Il foglio della moda
Non chiamarmi col mio nome. Intervista a Giulia Piersanti
E' designer per Celine e costumista di riferimento di Luca Guadagnino. Detesta la ribalta, si è divertita moltissimo con gli abiti di extension umane di Suspiria, che immergeva nel sangue (finto) una volta al dì, ora si è occupata di Julia Roberts in “After the hunt”
Caso raro nell’esercizio dell’estro italico, Giulia Piersanti è persona una e bina, esempio infrequente di creatività bifronte: stilista per maison come Missoni, Fendi, Balenciaga, Dior e ora knitwear designer per Celine, è al contempo costumista per quasi tutti i film di Luca Guadagnino - da qui in poi semplicemente “Luca” perché tra amici non servono formalità e quindi che bisogno c’è di nomarli per intero. Ha appena finito di lavorare con lui per “After the Hunt”, thriller psicologico con Julia Roberts (insegnante “alle prese con il suo passato” come recita la scheda, bionda per l’occasione), Andrew Garfield e Ayo Edebiri. Ci accoglie nella bella casa di Milano, manifesto abitabile della cultura un po’ gauche-caviar, un po’ woodyalleniana - opere d’arte concettuali, mobili di famiglia, qualche tocco etnico -, così identificabile nell’habitat emotivo delle signore che discendono da famiglie altoborghesi e illuminate (suo padre Massimo, scomparso lo scorso anno, è stato il fotografo che ha documentato la sregolata scena artistica della Roma tra i Sessanta e Settanta), parlano diversi idiomi perché hanno vissuto un po’ qui, ma soprattutto molto là. Nel suo caso: nasce a Roma, ma presto si trasferisce a Parigi con i genitori; va in California, salvo poi tornare per sfuggire all’assordante vuotezza di pensiero della East Coast e approda nel capoluogo lombardo.
“Non c’è nulla che detesti di più quanto avere i riflettori puntati addosso, essere al centro dell’attenzione: mi piace lavorare dietro le quinte, tramestare nel backstage. Non ha mai pensato che sia proprio nelle retrovie il luogo dove si ha maggiore libertà d’azione? “Avevo una mia linea che andava pure bene, ma ho smesso perché mi dava noia vedere il mio nome sull’etichetta e dover sottostare a calendari e appuntamenti prefissati”. Già appassionata d’arte da studentessa, a diciannove anni il primo contratto lo firma – guarda caso – per Miu Miu. Le facciamo notare che oggi, seduta su un sofà beige, sarebbe perfetta per una sfilata della linea d’avanguardia di Prada: pullover vintage da vacanze montane in località non vanziniane, Zermatt sì ma Gstaad no, l’Engadina sì ma Cortina no, jeans oversize, zoccoli stragriffati, calzettoni, capelli in disordine intenzionale e due collane in argento dal pendente a flacone di profumo create da Elsa Peretti per Tiffany: “Le sembro troppo radical-chic? Mah…”, e ride, leggera.
Vestirsi è un po’ come recitare? Gli abiti di ogni giorno sono i costumi della nostra vita? “Mi trovo molto meglio quando devo realizzare capi per trame ambientate nella contemporaneità, anche se, per esempio, in “Call Me By Your Name” ho fatto una grande ricerca per far rientrare i personaggi nelle atmosfere di una famiglia intellettuale negli anni Ottanta, tra camicie azzurre, short color cammello per Oliver e le t-shirt a righe, le Lacoste e i Ray-Ban di Elio, mentre sua madre indossava un blazer sabbia di Giorgio Armani e Superga bianche. Mi interessava inoltre contrapporre un personaggio non europeo agli altri italiani: per questo motivo, vestire Armie Hammer con ampie camicie con colletto fluente e pantaloncini sportivi sottolineava la sua corporatura distinta, mentre le sneaker alte e gli occhiali da aviatore gli davano quella sua certa americanità che Luca desiderava. Sicuramente, ho avuto più autonomia d’invenzione in “Suspiria”, dove ho evocato una tavolozza di colori tenui e fangosi ispirata alle pagine di “Sibylle”, al suo apice la rivista di moda più nota della Germania dell'Est, diciamo una versione socialista di “Vogue”. Ho disegnato persino stampe ispirate a Louise Bourgeois e abiti di vere extension di capelli umani che venivano lavate dal sangue finto e pettinate di nuovo dopo ogni ripresa. Ma naturalmente, lì c’era una diversa narrazione”.
