Il foglio della moda - Identità in maschera
Lezioni di vita dal palcoscenico
Il vecchio gioco delle convenzioni sociali, il ruolo dell’abito e del travestimento, non riguardano solo “Don Álvaro o la fuerza del sino”, l’opera tratta dal drammone romantico spagnolo “la fuerza del sino” che, dopo un quarto di secolo, apre la nuova stagione del Teatro alla Scala, ma anche il nostro modo di percepire l’altro, il diverso, il fuori casta. Riflessioni anche per la moda di oggi
Poi uno capisce, ci mancherebbe, e si sa che questa tendenza ad attualizzare l’opera per “avvicinarla” ai giovani, renderla più comprensibile, palatabile, usate pure l’aggettivo che volete, abbia ormai assunto i codici del diktat. E dopotutto ogni opera è figlia del suo tempo, non potrebbe essere altrimenti e non sono sicura che vedere, oggi, un’opera rappresentata nelle modalità tecniche e con i costumi coevi alla sua stesura sia un’esperienza esaltante, e per saperlo basta recarsi al teatrino di Drottingsholm, in Svezia, dove si assiste seduti su panchette di legno a rappresentazioni filologiche con le machinerie di metallo e pino, l’illuminazione a candele, i costumi riprodotti in ossequio agli originali dalla manifattura al tessuto (zero poliestere, che comunque a teatro non funziona mai per via della rifrazione della luce sul sintetico) e tutto l’apparato suona falso perché fermare il tempo è un’idea balzana.
Però vi devo dire che quando, alla conferenza stampa di presentazione della “Forza del destino” che torna al Teatro alla Scala dopo un quarto di secolo di assenza e molte variazioni lessicali scaramantiche (“la forza del cestino”, indimenticabile titolo di un florilegio di strafalcioni e perle di “aspiranti scrittori” raccolti da Ida Omboni per Mondadori che i modaioli hanno adottato en masse, ma anche “la forza del delfino”, declinazione scelta da un membro del cast del quale non vi riveleremo il nome neanche sotto tortura), Riccardo Chailly ha parlato di “guerra e patriarcato”, un attimo di mancamento mi è venuto. Perché, anche se non sono d’accordo con Luca Ricolfi quando sostiene che “il concetto di patriarcato non funzioni come categoria analitica” ma sia “uno pseudoconcetto”, anteponendogli quel prefissoide che ne azzera la portata relegandolo nella categoria del luogo comune dove peraltro è già stato spinto da anni di iniziative di “marketing e comunicazione”, credo che costringere un drammone romantico nel perimetro delle battaglie di genere contemporanee significhi abbracciare la stessa cultura woke che abbatte le statue di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti, dove non mise mai piede, e tenta di azzerare la storia.
Certamente la donna Leonora scritta dal duca de Rivas nella sua “leyenda” “Don Álvaro o la fuerza del sino” è un esempio di sottomissione e auto-colpevolizzazione inaccettabile per questi tempi, ma se vogliamo era un’estremizzazione anche per l’anno 1862 in cui l’opera, col testo di Francesco Maria Piave, andò per la prima volta in scena a san Pietroburgo (le foto che ritraggono Verdi con colbacco e il paltò in stile russo, scattata in occasione della prima visita allo zar, sono strepitose). Già allora l’esaltazione del patetico, dell’eroe solo, byroniano, che lotta contro il destino cinico e baro come Alvaro, le fanciulle virtuose perseguitate dalla sorte in cui anche De Sade aveva intinto voluttuosamente il pennino ottant’anni prima, erano pretesti per parlare d’altro.
Lo aveva fatto in primis de Rivas, alla metà del terzo decennio dell’Ottocento, quando aveva pubblicato il suo drammone. Politico liberale aristocratico, era stato esiliato nel 1823 dal partito assolutista di Ferdinando VIII: per lui la difesa di Alvaro, nobile sì, ma di origine centro-americana, dunque per gli europei un “meticcio”, era un modo per prendersela con la nobiltà tradizionale spagnola, che al suo personaggio, e dunque in genere agli outcast, ai fuoricasta, agli esclusi, non avrebbe mai riconosciuto, cito il testo originale, di poter “ser marido de una emperadora” nonostante le carte, anzi i quarti, in regola. Per Giuseppe Verdi questa polemica sociale, questo “costumbrismo”, era un aspetto irrilevante; il suo spettacolo doveva funzionare, banalmente, dunque non poteva prevedere solo morti e ammazzamenti e doveva invece introdurre macchiette e scene di genere, in logica shakespeariana (quando Tito Ricordi provò a fargli togliere il personaggio di fra’ Melitone, rispose seccamente che non se ne parlava neanche). Fra molte difficoltà e discussioni con i librettisti (a Piave, molto malato, era andato gradualmente sostituendosi Antonio Ghislanzoni, che avrebbe trovato la soluzione manzoniana del ravvedimento di Alvaro) trovò, pur senza totale soddisfazione, l’equilibrio che cercava, cambiando anche il finale. Volendo sintetizzare, lungo tutta l’opera, il sacrificio costante, in fondo, è solo di Leonora, e se non fosse che tutte le eroine o quasi della lirica finiscono malissimo, forse si potrebbe dire che sì, l’opera ha un’impronta patriarcale, ma non specificamente quest’opera.
