte polemiche, che stanno accompagnando “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, il film diretto da Margherita Ferri che racconta le ragioni, in origine insulse, che portarono al suicidio, il 20 novembre del 2012, di Andrea Spezzacatena, adolescente romano vittima di una violenta campagna di cyberbullismo, il primo di un’orrida catena di adolescenti che si tolgono la vita schiacciati dal peso della vergogna, dello scherno e dell’isolamento per le loro scelte di vita, sessuali o meno che siano; gli stessi ragazzi che i boomer come me tendono a non capire perché non sono stati adolescenti all’epoca di Internet e che anche quando non potevano contare su un gruppo di supporto, all’occasione tiravano sberle e architettavano vendette contro i coetanei prepotenti senza che i genitori, la scuola, la preside intervenissero e che il tutto diventasse virale, complicando maledettamente le cose. Andrea, conoscerete certamente la storia, si ritrovò con un paio di pantaloni nuovi tinti di rosa a seguito di un lavaggio sbagliato della mamma, che nel film ha il volto scavato e interessante di Claudia Pandolfi, ed essendo un ragazzo sveglio e “solare”, come dicono adesso quelli che non sanno come spiegare alle telecamere il suicidio di un quindicenne o il femminicidio della settimana per mano di uno che chi l’avrebbe detto, era tanto solare e salutava sempre, decise di indossarli, senza preoccuparsi di quelle che, così recita la descrizione che trovate anche su Wikipedia, ovviamente un copia-incolla del comunicato stampa, sono le “convenzioni di genere”. Vestirsi di rosa per un maschio nel secondo decennio del Duemila equivale dunque a sfidare le convenzioni di genere, mentre i nobili ritratti da Moroni e Gainsborough potevano mostrarsi in culotte di raso color pesca senza colpo ferire, e poi dice che il mondo si è evoluto, che la Rivoluzione francese sia stata la spinta indifferibile per la modernità e che gli uffici stampa sappiano fare il loro mestiere. 

 

Viene il dubbio che le povere animucce, le triste coratelle che frequentavano il liceo Cavour dodici anni fa, non avessero mai sentito parlare di Mick Jagger, grande fan dei pantaloni rosa come tutti i maschi inglesi dai tempi degli Stuart, di Flavio Briatore, valanghe di foto in camicia rosa anche lui, di centinaia di milanesi che “c’hanno la barca al Forte”, ma il punto non è nemmeno questo, prendersela con i piccoli bruti che ogni giorno vedo uscire dalle medie di via Giulia urlandosi epiteti irriferibili non ha senso perché è ovvio che i problemi nascano altrove, in età, luoghi e ruoli diversi, per esempio a Treviso, dove un gruppo di genitori ha cercato di bloccare la proiezione del film di Ferri in una scuola media ritenendolo “inadatto” alle loro creature, oggi coetanee della vittima e dei suoi aguzzini (il Veneto purtroppo su questi argomenti si distingue sempre e Treviso detiene con ogni probabilità una posizione alta nella speciale classifica dell’omofobia diffusa, visto che solo un mese fa è stata archiviata la denuncia di un professore omosessuale contro un alunno che gli aveva dato del “finocchio”, insulto ignoto alla Generazione X a meno di averlo appreso in casa, magari dal nonno). 

Mick Jagger nel 1970 (foto Dominique Berretty/Gamma-Rapho via Getty Images) 
   