Quant’è traumatico il passaggio dal lusso sartoriale al costume da film? Detta tutta: dove trova maggiore libertà creativa, con un boss come Luca o uno come Hedi Slimane, (direttore creativo di Celine fino a qualche mese fa)? “Il mio compito è accompagnare la visione di una persona, che sia regista o direttore creativo”. Diplomatica. Rigiriamo la domanda: si annoia di più nel retroscena di una passerella che su un set, supponiamo, vero? “Sbaglia: il caos che c’è dietro una sfilata è quasi inebriante, mentre il set, nel momento in cui si gira una scena è lento: lento ed estremamente tedioso. Poi, in realtà, nel mio ruolo direi che la prassi è la stessa: il lavoro di uno stilista avviene mesi prima in uno studio con il suo gruppo: c’è prima una parte di ricerca, poi di sviluppo, di prove e poi si va in scena. E la stessa cosa vale per la preparazione della scena di un film…”. Cioè, lei si annoia sempre, a lavoro finito… “Non dica così. Ho la fortuna di poter scegliere di lavorare con persone di grande talento che rispetto e di cui condivido la visione: in tutti e due i casi s’instaura una relazione nella quale c’è la fiducia di poter portare un po’ di me nelle loro idee”. La psicologia di un personaggio pesa più della psicologia di un cliente? “Si affrontano in modo diverso: ma in ogni caso c’è un’analisi che da un lato è più strutturale a una narrazione, dall’altro si è più legati alle tendenze, ma anche alla sensibilità sociale. Ovviamente nell’industria dell’abbigliamento c’è una maggiore responsabilità, anche nell’educare il consumatore, mentre nella costumistica questo ruolo non è richiesto”.
Moda maestra di vita? “Eh, un po’ sì. Il consumatore va educato, sorpreso con pezzi speciali quando purtroppo i signori del merchandising, pur di fatturare, giocano sul sicuro, assecondano quello che il mercato sembra richiedere. Quando si cede troppo a ciò che consideriamo le richieste dei consumatori, si crea un progetto di breve respiro”. Se il consumatore va sorpreso, deve esserlo anche lo spettatore? "Sì e no. Il costume deve raccontare un personaggio, ma se lo si stupisce un po’ tanto meglio: per esempio, a me piace vestire un antagonista del personaggio principale con qualcosa che non lo faccia sembrare così. Tipo la vicina di Rosemary Woodhouse, la signora Minnie Castevet, interpretata da Ruth Gordon, tutta vestagliette e bigodini, che è in realtà la moglie di Satana in “Rosemary’s Baby” di Roman Polanski: è l'incarnazione vivente dell'idea centrale del film, secondo cui ciò che è familiare è più spaventoso. Dopotutto, non c'è niente di più agghiacciante che sapere che il diavolo si nasconde nella quotidianità: quando si sfornano torte, si organizzano feste, si consigliano dottori e si bussa alla porta di casa”. Sarà pure suo amico, Luca, ma in “Challengers” e in “Queer” però, per i costumi si è rivolto a JW Anderson: certe alleanze fanno bene o male, sia ai registi, sia ai direttori artistici della maison? “Si è trattato di una collaborazione alla pari, visto che loro sono davvero amici (e ti pareva, ndr). Anderson ha selezionato o pensato apposta una serie di capi che andassero a definire meglio i caratteri dei tre protagonisti, non c’è stato alcun product placement”.
Giulia appare troppo gentile e diplomatica perché si sbilanci, e le si chiede se in “Challengers”, dove abbiamo notato una ventina di firme stellari - da Loewe a Chanel a Uniqlo, da Aston Martin a Chanel, da Cartier a Rolex a Juicy Couture fino alla costosissima crema di Augustinus Bader – non ci sia stata dietro una pila alta così di contratti pubblicitari con griffe pazzesche, si schermisce. “No e glielo assicuro, non siamo in “Emily in Paris” o in “Sex and The City”. Per Luca usare quei marchi era una rappresentazione della realtà. Viviamo in un mondo costellato di brand e che alla fine il successo spinge le persone verso il conformismo: tutti i ricchi hanno le stesse valigie, gli stessi gioielli. E comunque, Anderson si è comportato come un vero costumista. Del resto, per “A Bigger Splash”, anch’io ho chiesto a Dior di realizzare abiti disegnati da me per il personaggio di Tilda Swinton”. Niente soldi? Ma allora è un peccato… “No. Luca è proprio così: piuttosto, perché non mi chiede perché non esiste un film che rappresenti il mondo della moda per una volta non vista o illustrata come un fenomeno caricaturale o elitario?”.
Ecco: Giulia, come li vestirebbe quelli di un film sulla moda? “Forse eviterei di usare simboli troppo evidenti, loghi eccessivi, sigle vistose…Gli addetti ai lavori, a cominciare da me preferiscono più un discorso di stile che uno di marchio”. Però, però: Giorgio Armani ha sfondato nel mercato americano quando ha vestito Richard Gere in “American Gigolo” e lì il marchio si vedeva benissimo… “Era funzionale alla trama, ed è stato girato nel 1980. In realtà - penso anche a Prada per “Il grande Gatsby”: trovo che queste forme di incontro in una terra di mezzo tra la moda e il costume siano stimolanti, purché il risultato sia frutto di un lavoro comune e di una preponderanza di una parte sull’altra”. Si spieghi meglio. “Non ci devono mai essere due entità egotiche, perché nel cinema o nel teatro l’abito non deve mai rubare la scena al personaggio. E le dirò, anche nella moda”.
Alla Scala