Tutta l’opera dell’epoca romantica fino al verismo racconta di femminicidio (Carmen), di sacrificio (Gilda), di persecuzione psicologica ed economica (Violetta: mai personaggio sarà più squallido di Alfredo, un mantenuto molle, inconcludente e volgare). Su questo aspetto, fino ad oggi sottovalutato, nel 2020 Marina Abramovic ha costruito uno spettacolo, “7 deaths of Maria Callas” con fantastici costumi di Riccardo Tisci (vedere intervista a pagina 3), ma nella lettura che ognuno dà di un’opera, nella “Forza” il tema che forse più attraversa le epoche e le volontà dei suoi diversi autori è l’identità, ma non di genere, bensì sociale: quella nella quale si nasce e quella che si vorrebbe raggiungere, quando l’originale non soddisfa. Alvaro lotta per essere riconosciuto e accettato dalla famiglia, la “stirpe” di Leonora, peraltro più ricca di spocchia che di denari (nelle “ordinazioni e disposizioni sceniche originali”, Piave e Verdi descrivono chiaramente il salone del marchese di Calatrava “addobbato nello stile del secolo diciottesimo, però in cattivo stato”), Leonora è costretta a travestirsi, non tanto e non solo per sfuggire all’ira del fratello che la crede sedotta da un tizio infrequentabile, quanto per occultare il suo genere e difendere la sua virtù in mezzo a soldati e monaci, come hanno fatto nella storia centinaia di donne prima di lei a partire da santa Marina.
L’abito come mezzo di modulazione e modellamento dell’identità di genere e sociale è un argomento sul quale la moda fonda le proprie fortune (o forse le fondava visto che dell’accessorio e del vestito come status symbol ormai si interessano solo in provincia e nei paesi emergenti, e nemmeno granché: il gioco del momento in tutti i salotti è di dichiararsi estranei alle seduzioni della griffe) e del quale si sono occupati forse dalla prima costituzione delle società i legislatori, e dall’istituzione della Chiesa Cattolica perfino i santi riconosciuti e i padri della Chiesa, in particolare san Paolo. Il timore che dietro all’abito si nasconda l’indicibile, o il pericolo, o la truffa, è ancora presente in ognuno di noi, anche nella società occidentale che si crede evolutissima, quando per esempio proibisce il velo islamico (che le donne di fede musulmana vogliano indossarlo o, al contrario, lottino per toglierselo, è un’altra questione), oppure quando si trova di fronte a sedicenti carabinieri o medici: il destino, spesso, indossa le insegne (in-signo) delle professioni riconosciute, ma nasconde l’inganno. Dunque proprio in quest’ottica, e cioè la mistificazione, la semantica potenzialmente ingannatrice dell’abito, habitus sociale e anche proprio, agisce buona parte dell’opera, che il regista Leo Muscato non colloca in alcuna epoca definita e univoca, ma fa svolgere a cavallo di quasi quattro secoli. Certe convenzioni sono connaturate alle società dell’uomo, dunque non sono esclusivamente occidentali e basti pensare al Giappone; certi meccanismi non si esauriscono mai.
Al di là della realizzazione del concetto in scena, questo assunto molto condivisibile sulla ripetitività della storia, l’ineluttabilità non tanto del destino quanto e appunto dei ricorsi storici, su questa giostra, questo merry-go-round di cavallini basculanti sì, ma su un’asta fissa, ha lavorato per unitarietà, perfino nei tessuti, anche la costumista. Silvia Aymonino, che le cronache riportano come assistente nell’esecuzione della “Forza” del 1999, con la direzione di Riccardo Muti e la regia, le scene e i costumi di Hugo de Ana, e oggi è la titolare degli abiti e dello stile del racconto (suoi anche i deliziosi “Zite ‘ngalera” di Leonardo Vinci della scorsa stagione, in coppia con la scenografa Federica Parolini che in questa Prima firma le scene), ha scelto un unico tessuto, un lino a trama grossa, quasi una teletta per modelli di prova, e li ha trasformati in divise militari che ripercorrono non solo le diverse epoche, ma anche la diversa trattazione che di questi capi simbolici hanno fatto prima la pittura e poi la fotografia. Ed ecco che al bianco delle divise settecentesche segue una tinta ottocentesca fra che stempera dal mattone al burro come nei quadri di Fattori, e il colore grigio metallo, acciaio, dei cappotti militari della I guerra mondiale, visti attraverso le prime fotografie pubblicate sulle riviste di quegli anni, a partire dalla “Domenica del Corriere”.
Le guerre di oggi, sporche, macchiate e non solo in mimetica, chiudono questo racconto per immagini dove le prime parti vale almeno quanto il coro. Voci interne al Piermarini, che per il 7 dicembre si presenta restaurato nella sua splendida facciata neoclassica con il timpano restaurato e i fregi neoclassici del frontone, ovviamente azzurro ghiaccio, tornati a farsi ammirare, dicono che i costumi di Jonas Kaufmann fossero stati sì disegnati, ma mai tagliati. Forse la defezione di questa voce meravigliosa, ma ormai cinquantacinquenne, era nell’aria da mesi, mentre alla prova generale Brian Jagde, quarantaquattro anni, che ha già cantato in “Cavalleria Rusticana” la scorsa primavera, è piaciuto a tutti. Si inaugura fra due giorni, le signore finiscono le prove dell’abito che alla “Prima”, tendenzialmente, ci si fa confezionare apposta. Questione di identità sociale, appunto.
Alla Scala