Le divisioni, le classificazioni, le categorie sono cose che si apprendono da piccoli ma che vengono trasmesse dagli adulti, e l’attribuzione dei colori per genere non sfugge alla regola. Sul tema ci sono teorie svariatissime, la più accreditata delle quali, che porta l’imprinting dell’Enciclopedia Britannica ed è avvallata da prove testimoniali, cioè dai vestiti, è che i colori pastello, incluso il rosa e il blu, siano stati introdotti alla metà del XIX secolo, appunto con i primi colori chimici che permettevano anche ai piccolo borghesi di sbizzarrirsi con i colori, ma che non siano diventati “sex-specific” fino al XX secolo inoltrato. Prima che i colori pastello diventassero popolari fra i bambini, la maggior parte dei genitori vestiva infatti i propri figli con abiti bianchi fino ai sei anni, circa. La storica americana Jo B. Paoletti ritiene, con una buona dose di ragione, che il bianco fosse particolarmente pratico in anni in cui i detersivi smacchianti erano già entrati nell’uso comune, mentre i colori rischiavano, allora come oggi, vedi appunto il caso di Andrea, di stingersi e di macchiare. Sembra impossibile che si parta da un suicidio e si torni sempre a parlare di lavatrici e di bucati, ma i colori pastello vennero adottati nel momento in cui la combinazione fra i fissanti dei colori e i detersivi di uso comune non fu più instabile, e parlo con cognizione di causa: sono cresciuta in anni nei quali un famoso chitarrista si calava in una vasca piena d’acqua e sapone per mostrare le macchie della sua camicia che si scioglievano come per magia grazie ai superpoteri della sua polvere da lavaggio mentre la tinta della camicia rimaneva inalterata. Dunque, colori pastello per tutti, e senza preclusioni di genere, senza “convenzioni” per dirla con l’estensore del comunicato cinematografico: giallo, rosa, celeste, verde pistacchio. I distinguo, i suggerimenti di cromie “appropriate al sesso” arrivarono dagli Stati Uniti negli anni immediatamente precedenti al Primo conflitto mondiale e, non credo di sbagliarmi, penso avessero scopi puramente commerciali.

 

Queste indicazioni erano però e semplicemente opposte a quelle attuali. Nel 1918, la pubblicazione specializzata “Earnshaw’s Infants’ Department” affermò infatti che “la regola generalmente accettata è il rosa per i maschi e il blu per le femmine. Il motivo è che il rosa, essendo un colore più deciso, un colore più forte, è più adatto al ragazzo, mentre il blu, che è più delicato e delicato, è più carino per la ragazza”. Un numero del “Time” del 1927 scriveva che i grandi magazzini di Boston, Chicago e New York suggerissero il rosa per i ragazzi. In Italia non si segnalano indicazioni specifiche: sulle riviste del periodo si legge di camerette “candide” e di colori genericamente delicati, ma voleste andare in Inghilterra, anche oggi, scoprireste che i bambini delle classi alte indossano cappottini blu e verde scuro e abiti a fiori o a quadretti vivaci che, non fosse per la taglia, potrebbero essere indossati dalle loro madri. La questione del rosa, non pervenuta. Fino al baby boom, cioè alla fine degli anni Quaranta, quando la separazione si fa netta.

   

Dunque, i colpevoli siamo noi, o per meglio dire la prima ondata di noi boomer con i nostri primi fiocchi di tulle sintetico appesi fuori dalle camere delle cliniche dove siamo nati. Il rosa Barbie è roba nostra, come la Barbie del resto, e forse con qualche spintarella da parte di Elsa Schiaparelli attorno agli anni Trenta, ma poi appunto ci fu di mezzo un’altra guerra. La separazione delle carriere cromatiche durò comunque abbastanza poco, perché a metà degli anni Sessanta subì un calo per via dei movimenti di liberazione delle donne, quando indossare i pantaloni e bruciare (simbolicamente, mai visto un falò) i reggiseni divenne imperativo, insieme con l’abolizione dei “pastels”. Indossare gonnone vaporose e abiti stereotipicamente “femminili” avrebbe limitato le opportunità di successo delle ragazze, e molti genitori iniziarono a preferire colori e mode neutre. Ma, visto che le controriforme sono sempre in agguato, e i reazionari fioriscono anche su terra brulla, negli anni Ottanta si assiste a un nuovo orientamento cromatico per genere, e naturalmente anche per forme. Devo essere stata l’ultima mamma a vestire una bambina con le salopette di Oshkosh e i maglioni norvegesi, tre mesi dopo erano tornati i fiocchi e i pizzi, modello Madonna in “Like a Virgin”, a prescindere dai contenuti del testo, si intende. Paoletti indica nell’invenzione dei test prenatali, quando tutti poterono sapere da subito di quale colore tingere la stanzetta con un’ottima approssimazione, la causa di questa moda. Oggi siamo arrivati alle mogli dei calciatori con le unghie ad artiglio che organizzano il gender reveal allo stadio, fra palloncini colorati, senza pensare che magari, fra vent’anni, il poverino/a si sentirà costretto ad adeguare le proprie scelte di vita a quella festa disgraziata davanti a ventimila persone.

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